sabato 17 ottobre 2015

La crisi della democrazia moderna: una rassegna

David Runciman: Politica, Bollati Boringhieri, pp. 174, € 11

Risvolto
Potendo scegliere, oggi, dove vi piacerebbe nascere? In Danimarca o in Siria? Pochi avrebbero dubbi: la Danimarca è una nazione ricca, con uno stato sociale tra i più efficienti al mondo e una speranza di vita tra le più alte; la Siria è nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, ma anche prima della guerra le cose non andavano nel migliore dei modi. Ma perché la Danimarca è la Danimarca e la Siria è la Siria? La differenza – sostiene Runciman – è tutta politica. Che lo si voglia o no, la politica è importante, e se vogliamo operare nel mondo e migliorarlo, è anche l’unico strumento che abbiamo a disposizione.
David Runciman riassume i temi portanti della teoria politica, presentando in maniera estremamente chiara il pensiero dei giganti indiscussi: Machiavelli, Hobbes, Constant, Montesquieu, Weber, Rawls, contestualizzando i loro scritti e applicando le loro idee al «qui e ora», nella nostra epoca tecnologica e globale. C’è senz’altro una disaffezione profonda da parte dei cittadini occidentali nei confronti della politica, che sempre più spesso è percepita come appalto di una casta privilegiata e distante dal mondo reale. Questo breve e chiarissimo libro arriva dunque nel momento giusto, a ricordarci che la politica può arrivare a generare sia la Danimarca sia la Siria. Dipende.

David Runciman insegna Scienze politiche a Cambridge, dove è a capo del Dipartimento di Politica e Studi internazionali. Pubblica regolarmente per diverse testate, tra le quali «The Guardian» e la «London Review of Books». Tra i suoi libri si segnalano The Confidence Trap. A History of Democracy in Crisis from the First World War to the Present (2013), Political Hypocrisy. The Mask of Power from Hobbes to Orwell and Beyond (2008) e The Politics of Good Intentions. History, Fear and Hyprocrisy in the New World Order (2006). Politica è il suo primo lavoro pubblicato in Italia.


Dopo la crisiRalf Dahrendorf: Dopo la crisi. Torniamo all'etica protestante?, Laterza, pp. 64, € 9

Risvolto
«Nel caso favorevole le crisi sono temporali purificatori. Può anche darsi che la crisi attuale favorisca un cambiamento di mentalità che alla fine induca nelle persone un atteggiamento più prudente rispetto a quello promosso dal capitalismo di debito. Quali possano essere i meccanismi sociali capaci di condurre a un simile cambiamento non è però chiaro. Non pare comunque che stiano nascendo movimenti politici in grado di offrire progetti di un futuro alternativo che abbiano una qualche speranza di raccogliere ampie adesioni. Il motivo è semplice: la crisi ha prodotto indubbiamente vittime, ma non ha creato una nuova forza politico-sociale capace di promuovere un cambiamento di mentalità in nome di un’immagine del futuro che abbia prospettive di successo».


Ciò che resta della democraziaGeminello Preterossi: Ciò che resta della democrazia, Laterza, pp. 192, €20

Risvolto
Derive oligarchiche, delegittimazione dei partiti, scollamento tra istituzioni e popolo, dominio dei poteri economici. Perché proprio quando la democrazia sembra diventata ovvia, la partecipazione deperisce e il potere reale diventa sempre più opaco e indiscutibile? Può rinascere un’energia politica nuova e dissidente che rompa il conformismo del discorso pubblico dominante, rilanciando la sovranità democratica e la dimensione sociale dei diritti, oggi gravemente minacciate?



Una politica di contenutiLa crisi delle nostre società è dovuta anche a un vuoto d’idee che va colmato, partendo dallo Stato sociale, dalla dignità e dai dirittiBodei Domenicale 27 12 2015
Che la democrazia non goda di buona salute è testimoniato non solo da una diffusa percezione di disagio, ma anche da una ormai numerosa mole di ricerche. Le ragioni addotte e i sintomi descritti sono molteplici. Ne elenco alcuni: il dominio dell’economia sulla politica; lo svuotamento dei contenuti della democrazia stessa a causa della scarsa partecipazione dei cittadini ai suoi processi; il rafforzarsi al suo interno delle oligarchie. In quest’ultimo caso, è significativo che perfino insigni studiosi siano giunti a sostenere che le elezioni costituiscono un “inchino” al popolo, una riverenza che serve a dargli l’illusione di contare quale autentica fonte di legittimità.
Attraverso analisi acute e stringenti, Geminello Preterossi prende sul serio tutte queste affermazioni, non esorcizzandole con uno scaramantico vade retro!, ma cercando di individuare i punti deboli delle attuali democrazie per capire se è possibile porvi rimedio senza cadere nelle banalità della retorica pro o contro questo regime. Da questa prospettiva, anche il populismo, comunque inteso, non è oggetto di una facile condanna, giacché rinvia a una crisi profonda del sistema di rappresentanza e a un disagio che, puntando su aspetti reali di degenerazione della politica, crede di combatterla grazie alla totale sostituzione delle attuali classi dirigenti, accusate in blocco d’incompetenza e corruzione.
Per dare una risposta a queste difficoltà, sostiene Preterossi, occorre «fare i conti con la metafisica moderna, con i presupposti teorici ultimi del nostro lessico politico e con le implicazioni reciproche dei concetti che lo strutturano (come soggetto e diritti, volontà e artificio, sovranità e popolo, egemonia e consenso)». Egli mostra così come tutte queste entità siano costruzioni simboliche moderne, che non hanno nulla di naturale e che sono perciò fragili qualora non vengano sorrette da qualche appoggio esterno; sa, inoltre, che la “secolarizzazione” non è semplicemente la traduzione senza residui di termini e modelli teologici nel linguaggio della politica, la discesa del trascendente nell’immanente, dell’eterno nella storia o la trasfigurazione del Dio immortale delle religioni positive nel «Dio mortale» dello Stato teorizzato da Hobbes.
Le categorie del politico moderno non si sviluppano, infatti, per opposizioni nette in cui ogni elemento delle coppie sopra ricordate cancella il proprio antagonista. L’immanenza della politica non ha, ad esempio, eliminato il bisogno di trascendenza e già Max Weber aveva colto «la funzione compensativa del potere carismatico rispetto alla perdita simbolica che il tramonto delle forme tradizionali di legittimazione e il passaggio alla legittimità come legalità e razionalità scopo-conforme comportava». Ma è, soprattutto, con l’ultimo Habermas di Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (Roma-Bari, Laterza, 2015) che Preterossi si confronta, accogliendo alcune sue tesi e respingendone altre (così come fa, in altre parti del volume, con Carl Schmitt o Ernesto Laclau).
Per Habermas la debolezza della democrazia dipende dal fatto che il disincanto moderno ha fatto dimenticare che le norme giuridiche e politiche non poggiano soltanto sulla pura ragione, ma su presupposti inespressi, pre-razionali e “presecolari”, che le sostanziano e danno loro l’energia necessaria per essere efficaci. La filosofia (ma anche la politica, aggiunge Preterossi) deve tradurre nel suo linguaggio questi presupposti taciti, rappresentati dal sacro e veicolati dal rito e dal mito. Per quanto appartenga a una fase pre-linguistica, il rito è un potente mezzo di comunicazione, capace di plasmare l’identità collettiva, di rispondere alle paure e alle speranze che caratterizzano la condizione umana, di costituire il ponte che, assieme al mito, elabora linguisticamente – e in parte razionalizza – il sacro, permettendogli di entrare nel discorso mondano.
Nel puntare sull’autonomia dei soggetti, Habermas ne sottovaluta la politicizzazione, la sola in grado di creare, a partire da persone atomizzate, la massa critica indispensabile ai cambiamenti. In più, il rifugio da lui trovato «nell’asilo offerto dalla cultura religiosa [...] è più un sintomo che una risposta». Preterossi accoglie però il concetto più generale che, per funzionare, la democrazia necessita di un apporto energetico mobilitante, «di un investimento simbolico, dell’edificazione di credenze e convinzioni collettive, orientate (egemoniche)».
In mancanza di tale eccedenza rispetto al sistema delle regole e delle procedure, si ottiene l’opacizzazione del potere e la spoliticizzazione dei cittadini. Non coinvolgendoli più direttamente nelle sue vicende, questo genere di democrazia anemica rischia pertanto di renderli inermi nel «grande e terribile» mondo globalizzato. La loro passività avvalora poi l’immagine nichilistica di un regime privo di fondamento proprio perché, in quanto artificiale, ha rinunciato a ogni “vero” fondamento. In quanto volutamente infondata, la democrazia deve essere compensata «da un processo di legittimazione permanente», da valori simbolici condivisi e unificanti, che le diano senso.
Da dove trarre simili risorse? Da una politica che si fa carico «di riempirla di contenuti sociali e apre spazio all’azione collettiva, compensando quel senso di relativo spaesamento che un ordine post-tradizionale sempre comporta». Tali contenuti sono, tra l’altro, offerti dallo Stato sociale, oggi minacciato nella sua esistenza, senza il quale le attuali democrazie non possono esistere nella loro pienezza e senza il quale perdono di consistenza la solidarietà, la dignità umana e i diritti (anch’essi costrutti artificiali non garantiti in assenza di un «ambiente democratico»): «La sicurezza sociale è il terreno sul quale fiorisce tanto un concetto di giustizia compatibile con il pluralismo, quanto l’azione di individui liberi come cittadini (e non solo come privati) perché non troppo diseguali».
Il libro di Preterossi ha il merito di disincagliarci dai dibattiti contingenti sulla crisi della democrazia per scavare in profondità sui suoi presupposti.

I danesi stanno meglio dei siriani? Merito della politica 
Dal politologo Runciman al decano liberale Dahrendorf si moltiplicano gli autori che rivalutano la dialettica sociale 

Massimiliano Panarari Stampa 16 10 2015
Il dibattito sul malandato stato di salute della nostra democrazia liberale ferve. Buon segno, in generale, la discussione; meno buono certamente, però, per la «paziente», visto il profluvio di diagnosi e prognosi e la gran folla che si accalca attorno al suo capezzale. Ma in casi come questi, appunto – a dispetto del famoso ritornello di un film di Nanni Moretti –, e comunque la si pensi: «sì, il dibattito sì».
Alcuni volumi freschi di stampa affrontano l’annosa questione della crisi dei sistemi rappresentativi dai fondamentali. Ovvero dalla politica, l’oggetto vero della delegittimazione e del malcontento che si riverbera sui nostri regimi liberaldemocratici, presa tra i vari fuochi della spoliticizzazione e dell’antipolitica (parola che racchiude un universo di fenomeni). E, quindi, concordano diversi studiosi e intellettuali, se non la si rilancia quale orizzonte per la soluzione dei problemi della collettività, si rivelerà sostanzialmente impossibile guarire le democrazie malate. 
Siria o Danimarca?
Lo dice David Runciman, professore di Scienze politiche a Cambridge (e collaboratore del Guardian, nonché protagonista di una furibonda polemica con l’autore de Il cigno nero Nassim Nicholas Taleb), nel suo primo agile libretto tradotto in italiano, Politica (Bollati Boringhieri, pp. 174, € 11); dove, per spiegare quanto la politica risulti importante per la vita dei singoli e dei gruppi, mette in parallelo due Paesi agli antipodi: la martoriata Siria e la quasi paradisiaca Danimarca. Ricordando che, cinque secoli or sono, la nazione scandinava era per l’appunto molto simile all’attuale Paese in disintegrazione del Medio Oriente, tra guerre di religione, violenza incessante, assenza di valore della vita umana ed economia di sussistenza. Oggi la Danimarca peccherà magari un po’ di noia, ma la sua qualità della vita e il suo livello di sicurezza (sotto ogni profilo) costituiscono un oggetto del desiderio per tantissimi. La ragione della differenza tra la coppia di Paesi, argomenta l’intellettuale britannico, si rivela «semplice e complessa» al tempo stesso, e risponde al nome di politica.
Per un verso o per l’altro, «tutto è politica» insomma. E, infatti, tenendo sempre fissa la barra della comparazione, il primo punto concerne il tema del controllo della violenza, l’elemento che istituisce e definisce, in bilico tra coercizione e consenso, la società politica, oggetto di trattazione di secoli di storia del pensiero che trova uno dei suoi vertici nelle riflessioni di Thomas Hobbes.

Chi fa le regole
Runciman perora la causa della centralità della politica anche – e specialmente – di fronte al dilagare di quelle forze autenticamente globali – in primis, i mercati e la tecnologia (tra di loro strettissimamente intrecciati) – che la sopravanzano. Perché, per quanto appaia inadeguata al loro confronto, chi altri se non la politica può generare qualche modalità di regolazione rispetto all’eccesso di animal spirits che tali potenze evocano? Così come unicamente la politica – che non coincide con la moralità, ma di essa dovrebbe tenere conto – può offrire una risposta all’incremento delle disuguaglianze tra le nazioni e, al loro interno, di quelle tra le fasce della popolazione (con l’arretramento e lo spappolamento sempre più preoccupante dei ceti medi). Solo che, rimarca lo scienziato politico inglese, se anziché classi dirigenti all’altezza, le democrazie si trovano rinserrate tra tecnocrati, oligarchie di iper-ricchi che non incrociano mai visivamente e personalmente i loro simili meno fortunati («lontano dagli occhi, lontano dal cuore...») e una «politicuccia da pollaio», i rischi diventano giganteschi. Ma l’autore è un anglosassone, e quindi, pur consapevole dell’enormità dei problemi, si appella all’ottimismo.
Sempre meno ottimista, invece, è diventato uno dei protagonisti della sociologia novecentesca, il grande liberale Ralf Dahrendorf, che nel suo nuovo libro (Dopo la crisi; Laterza, pp. 64, € 9) osserva come la crisi del «capitalismo di debito» non abbia affatto spalancato le porte a nuovi movimenti politico-sociali in grado di generare un cambio di mentalità, ma finisca per colpire ulteriormente quella coesione sociale da cui, in ultima istanza, dipendono le libertà fondamentali. Anche se questo stato di cose, soggiunge, non deve esimerci dal coltivare la «speranza», senza la quale un intellettuale pubblico si trova davvero in ambasce. 

Ritorno alla cittadinanza
Suggerisce Geminello Preterossi (professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Salerno e uno dei «registi» del Festival del Diritto di Piacenza) nel suo ultimo volume Ciò che resta della democrazia (Laterza, pp. 192, €20) – una soluzione passa per la riabilitazione culturale e un ritorno allo Stato sociale produttore di diritti sociali e, quindi, di cittadinanza democratica. Cosa possibile, però, appunto, esclusivamente se si trova il modo di ripoliticizzare la democrazia, capendo che post-ideologico non corrisponde a post-identitario. Altrimenti si afferma pericolosamente il modello delle piccole patrie xenofobe e dilaga (inutilmente per chi pensa di affidarsi a essa «salvificamente»...) l’antipolitica in qualcuna delle sue mille e metamorfiche forme.

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