Maker Faire, il glamour high-tech nutrito dall’utopia della condivisione
Kermesse. I makers sono giovani, intraprendenti, ridotti a incarnare la figura neoliberale dell’«imprenditore di se stesso»
Benedetto Vecchi Manifesto 20.10.2015, 0:30
I cacciatori di innovazione si muovono accorti. Frequentano le università, ma anche le strade; sono come i «cacciatori di tendenza» per il mondo dorato delle fashion house. Devono cioè essere interni a uno stile di vita, ma mantenere la giusta autonomia, perché rispondono ai loro committenti. Possono però trasformarsi in società di intermediazione tra gli «innovatori» e le imprese. Ma per fare questo significa organizzare un «evento» che raccolga entrambi gli «attori» in uno stesso spazio. Il Maker Faire italiano segue questa logica. L’appuntamento che si è svolto tra giovedì e domenica della scorsa settimana ha costituito la sperimentazione di una dispositivo che garantisce un flusso di innovazione tra makers e imprese basato sulla «cattura» da parte di quest’ultime delle conoscenze e dei prototipi sviluppati al di fuori delle loro mura.
Antenati blasonati
Ma se questa riduzione dell’innovazione a merce da acquistare sul mercato è il dato che emerge dai successi delle fiere dei makers, sono altri gli elementi che sono aggressivamente entrati in scena. Si tratta di quel processo, variamente declinato teoricamente negli scorsi anni, che vede la condivisione delle conoscenze trasformata da possibile alternativa all’economia di mercato a nuova frontiera di un «capitalismo estrattivo» che attinge al lavoro di ricerca di giovani laureati in cerca di successi imprenditoriali.
I makers hanno d’altronde antenati blasonati, almeno negli Stati Uniti. È da oltre tre decenni che la rivoluzione al silicio è raccontata come la sommatoria di tanti episodi che hanno molte varianti, ma un’unica invarianza: quei giovani talentuosi che si riuniscono in un anonimo garage o scantinato per dare forma a prototipi che cambieranno la loro vita. L’innovazione qui è descritta come un fattore neutro, indifferente al mondo delle corporation. Cioè che conta, in questa grande fiction narrativa, è il successo nell’aver trasformato un’intuizione in un prodotto, condividendo le idee con i propri simili, in un delicato equilibrio di cooperazione e competizione. Quel che conta, tuttavia, è che l’innovazione veniva comunque ricondotta alle regole bronzee del capitalismo, attraverso l’acquisizione di quelle conoscenze da parte delle imprese oppure che in quel gruppo di giovani talentuosi emergesse una figura che «immaginasse» come trasformare un’idea in impresa. Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckeberg, Sergej Brin e Larry Page vengono tutti da una esperienza di condivisione e socializzazione delle conoscenze.
Siamo però all’archeologia del «movimento dei makers». Ciò che ha funzionato come un amplificatore di questo movimento è l’articolato corpus teorico che ha annunciato l’avvento di una economia postcapitalista grazie alla diffusione virale di esperienze basata sulla condivisione delle conoscenze. Michel Bauwens ha parlato di peer to peer production, facendo esplicito riferimento sia al software open source che all’antica consuetudine delle terre comuni nelle comunità contadine nel Sud globale del pianeta; Chris Anderson ha invece preferito qualificare tutto ciò come sharing economy, evocando la caratteristica della natura umana a vivere in società e le pratiche di buon vicinato e di valorizzazione dell’individuo che hanno scandito, secondo questo agit-prop del neoliberismo, lo sviluppo storico degli Stati Uniti.
Sono diversi modi che, al di là dell’ingenuità che li contraddistingue nel considerare la condivisione il deus ex machina per fuoriuscire dal capitalismo, registrano il fatto che l’innovazione non è solo prerogativa delle imprese, università e centri di ricerca, ma è un prodotto sociale. Attiene cioè alla facoltà umana di condividere idee, conoscenze, in un milieu di talento individuale, serendipity, viralità nella diffusione delle informazioni. Ma ciò che differenzia i makers dai loro fratelli maggiori è il fatto che il capitalismo non è in una fase espansiva, bensì in una crisi ormai permanente. I makers sono dunque rappresentati come l’ultima, fascinosa e tuttavia ambivalente incarnazione dell’«imprenditore di se stesso» cara ai cantori del neoliberalismo.
Desiderio di reddito
Secondo questa vulgata neoliberale, l’innovazione non può quindi che essere un fattore esogeno. Per le imprese è una riduzione dei costi nel settore ricerche e sviluppo, delegando ai singoli o alle start up i «rischi di impresa». E chi «esternalizza» sono anche le università. In presenza di una costante riduzione degli investimenti pubblici – elemento macroscopico in Italia, ma presente, seppur in misura minore anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti – nella formazione, la ricerca scientifica diventa un oggetto del desiderio per soddisfare il quale vanno cercati capitali presso i privati, poco propensi però ad investire nell’università. I makers sono giovani laureati, desiderosi di continuare le loro ricerche, ma anche attratti dalla possibilità di trasformare in fonte di reddito l’attività di ricerca. Quanto i loro sforzi siano coronati dal successo è questione tutt’ora aperta. Che il loro contributo allo sviluppo economico sia significativo è altrettanto difficile da quantificare.
Negli Stati Uniti, patria indiscussa dei makers, è forte l’idea che così facendo possono fiorire dieci, cento, mille Steve Jobs o Mark Zuckeberg. Sta di fatto che l’impasto di high-tech, talento e relazioni di prossimità trova un contesto dove riprodursi, costituendo un elemento di complementarietà alle strategie di multinazionali come Google, Apple. Gran parte delle app sviluppate per le società di Cupertino o di Mountain View arrivano infatti proprio dal mondo makers. Più prosaicamente in Italia, il successo di Maker Faire rivela una tendenza individuale (o di piccolo gruppo) per soluzioni a una disoccupazione strutturale e qualificata. Ma anche che l’innovazione è «catturata» dalle multinazionali, come testimonia le sponsorizzazioni «pesanti» all’appuntamento romano. Più che fuoriuscire dal capitalismo, i makers sono nodi di una rete produttiva incentrata sull’innovazione. E non occorre neppure scandalizzarsi che tra gli intermediari ci siano capitalisti di ventura, l’ospite inatteso per chi pensava che la sharing economy fosse la via maestra per conciliare capitalismo e cooperazione, mutuo soccorso e logiche sistemiche di mercato.
Quanto vale un artigiano digitale?
Innovazione. Settecento
espositori: alla Sapienza di Roma va in onda (mentre fuori volano
manganellate ai veri padroni di casa, gli studenti) la terza edizione di
Maker Faire. Dalla stampante a 3D al nuovo processore che da Arduino
diventa GenuinoAndrea Capocci Manifesto 20.10.2015, 0:02
La terza edizione della Maker Faire europea si è chiusa a Roma
domenica con nuovi record di partecipazione. Oltre centomila
visitatori – trentamila in più rispetto al 2014 – hanno potuto
apprezzare le invenzioni di settecento espositori. C’erano
i grossi nomi dell’high tech, come Google o Microsoft. Ma
i protagonisti della fiera sono stati i makers, capaci di
realizzare droni, robot, sensori (ma anche gioielli, biciclette
e pietanze) all’insegna del fai-da-te e della condivisione delle
idee e delle tecnologie. Solo gli studenti universitari, i veri
padroni di casa, ne sono stati tenuti fuori con idranti e manganelli.
I numeri della fiera hanno convinto gli organizzatori a tenere
a Roma anche le prossime due edizioni. Nel giro delle Maker Faire, che
si svolgono in tutto il mondo, l’appuntamento romano è ormai il
secondo per importanza dopo quello di San Francisco, tanto da
convincere colossi come la Intel a presentare qui i nuovi prodotti
per i maker.
«La cosa che rende più orgogliosi di questa fiera è vedere gente
che ha iniziato solo con grandi idee e speranze e che adesso ha
dietro una storia, un business», ha dichiarato al sito Linkiesta Massimo Banzi, organizzatore della Maker Faire insieme a Riccardo Luna e ormai leader mondiale del movimento maker. «Basta chiamarli artigiani digitali, negli Usa si vedono come Steve Jobs», avverte.
Il giro in denaro
Finito il tempo dei giochi, dunque, la terza edizione è stata quella della maturità. Se i maker sono davvero una risorsa per l’innovazione italiana, è giunto il momento di dimostrarlo. Per questo, Banzi, Luna e Carlo de Benedetti, riuniti nella fondazione MakeInItaly, hanno commissionato «Il 1° rapporto sull’impatto delle tecnologie digitali nel sistema manifatturiero italiano» all’economista Stefano Micelli, assistito dalla Fondazione NordEst e dalla società di consulenza Prometeia. I risultati dello studio, che ha riguardato aziende con almeno un milione di euro di fatturato, sono stati presentati alla Maker Faire romana e sembrano parlar chiaro: il giro d’affari che ruota intorno alla stampa tridimensionale, alla robotica e all’«Internet delle Cose» (oggetti della vita quotidiana in grado di scambiare dati tra loro per aiutarci e informarci) potrebbe aggiungere 8,6 miliardi di Pil e 39mila posti di lavoro ogni anno all’economia nazionale. Le aziende che hanno introdotto queste tecnologie hanno riportato produzione e crescita al livello pre-crisi. Le altre ristagnano sui valori di quindici anni fa.
Cifre rilevanti, forse eccessive anche per il notevole tasso di creatività mostrato dai maker durante la fiera. Infatti, leggendo meglio il rapporto si capisce che quei dati poco hanno a che fare con la Maker Faire. Gli artigiani digitali in mostra alla Sapienza dimostrano il notevole potenziale del «fai-da-te» quando è assistito da tecnologie digitali a basso costo. La culla di queste invenzioni sono i FabLab, officine autogestite in cui strumenti e conoscenze vengono messi in comune. In Italia ce ne sono un centinaio, solo negli Usa sono più numerosi. Secondo il «censimento» del 2014 svolto dalla fondazione MakeInItaly, i FabLab italiani sono luoghi deputati soprattutto all’artigianato e al coworking, mentre all’estero le attività di educazione e ricerca predominano. Dunque lo spirito imprenditoriale non manca. Tuttavia, il rapporto mostra che davvero le tecnologie digitali forniscono aumenti di produttività alle imprese. Tuttavia, esse vengono integrate secondo modalità molto diverse da quelle dei FabLab. Ad esempio, la stampa tridimensionale è più utilizzata dal 33% delle aziende con oltre 50 dipendenti, e solo dal 24% di quelle con meno di 10 dipendenti. Stesso discorso vale per la robotica, 54% contro 30%. Dunque, il bacino di utenza delle tecnologie digitali non sono gli artigiani, ma tra le aziende di dimensioni maggiori. Anche la propensione a «far da sé», tanto cara ai maker, fatica ad affermarsi nell’utilizzo reale di queste tecnologie da parte delle imprese: oltre la metà delle imprese che hanno dichiarato di farne uso, in realtà ammettono di ricorrere a service esterni.
Un altro dato segnala la distanza tra il MakeInItaly e la Maker Faire. Secondo il 40% del campione intervistato, la limitata diffusione di queste tecnologie è provocato dagli elevati costi delle attrezzature e dei software. Strano, visto che le stampanti 3D viste alla Sapienza costano meno di duemila euro e il software che le gestisce è gratuito, open source e sviluppato da un brillantissimo architetto romano, Alessandro Ranellucci. Evidentemente, stiamo parlando di processi e prodotti diversi.
Dunque, le imprese italiane conoscono i pregi delle tecnologie digitali, se possono le usano, ma finora sembrano piuttosto impermeabili alla filosofia maker: solo il 2% frequenta i FabLab. Poco male, si dirà, se produzione e posti di lavoro cresceranno secondo le proiezioni del rapporto NordEst-Prometeia. Eppure, quelle cifre sembrano quantomeno ottimistiche: gli aumenti si realizzerebbero se tutte le imprese adottassero la fabbricazione digitale e allineassero i propri tassi di crescita a quelli delle imprese già evolute. Ma, secondo lo stesso rapporto, il 75% degli imprenditori che non usa quelle tecnologie le ritiene inutili per il proprio business. Non è realistico pensare che tutti, un bel giorno, si convincano del contrario.
Biografia di Arduino
Il primo a riconoscere la difficoltà di trasferire nell’economia di mercato la creatività e la condivisione è lo stesso Massimo Banzi. Ha iniziato producendo a Ivrea Arduino, un piccolo processore a basso costo che chiunque può produrre, modificare e rivendere. In pochi anni, Arduino è diventato il dispositivo più diffuso nell’artigianato digitale. Poco conosciuto in Italia, oggi Banzi è una celebrità mondiale nel mondo dell’elettronica, in grado di chiudere accordi con multinazionali come la Intel senza snaturare il suo progetto: vendere prodotti tecnologici senza fare uso di brevetti.
La vicenda di Arduino sembrava dimostrare che l’attitudine open source, fondata su una maggiore libertà di circolazione delle idee, potesse trasportarsi dal mondo immateriale del software a quello, ben più tradizionalista, dell’hardware. Banzi, però, è incappato in un incidente di percorso forse superabile, ma significativo: un ex-socio, approfittando della disinvoltura nella distribuzione di Arduino, ha deciso di registrare il marchio e monopolizzare l’intero business. Ne è nata una battaglia legale dall’esito incerto.
«Eravamo persone che non avevano mai pensato di dotarsi di un avvocato, ma un certo punto quando cominci a scrivere contratti con delle aziende molto grosse ti devi proteggere», racconta Banzi a Linkiesta. Per ora, è stato costretto a ribattezzare il «suo» Arduino (adesso in Italia si chiama «Genuino»), sperando di non perdersi per strada la comunità che gli si era radunata intorno. La Intel è sempre al suo fianco e alla Maker Faire lo stand di Genuino è stato quello più frequentato, quindi Banzi ha poco da temere. Ma qualcosa è cambiato, ammette lui. «È come stare in una comunità in cui si è sempre lasciata la porta aperta la sera, perché tanto non rubava nessuno, e a un certo punto si scopre che bisogna chiudere a chiave le case».
Nessun commento:
Posta un commento