domenica 25 ottobre 2015

La guerra permanente dell'Impero atlantico: i conflitti imperialistici del mondo unipolare nel libro di Manlio Dinucci

L'arte della guerraManlio Dinucci: L’arte della guerra, Edizioni Zambon

Annali occidentali della strage in corso 

Saggi. «L’arte della guerra» di Manlio Dinucci per Edizioni Zambon. Un dizionario storico dei conflitti in corso nella genesi atlantica della nuova stagione militar-imperiale 

Tommaso di Francesco Manifesto 24.10.2015, 0:15 

È dif­fi­cile guar­dare in fac­cia la guerra, i suoi orrori e le sue men­zo­gne. È una atti­vità quasi con­tro­na­tura. Ancora più dif­fi­cile rac­con­tarla ogni giorno, nel momento in cui viene nasco­sta pro­prio da chi la sta pre­pa­rando. È un lavoro defa­ti­gante, pre­tende razio­na­lità pas­sio­nale, per­fino più dell’ottimismo della volontà ormai quasi intro­va­bile. È il lavoro rigo­roso e quo­ti­diano che Man­lio Dinucci svolge sulle pagine de il mani­fe­sto, in una scrit­tura che è fonte d’ispirazione per i movi­menti paci­fi­sti. Così ha pen­sato bene non solo di rac­co­gliere i testi della bril­lante rubrica del mar­tedì «L’arte della guerra», ma di aprire que­sta «cro­naca» ad una rico­stru­zione poli­tica e sto­rica degli ultimi 25 anni a cavallo dei secoli. Il libro L’arte della guerra, con il sot­to­ti­tolo «Annali della stra­te­gia Usa/Nato 1990–2015» (Zam­bon Edi­tore, 549 pp. 18 euro, in libre­ria e da richie­dere anche presso Diest Distri­bu­zioni posta@​diestlibri.​it, Ama​zon​.it e altri distri­bu­tori) abbrac­cia dun­que un momento di svolta della sto­ria recente. Che va dalla fine del Secolo breve al nuovo XXI Secolo, for­te­mente con­tras­se­gnato da rin­no­vati con­flitti, così perio­diz­zati: 1990–1991, il Golfo, la prima guerra del Dopo guerra fredda; 1991–1999, Jugo­sla­via, la seconda guerra del Dopo guerra fredda; 2001, l’Afghanistan, la terza guerra del Dopo guerra fredda; 2003, Iraq, la quarta guerra del Dopo guerra fredda; 2011, Libia, la quinta guerra del Dopo guerra fredda; 2013–2014 Ucraina, la nuova Guerra fredda. 
Ci tro­viamo di fronte, come per un sto­rico clas­sico della lati­nità, alla forma «annale» degli avve­ni­menti umani. Indi­vi­duando nella sigla Usa/Nato il pro­ta­go­ni­smo unico — dopo la caduta del Muro di Ber­lino — della nuova, infi­nita sta­gione militar-imperiale. Il titolo, L’arte della guerra, richiama il clas­sico di teo­ria mili­tare dell’antica Cina attri­buito al gene­rale e filo­sofo Sun Tzu vis­suto tra il VI e il V secolo a. C. che spiega come si com­batte una guerra. Il libro di Man­lio Dinucci rac­conta invece di come sia neces­sa­rio e vitale — pena la bar­ba­rie — com­bat­tere la guerra e le sue «ragioni», poli­ti­che, eco­no­mi­che, geo­stra­te­gi­che e fal­sa­mente «umanitarie». 
A que­sto punto, una memo­ria per­so­nale che torna utile nell’occasione di que­sto impor­tante libro. Era il 9 novem­bre 1989, nel quo­ti­diano comu­ni­sta il mani­fe­sto ini­ziava la riu­nione di reda­zione al quinto piano di Via Toma­celli 146. La noti­zia appena arri­vata era che le auto­rità della Ddr ave­vano «incon­sa­pe­vol­mente» comu­ni­cato l’apertura dei var­chi di pas­sag­gio verso la Rdt (la Ger­ma­nia dell’ovest), del Muro di Ber­lino. Era l’inizio della caduta festosa del Muro di Ber­lino. In molti tra i più gio­vani erano entu­sia­sti; più dubi­ta­tivi invece i meno gio­vani, legati alla sto­ria della radia­zione dal Pci, nel 1969, del gruppo che aveva accu­sato il par­tito di avere abban­do­nato Praga nelle mani della restau­ra­zione di Mosca dopo l’invasione dell’agosto ‘68. Il mani­fe­sto, che aveva pro­mosso ben due con­ve­gni inter­na­zio­nali sul potere e sull’opposizione nelle società post-rivoluzionarie a par­tire dall’Europa dell’Est, con Ros­sana Ros­sanda era già impe­gnato a soste­nere la svolta poli­tica straor­di­na­ria che Michail Gor­ba­ciov, diven­tato segre­ta­rio del Pcus nel 1985, aveva impresso all’Urss; e a seguire i cam­bia­menti, diversi uno dall’altro, che ne erano deri­vati nell’est e nel mondo. A giu­gno dell’89 c’era stata la strage della Tian An Men a Pechino, men­tre rina­sce­vano i peri­co­losi nazio­na­li­smi nella Jugo­sla­via. Ma anche Ros­sana Ros­sanda quella mat­tina era guar­dinga sulla grande «implo­sione» che acca­deva sotto i nostri occhi. Più per­plesso ancora il diret­tore del gior­nale Luigi Pin­tor. Dopo molti inter­venti tutti più che posi­tivi sugli avve­ni­menti in corso (con l’auspicio: così cadranno anche i Muri dell’Occidente), gli sguardi si rivol­sero inter­ro­ga­ti­va­mente pro­prio a lui. E Pin­tor alla fine sus­surrò: «Io sento solo una grande puzza di guerra». 
Che cosa volesse dire dav­vero e quanto avesse ragione Luigi Pin­tor sarebbe stato chiaro solo due anni dopo nel 1991, la stessa data della fine dell’Unione sovie­tica. Con la prima guerra occi­den­tale all’Iraq a par­te­ci­pa­zione anche ita­liana e con il nuovo pro­ta­go­ni­smo della Nato a par­tire dai Bal­cani. Per­ché il Patto atlan­tico, nato nel 1949 in fun­zione «difen­siva» dopo la crisi di Ber­lino con­tro i paesi della sfera sovie­tica e l’Urss, con il crollo del nemico avrebbe dovuto per­lo­meno scom­pa­rire. Il Patto di Var­sa­via (costi­tuito nel 1955 dopo l’ingresso della Ger­ma­nia ovest nella Nato) si era sciolto nel 1991. E invece alla fine del 1999 — dopo la guerra di 78 giorni di raid aerei «uma­ni­tari» sull’ex Jugo­sla­via — gli ex paesi del Patto di Var­sa­via, den­tro l’accorta «stra­te­gia dell’allargamento a est» avreb­bero fatto tutti parte dell’Alleanza atlan­tica, con basi mili­tari, nuovi sistemi d’arma, pro­getti di scudo anti­mis­sile, pri­gioni della Cia e rin­no­vati bilanci mili­tari. Tutti intorno alla Rus­sia e alla sua sim­bo­lo­gia resi­dua dell’ex potenza sovie­tica. E que­sto ben prima di entrare nell’Unione euro­pea e anzi come «prova» del loro ade­gua­mento alla demo­cra­zia occi­den­tale. Ben altro che la «casa comune euro­pea» tanto auspi­cata da Gor­ba­ciov prima di essere sconfitto. 
Sia chiaro: non che prima dell’89 le guerre non ci fos­sero. Tra­gi­ca­mente rien­tra­vano nel con­flitto tra i due bloc­chi, den­tro la bar­riera inva­li­ca­bile del ter­rore ato­mico. Intanto il Viet­nam veniva insan­gui­nato con due milioni di morti e veni­vano mas­sa­crate le rivo­lu­zioni in Cile e poi in Angola e Mozam­bico; e poi l’Afghanistan con l’intervento spe­cu­lare sovie­tico. La guerra era lon­tana ma non per que­sto meno cri­mi­nale. Una sola era la cer­tezza: l’Italia e l’Europa, pur schie­rate nel fronte occi­den­tale impe­gnato nei con­flitti, non par­te­ci­pa­vano diret­ta­mente ai conflitti. 
Ma fu pro­prio dal 1989, dalla Con­fe­renza per la sicu­rezza e la coo­pe­ra­zione in Europa del 1990 e dalla Com­mis­sione Badin­ter ancora della Cee, che la guerra, a par­tire dal Sud Est bal­ca­nico, tor­nava in Europa — altro che «mira­colo», come rac­conta Mat­teo Renzi plau­dendo alla pre­sunta estra­neità alla guerra dell’Europa in que­sto ven­ten­nio. E anche l’Italia, come sistema-militare e alleato stra­te­gico Nato, ne sarebbe stata pro­ta­go­ni­sta, nel disprezzo della sua Costi­tu­zione fondativa. 
Il libro di Dinucci man­cava: è un dizio­na­rio sto­rico della guerra in corso, una rico­stru­zione delle sue radici nella crisi eco­no­mica e nel ruolo del capi­ta­li­smo finan­zia­rio; uno stru­mento fon­da­men­tale per rites­sere la tela della potenza mon­diale del paci­fi­smo scon­fitta — a quanto pare una volta per tutte — il 24 marzo del 2003, quando George W. Bush, incu­rante della pro­te­ste che por­ta­rono in piazza cento milioni di per­sone, sca­tenò ad ogni costo la guerra con­tro l’Iraq. Infine è un bre­via­rio da uti­liz­zare per dare aria e luce alla sini­stra che non c’è e che relega l’argomento «guerra» in appen­dice ai docu­menti ufficiali.

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