domenica 25 ottobre 2015

La prudenza come virtù politica

PrudenzaStefano Zamagni: Prudenza , Il Mulino, Bologna, pagg. 126, € 12,00

Risvolto
Saggezza, capacità di governare le passioni e di orientare l’azione al perseguimento di un bene comune di tipo universale: è l’idea di prudenza che ci hanno trasmesso i classici e di cui oggi abbiamo più che mai bisogno. Il pensiero economico dominante concepisce erroneamente la prudenza solo come avversione al rischio; mentre in realtà il problema è vedere al di là dei vantaggi a breve termine e agire secondo una visione di lungo periodo. Ecco allora che la vera sfida è trasferire il principio di prudenza alla sfera collettiva e farlo vivere all’interno del disegno delle istituzioni e dei sistemi di governance delle imprese.


Il valore civile della prudenza

Remo Bodei Dmenicale 25 10 2015

Nel nostro linguaggio comune la prudenza tende oggi a essere confusa con la cautela, mentre per millenni essa è stata la forma più alta di saggezza pratica. Già nel sesto libro dell’Etica nicomachea di Aristotele la prudenza (phronesis) è posta in contrasto con la scienza (episteme). Mentre la prima si riferisce alla capacità di giudicare e valutare, in base a norme, ciò che muta – «ciò che può essere diversamente da quel che è» –, la seconda ha a che fare con l’immutabile, come è nel caso degli enti matematiche o dei movimenti degli astri. La phronesis si serve del regolo lesbio, il metro di piombo usato dai muratori dell’isola di Lesbo, che si adatta all’oggetto da misurare piegandosi ma restando della medesima lunghezza, l’episteme, invece, del “metro di Policleto”, di ferro e indeformabile. A sua volta, la prudentia romana fonda la iuris-prudentia, basata sui codici, norme formalizzate che si adattano però, in maniera non arbitraria, al variare delle situazioni da interpretare, così da modificarsi e arricchirsi a contatto con le situazioni concrete. È all’inizio dell’età moderna che l’idea di prudenza subisce una prima curvatura in direzione della cautela. Quando, infatti, la ruota della Fortuna comincia a girare più velocemente e si assiste, secondo Machiavelli, a una «variazione grande delle cose […] fuora di ogni umana coniettura», allora essa comincia a sembrare una virtù caratteristica della vecchiaia. Nei tempi inquieti, si sostiene, solo i giovani sono in grado di far fronte all’imprevisto. In condizioni normali e pacifiche, infatti, l’«uomo respettivo», ossia prudente e maturo di giudizio e di età, può certo riuscire a governare felicemente le situazioni, ma in epoche travagliate ha più successo l’«impetuoso», il giovane, provvisto di maggiore coraggio e apertura al nuovo e di minore rispetto per il passato e l’esistente. 
Il libro di Stefano Zamagni, che appare in una collana opportunamente intitolata “Parole controtempo”, si propone il compito di invertire il discredito moderno della prudenza e di mostrarne, al contrario, il bisogno nella società attuale (governata dall’interesse soggettivo, non bilanciato da una visione ponderata delle relazioni sociali e dal bene comune, e segnato dal privilegiamento dei mezzi e dall’indifferenza dei fini): «la prudenza è pienamente tale quando è virtù civile, quando cioè il suo campo di applicazione è la civitas, la città con le sue istituzioni. Non c’è vita buona in isolamento, fuori dello sguardo dell’altro. Prudente, dunque, è chi eccelle nell’arte di gettare ponti e di costruire relazioni umane, perché è solo nella vita in comune che l’essere umano – animale sociale – può fiorire in pienezza».
Con lucidità e ricchezza d’informazione, il volume ci accompagna nel processo di comprensione di questa dimenticata virtù intellettuale e morale. La prudentia, da providentia, «guardare in avanti, vedere lontano», deliberare prendendo decisioni giuste e valutandone le conseguenze, è quindi strettamente legata alle nozioni di responsabilità e di corretta o attendibile conoscenza della realtà non minata dall’autoinganno. Con l’eccezione degli illuministi italiani (Genovesi, Galiani, Alessandro Verri e Beccaria) e scozzesi (l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali), i filosofi e gli economisti non hanno, da allora e in maggioranza, tenuto in gran conto la prudenza.
Da economista, Zamagni coglie l’importanza della «svolta della rivoluzione marginalista» degli anni Settanta dell’Ottocento con Jevons, Menger e Walras, nel trasformare – in maniera indiretta, ma radicale – l’idea di prudenza. Ponendo, infatti, l’accento sulla massimizzazione dell’utilità attesa nell’allocazione ottimale delle risorse da parte dell’homo oeconomicus, si perdono di vista sia il bene comune che le relazioni intersoggettive. L’agire umano assume, di conseguenza, una dimensione astorica e si separa dalla virtù in quanto commisurazione di mezzi e fini. Diventa una questione di gusti e una sistematica riduzione dei valori a preferenze individuali. Invece di chiedermi «cosa è bene che io voglia», mi domando invece «cosa devo fare per ottenere ciò che voglio».
Mediante l’inversione tra mezzi e fini, si santifica l’avidità e si accumula ricchezza senza saperla usare e senza neppure goderne a pieno: «Secondo la celebre espressione di Søren Kierkegaard, la porta della felicità si apre verso l’esterno, sicché può essere dischiusa solo andando “fuori di sé”. Il che è proprio quanto l’avido, che manca di prudenza, non sa fare». L’imprenditore che guarda al guadagno, che è timoroso nell’investire sull’innovazione, che non sa tenere insieme «le radici e le ali» rappresenta il simbolo contemporaneo della mancanza di prudenza quale lungimiranza “ben temperata”.
Oggi, tuttavia, si nota un ritorno della prudenza, perché si è compreso che né la vita delle persone, né il funzionamento dell’economia e delle società possono andare avanti secondo criteri in cui siano assenti l’etica e la prudenza, le sole risorse atte a risolvere il conflitto tra interesse privato e interesse collettivo: «Un bel racconto di Chatwin ci indica come fare per favorire lo sviluppo di questa capacità. Uno schiavista bianco riesce a convincere i suoi schiavi neri ad accelerare l’andatura in cambio di denaro. In prossimità della meta, gli schiavi si fermano rifiutandosi di riprendere il cammino. Interrogati per dare spiegazione del loro irragionevole comportamento – all’inizio, infatti, avevano accettato l’offerta – rispondono: “Vogliamo dare tempo alle nostre anime di raggiungerci”. È proprio così: nelle fasi di crisi, cioè di transizione, c’è bisogno di sostare un po’ per consentire al pensiero pensante di raggiungere (almeno) il pensiero calcolante. È questo, in fin dei conti, il grande messaggio della prudenza».
Tutto giusto e condivisibile, anche se il processo per raggiungere tale obiettivo sarà lungo. Come ha detto argutamente Giorgio Ruffolo: «il capitalismo ha i secoli contati»© RIPRODUZIONE RISERVATA


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