sabato 31 ottobre 2015

Il trionfo di Napolitano alla fine della parabola del Pci

Il presidente emerito della Repubblica sul ruolo del leader comunista, le sfide a sinistra e il 'partito della nazione'. "Inutile avere un dna sbiadito"
di SIMONETTA FIORI Repubblica 31 10 2015

Che cosa è davvero il riformismo, una cultura di minoranza o l’unica anima possibile per una sinistra di governo? E in Italia, quasi venticinque anni dopo la fine del Pci, ha vinto o perduto?
«Non ci si può caratterizzare come partito mantenendo solo una traccia sbiadita del Dna dei propri progenitori». A Giorgio Napolitano sta a cuore il rapporto tra politica e cultura, tra agire politico e conoscenza storica. I suoi recenti interventi pubblici molto insistono su questo nesso che è andato sgretolandosi negli ultimi decenni, soprattutto a sinistra dove tradizionalmente è stato molto forte. Un binomio – politica e cultura – che Napolitano come molti della sua generazione incarna esemplarmente e a cui vuole ora dedicarsi da “testimone” e “storico di complemento”, come spiritosamente s’è definito ricevendo la laurea in Storia all’Università di Tor Vergata. La riflessione sul rapporto tra politica e cultura chiama in causa le trasformazioni della sinistra, ma con un’avvertenza. «Non faccio più politica di partito ancor prima di essere eletto al Quirinale. E da presidente della Repubblica non sono mai intervenuto nel travaglio o nell’evoluzione di una formazione politica in particolare. Oggi il mio è un contributo di riflessione storico- culturale».
Riflessione politico-culturale che lei, presidente Napolitano, lamenta come molto povera, anche a sinistra.
«Indubbiamente questo impoverimento c’è stato, anche perché sono scomparsi i canali attraverso cui si formava una cultura politica nei partiti: riviste, scuole, seminari e convegni pubblici. E una politica indebolita culturalmente, priva di autocoscienza storica e nutrimento ideale, perde anche forza di persuasione e capacità di guida».
Lei insiste sulla necessità di ripensare anche criticamente le proprie radici. Proprio in questi giorni sull’ Unità Biagio De Giovanni, intellettuale a lei molto vicino, ha dato inizio a una discussione su “Berlinguer conservatore” sostenendo che il segretario del Pci non rinunciò mai a una visione leninista, imperniata sull’Ottobre Rosso.
«Lo scritto di De Giovanni mi è parso molto serio anche nella sua complessità. Berlinguer andò molto avanti nel differenziarsi da posizioni ideologiche e politiche proprie del comunismo sovietico, ma certo non ha mai cessato di ribadire il carattere rivoluzionario del partito, pur nella linea indicata da Togliatti: un processo graduale di trasformazione attraverso vie democratiche.
Questo significava avere come obiettivo storico il superamento del sistema capitalistico».
Da qui, sostiene De Giovanni, l’impossibilità per il Pci di aderire alla socialdemocrazia.
«La matrice rivoluzionaria impediva al Pci di accettare il riformismo sul piano della dottrina, dei principi, ma la sua azione politica dentro le istituzioni repubblicane fu largamente un riformismo di fatto. Ci fu in sostanza una convergenza con la socialdemocrazia europea, però nella diversità dei rispettivi fondamenti teorici. Ma il Pci non era un monolite come alcuni oggi lo vogliono rappresentare. Ci fu tra noi chi tentò di andare al di là dei rapporti che pure Berlinguer ebbe con Olof Palme e Willy Brandt, muovendosi per una piena identificazione con i principi e gli obiettivi delle forze socialdemocratiche europee».
Però quella linea di cui lei è stato protagonista restò in minoranza. E il percorso di integrazione della sinistra italiana nel socialismo europeo sarebbe stato ancora lungo.
«Il Partito democratico è entrato nel Pse solo l’anno scorso. Sono passati tre decenni, con diverse occasioni mancate per la sinistra italiana nel suo insieme, incapace di unirsi su una prospettiva e su un programma coerentemente socialdemocratici».
In questo lei sembra condividere l’analisi di De Giovanni sull’evoluzione della sinistra: dopo la fine dell’Urss, nelle formazioni successive al Pci – ossia Pds, Ds e Pd- non c’è mai stato un nuovo inizio, una rifondazione vera. Questo nuovo inizio, secondo lo studioso, è stato sostituito da un’altra cosa: dall’incontro di due culture sconfitte – la comunista e la cattolica – ad opera di quegli stessi uomini che avevano condiviso la sconfitta politica.
«Non si può però dimenticare il tentativo di far nascere un partito realmente nuovo: questa fu, nel dicembre del 1990 al Teatro Capranica di Roma, l’iniziativa della componente riformista del Pci, con apporti anche di altre personalità, in particolare socialiste. Però le forze di questa componente erano limitate e non riuscirono a influenzare in modo determinante i caratteri del nuovo partito che nasceva dal vecchio tronco del Pci».
Quindi condivide il giudizio che la generazione successiva a quella di Berlinguer non fu capace di dar vita a un nuovo inizio? E che solo un’altra leva può oggi farlo?
«Sì, un coerente nuovo inizio non c’è stato. Non è tuttavia questione di anagrafe, ma di coraggio politico e culturale».
Oggi il Partito Democratico è entrato nel Pse, nella famiglia del socialismo europeo. Ma il suo nuovo nome dovrebbe cambiare in Partito della Nazione, formula che ha sollevato molte perplessità.
«Non voglio imbarcarmi in una discettazione sul partito della nazione. Voglio però citare una posizione che giudico interessante: è quella espressa da Peter Mandelson sulle cause della sconfitta del partito laburista guidato da Ed Miliband. Secondo Mandelson, stretto collaboratore di Tony Blair e tra gli ispiratori del New Labour, l’errore di Miliband è stato quello di caratterizzare il partito in ristretti termini di classe, di aver presentato il suo partito come “una metà della nazione in guerra contro l’altra”. E invece per guadagnare consensi e dunque vincere le elezioni e governare – che dovrebbe essere il compito naturale di ogni partito politico in un paese democratico – è essenziale parlare alla nazione. Ma parlare alla nazione tutta, da un punto di vista, s’intende, che sia, nel caso inglese, quello laburista».
Parlare alla nazione mantenendo un proprio punto di vista: siamo molto lontani dal partito “pigliatutto”, come qualcuno ha definito il partito della nazione.
«Non mi interessa addentrarmi in una catalogazione nominalistica. Il punto di vista di una forza di sinistra o di centro-sinistra non deve essere espressione degli interessi solo dei gruppi sociali di riferimento, magari interpretati in chiave corporativa, ma dell’interesse generale della nazione. Un grande leader laburista appena scomparso, Denis Healey, ha sempre polemizzato con l’ala sinistra del suo partito, che vedeva la politica come giuoco e come scontro e non concepiva il Labour come portatore di una visione di governo».
Anche nell’avvicendarsi di leader molto diversi il Partito Laburista è rimasto ancorato alla sua storia.
«Il rapporto tra agire politico e conoscenza storica mi sembra una questione essenziale: non si può operare consapevolmente se manca una base di conoscenza e riflessione storica. Questo vale soprattutto per i partiti che hanno conosciuto profonde trasformazioni, avendo alle spalle elaborazioni ed esperienze che non possono essere cancellate o rimosse, anche se non debbono essere idoleggiate né tantomeno bloccare la ricerca di approcci culturali e politici realmente nuovi. Comunque, non ci si può caratterizzare come partito, anche se nato da più radici, mantenendo solo una traccia sbiadita del Dna dei propri progenitori».
Che cosa significa oggi mantenere un’ispirazione di sinistra?
«Che domanda. Occorrerebbe lo spazio di una enciclopedia. Posso fare qualche esempio: significa affrontare la problematica del crescere delle diseguaglianze, ricorrendo agli strumenti politico- intellettuali offerti dalla più avanzata cultura italiana e internazionale. Penso alla ricca ricerca di Salvatore Veca, riferita anche a quella di John Rawls, sulle teorie della giustizia, sulle “questioni di giustizia”. O penso al respiro storico- culturale con cui affrontare il tema delle migrazioni, esemplarmente suggerito da Massimo Livi Bacci e dall’Accademia dei Lincei. In generale, un’ispirazione o identità della sinistra comporta oggi una visione alta - imperniata sul nesso Italia-Europa e sul nesso Europa-Mondo delle questioni cui urge dare una risposta».
Lei oggi come si definirebbe: un europeista riformista?
«Sì, un riformista per l’Italia e per l’Europa: entrambe hanno bisogno di riforme».
E se aggiungessi: europeista riformista di sinistra?
«La mia storia si è svolta per la maggior parte in un partito di sinistra, ma non è il caso di esibire carte di identità scadute. Alla mia età non sono tenuto a definirmi in termini tradizionali. E non devo mettere targhette fuori dalla porta».
Lei da riformista dentro la storia della sinistra italiana si considera uno sconfitto o un vincitore?
«Mi considero, così scrissi concludendo nel 2005 la mia autobiografia politica, come uno che insieme con tanti “ ha combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate, e cercato via via di correggere errori e di esplorare strade nuove”. Tra vittorie e sconfitte».

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