giovedì 29 ottobre 2015

Le Opere complete di Primo Levi tradotte negli Stati Uniti

The Complete Works of Primo Levi

Risvolto
The Complete Works of Primo Levi, which includes seminal works like If This Is a Man and The Periodic Table, finally gathers all fourteen of Levi’s books—memoirs, essays, poetry, commentary, and fiction—into three slipcased volumes.

Primo Levi, the Italian-born chemist once described by Philip Roth as that “quicksilver little woodland creature enlivened by the forest’s most astute intelligence,” has largely been considered a heroic figure in the annals of twentieth-century literature for If This Is a Man, his haunting account of Auschwitz. Yet Levi’s body of work extends considerably beyond his experience as a survivor. Now, the transformation of Levi from Holocaust memoirist to one of the twentieth century’s greatest writers culminates in this publication of The Complete Works of Primo Levi. This magisterial collection finally gathers all of Levi’s fourteen books—memoirs, essays, poetry, and fiction—into three slip-cased volumes. Thirteen of the books feature new translations, and the other is newly revised by the original translator. Nobel laureate Toni Morrison introduces Levi’s writing as a “triumph of human identity and worth over the pathology of human destruction.” The appearance of this historic publication will occasion a major reappraisal of “one of the most valuable writers of our time” (Alfred Kazin).
The Complete Works of Primo Levi features all new translations of: The Periodic Table, The Drowned and the Saved, The Truce, Natural Histories, Flaw of Form, The Wrench, Lilith, Other People’s Trades, and If Not Now, When?—as well as all of Levi’s poems, essays, and other nonfiction work, some of which have never appeared before in English.


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Primo Levi la chiave a stelle e strisce 

Esce negli Stati Uniti in cofanetto l’opera completa Una grande impresa editoriale per guidare il lettore di lingua inglese alla scoperta di un autore-poliedro 

Ernesto Ferrero Stampa 29 10 2015
Eccolo finalmente il cofanetto con i tre eleganti tomi in rigoroso bianco e nero dei Complete Works, il tutto Primo Levi in inglese, onore mai concesso nemmeno a Dante, Machiavelli, Montale o Calvino. Dai dorsi dei volumi che ospitano una sua foto, il Primo degli ultimi anni, barba bianca e grandi occhiali cerchiati, ci guarda con l’attitudine severa di chi è abituato a navigare i mari estremi della ricognizione del Male. 
Di questa impresa che onora l’editoria americana, e in particolare la Liveright di Robert Weil, divisione della W.W. Norton, parlano anzitutto i numeri. Quindici anni di lavoro, tremila pagine che seguono
l’edizione delle Opere complete Einaudi del 1997, un team di nove traduttori coordinati da Ann Goldstein, copy-editor del  New Yorker, traduttrice essa stessa (Calasso, Pasolini, Bilenchi, da ultimo Elena Ferrante) e componente dell’eroica pattuglia che ha volto in inglese lo Zibaldone di Leopardi. Ogni opera viene restituita alla sua integrità e al titolo «giusto» (nel 1959 Se questo è un uomo era diventato un banale Survival in Auschwitz, e il minaccioso La tregua, che rimanda all’idea di un intermezzo inquietante, cambiato nel buonista The reawakening). 

Consulenza torinese
Nell’impresa, che sarà presentata a maggio alle Nazioni Unite, c’è una forte componentistica torinese, grazie alla decisiva collaborazione del Centro di studi Primo Levi diretto da Fabio Levi: la consulenza alle traduzioni, gli apparati storico-critici e la bibliografia di Domenico Scarpa, la fortuna critica nel mondo ricostruita da Monica Quirico, la cronologia redatta da chi scrive. A New York hanno aggiunto due preziose cartine con i luoghi leviani, a Torino e in Piemonte: la casa di corso Re Umberto e quelle di amici e parenti, le scuole, le librerie, la Einaudi, La Stampa, persino la prima sede della fabbrica di vernici al fondo di corso Regina Margherita. E poi le amate montagne, i luoghi di vacanza, la Avigliana della fabbrica in cui cominciò a scrivere Se questo è un uomo  in pausa pranzo, la Bene Vagienna da cui il nonno Michele mosse verso Torino nel 1848. 
Gli accurati «risvolti» guidano il lettore di lingua inglese alla scoperta di un autore complesso e stratificato che non ha mai finito di dire quel che ha da dire e va ben oltre l’etichetta riduttiva del testimone che per anni l’ha ingabbiato: un poliedro che assomma in sé il memorialista, il narratore, il saggista, il poeta, l’elzevirista, l’etologo, il linguista, l’antropologo. 

La lettura di Toni Morrison
L’introduzione è firmata dal Nobel Toni Morrison. L’affermazione dei valori umani sulle patologie distruttive, scrive, brilla in ogni pagina di Levi, insieme a una conoscenza profonda (e dissimulata, aggiungo io) di tante fonti antiche e moderne, dalla poesia alla filosofia alle scienze, da Omero e Dante a Eliot e a Rilke. Lo scavo nelle miniere del linguaggio gli consente di cogliere un elemento-chiave, l’incomunicabilità che ad Auschwitz separa vittime e aguzzini. 
Tradurre, cioè mettere a confronto due sistemi linguistici diversi è una pratica altamente formativa che bisognerebbe introdurre nelle scuole. L’edizione Liveright apre il capitolo complesso e fascinoso di cosa significhi tradurre un autore come Levi, apparentemente «facile», che ha fatto della chiarezza una scelta programmatica, e quali problemi comporti. La nitidezza della pagina di Levi, come quella di Calvino o di Flaubert, è accuratamente costruita: nasce da una tale calcolata sintassi, da un ritmo interno, da un lessico così preciso, che volgerla in un’altra lingua è difficilissimo. Tanto per cominciare: come tradurre i «mitragliatori imbracciati» di cui si parla nella seconda pagina della Tregua se l’inglese non conosce un corrispondente di «imbracciato»?
Ma c’è una domanda ben più sottile, e se la è già posta Domenico Scarpa nel suo dialogo con Ann Goldstein nella sesta «Lezione Primo Levi», pubblicata da Einaudi. In che lingua scrive Primo Levi per raccontare una nuova, perversa forma di modernità, il potere assoluto di un’ideologia razzista più lo sterminio come industria? Il suo italiano non corrisponde al canone imperante nella primavera neorealista. È la lingua di chi ha fatto ottimi studi al Liceo d’Azeglio e ha ottime letture alle spalle, una scrittura di una compostezza già classica sul nascere, ma anche attenta a recepire e riprodurre i suoni minacciosi del Lager, a inglobare nuovi linguaggi, gerghi e dialetti, a esplorare nuovi ambiti espressivi. È un’invenzione che il primo dopoguerra non era ancora pronto a riconoscere e decodificare. 

L’attrito linguistico
Lo aveva detto lo stesso Levi: «Chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo “strano”, il diverso, il nemico potenziale, “un quasi-non-uomo”». L’attrito linguistico tende a diventare attrito razziale. L’eterna guerra che gli uomini si conducono è figlia di Babele. Tradurre è l’anti-Lager. Per questo, dice, i traduttori dovrebbero essere onorati, perché si adoperano «per limitare i danni della maledizione di Babele», che ci rende tanto aggressivi. Tra i tanti messaggi in bottiglia di Primo Levi c’è anche questo, e l’edizione americana ci aiuta a recepirli e meditarli meglio. 
Peccato che la prima recensione, quella di Tim Parks sulla New York Times Review of Books sia un mezzo infortunio critico, perché «buca» clamorosamente la complessità e ricchezza del poliedro Levi, in cui tutto si tiene, cercando con una punta di malevolenza di cogliere il testimone in presunti peccati d’invenzione. Tra i quali ci sarebbe anche quello di «fare la vita molto più interessante di quello che è». Ma non è proprio questo il compito della letteratura? Per fortuna l’opera di Levi ha superato con la sua forza ben altri fraintendimenti.

Come il Lager, aiutano a svelare le smagliature della ragione 
Non sono momenti di evasione, ma una sfida intellettuale e letteraria per entrare nella paradossale logica del “mondo alla rovescia” 
Francesco Cassata Stampa 
Perché la fantascienza? Quale ruolo riveste nell’opera di Levi? Per rispondere a questi interrogativi bisogna innanzitutto liberarsi da una distorsione interpretativa. Levi scrive racconti «fantabiologici» - come li definirà Calvino - fin dagli Anni Quaranta, ma la sua prima raccolta - Storie naturali - esce soltanto nel 1966, dopo la ripubblicazione di Se questo è un uomo da parte di Einaudi e l’uscita della Tregua. La prima edizione di Storie naturali è inoltre firmata con uno pseudonimo, Damiano Malabaila, voluto dall’editore per ragioni commerciali. All’indomani della pubblicazione, il corto circuito fra scelte editoriali e ricezione critica indurrà Levi ad assumere una posizione difensiva, incentrata sul tema della continuità tra la fantascienza e gli scritti del Lager. E ancora oggi, la tesi di un Levi «imbarazzato» di fronte ai suoi stessi racconti fantascientifici non manca di raccogliere i suoi adepti.
Per mostrare quanto sia infondato questo approccio occorre esplorare le dichiarazioni di Levi, pubbliche e private, che precedono cronologicamente l’uscita di Storie naturali. Nel luglio 1965, ad esempio, Maria Grazia Leopizzi intervista Levi per l’Avanti! a proposito delle sue «pause fantastiche». Due punti, in questo articolo, sono fondamentali. 
«Vizi di forma»
In primo luogo, Levi individua una stretta relazione tra il racconto fantascientifico e l’esperienza di un «vizio di forma» intrinseco alla «civiltà» e all’«universo morale» contemporanei, un «vizio» strettamente connesso - ma in maniera non univoca, non simbolica e non intenzionale - alla memoria del Lager: il ponte tra il Lager (il «più grosso dei vizi») e la fantascienza sono i «mostri» generati dal «sonno della ragione». A partire da Se questo è un uomo, Levi ha descritto l’universo concentrazionario come un «mondo alla rovescia», un universo non irrazionale, ma dotato di una sua mostruosa, capovolta, logicità e razionalità. 
Nel 1955, nel decennale della Liberazione, in un sofferto passaggio dedicato al silenzio dei testimoni e alla vergogna provata dai sopravvissuti, Levi ha affermato: «Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?». In quest’ottica, lo straniamento cognitivo della fantascienza costituisce una chiave per entrare nella paradossale logica del «mondo alla rovescia», per studiarne i meccanismi e valutarne la possibile replicabilità futura, oltre che per indagare in profondità la «curvatura» etico-politica della scienza nell’era del dopo-Auschwitz. 
Ma, accanto a questa dimensione, l’intervista del 1965 presenta anche un secondo aspetto, relativo a questioni di stile. Levi distingue qui nettamente fra due modelli: da un lato, la scrittura del Lager, il racconto analitico, «diritto» e «chiaro», frutto di una dedizione venata di «sofferenza» e di «errori»; dall’altro, la scrittura fantascientifica, fatta di «racconti scherzo, di trappolette morali», divertente ma nello stesso tempo distaccata e fredda. La scrittura del Lager può convivere con quella fantascientifica? O rischia di apparire, agli occhi del pubblico, come «una frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?». 
La similitudine leviana, intrisa di riferimenti a Lucrezio e Rabelais, è profondamente ambigua: olio e vino sono infatti due prodotti egualmente genuini e pregiati. Il loro scambio non è certo una «frode in commercio», ma un esperimento narrativo e cognitivo. Il racconto fantascientifico ha per Levi il pregio di condurre il lettore, tramite l’arte dell’umorismo e della parodia, all’interno delle «smagliature», dei «vizi di forma», delle «curvature» apertesi - dopo Auschwitz - nella sfera della razionalità novecentesca. Attraverso gli ingranaggi della «trappola morale», si entra nella bottiglia quasi come in una provetta, aspettando di trovarvi il Lager e finendo invece nel vino della fantascienza, in un ambiguo «mondo alla rovescia», al tempo stesso inquietante e seducente, evocativo e straniante. Proprio per questo motivo, la scrittura dei racconti fantascientifici è accompagnata - afferma Levi - da un «vago senso di colpevolezza», frutto di una «piccola trasgressione», compiuta però in piena consapevolezza. 

Il vino e l’olio
Sulla portata di questo atto trasgressivo, Levi fornisce alcuni chiarimenti in una lettera privata a un’amica, il 22 febbraio 1966. La fantascienza non rappresenta un «tradimento» - afferma qui lo scrittore - ma un «ritorno alla realtà» e un’«evasione dalla parte ufficiale e professionale» del testimone ed ex deportato, sentita come un’imposizione del destino. È questo il vino venduto al posto dell’olio. Compiuto il dovere della testimonianza, Levi non vuole ridursi al «personaggio» che pur incarna, chiuso nell’esercizio di un ruolo pubblico standardizzato. Auschwitz per Levi non è soltanto un universo immerso nel passato e riattivato di volta in volta dai processi memoriali, ma è un prisma etico e cognitivo attraverso cui analizzare la «curvatura» della razionalità contemporanea e riflettere sulle «smagliature» e i «vizi di forma» del presente e del futuro. Quale miglior strumento, allora, della fantascienza per esprimere questa complessità, questo straniamento cognitivo? 
Nella lettera del febbraio 1966, l’imminente pubblicazione dei racconti con Einaudi ha il valore di una cartina al tornasole. Da essa e dalla corretta comprensione da parte del pubblico - scrive ancora Levi - dipenderà il suo futuro di scrittore, il proseguimento della «parentesi letteraria». Non un’evasione, dunque, né un tradimento venato di imbarazzo, come molti hanno sostenuto: ma una sfida intellettuale e letteraria, perseguita con coraggio e consapevolezza.

“Difficile rendere la sintassi Abbiamo eliminato il dialetto” 
Mario Baudino 
Ann Goldstein ha tradotto molti autori italiani, dalla sua scrivania del New Yorker, ed è in buona parte l’artefice del successo americano di Elena Ferrante. Coordinatrice delle versioni inglesi per l’opera omnia di Primo Levi, si è misurata personalmente con La tregua, Il sistema periodico e Lilith. Un lavoro enorme, che ora consegna lo scrittore al pubblico statunitense, e non solo agli intellettuali.
Pensa che possa diventare un autore popolare?
«Credo che possa trovare molti lettori, ben al di là di quelli diciamo così accademici. Non tutti i libri sono forse alla portata di tutti, ma Il sistema periodico, ad esempio, può essere letto con interesse, partecipazione e piacere da un pubblico numeroso».
È uno scrittore dalla prosa apparentemente facile. In realtà, come lei stessa ha spiegato nella «Lezione Primo Levi» dedicata appunto alla traduzione, molto complessa. Si è rivelato un autore più ostico, rispetto agli altri italiani?
«In realtà sono tutti difficili, ciascuno ha la sua cifra, ma su tutti è necessario un lavoro di scavo per rendere loro giustizia».
Qual è la cifra stilistica di Levi che più l’ha messa in difficoltà?
«A parte il linguaggio scientifico, c’è la sintassi. In italiano sembra scorrere senza il minimo intoppo, fluida e persino semplice. In inglese diventa complicata, le frasi non possono essere tradotte alla lettera, restando fedeli alla loro costruzione. Lo stesso discorso, devo dire, vale per Elena Ferrante. L’ordine delle parole, la punteggiatura, le congiunzioni possono diventare un problema. Un lettore italiano, ovviamente, non se ne rende conto. Il traduttore invece sì».
Parlava prima delSistema periodico.
«È il libro che preferisco, perché c’è tutto Levi, con la sua tavolozza intera, la tragedia e il sorriso».
E l’infanzia torinese. È stato difficile proporla ai lettori americani?
«Sono state necessarie scelte decise, come quella di escludere il dialetto. Non avrebbe avuto senso cercare qualche gergalità locale, americana. La struttura dei personaggi, però, è universale: è evidente che tutti possiamo avere un nonno strano oppure eccentrico in famiglia, e nelle situazioni che Levi ricostruisce magistralmente non è difficile identificarsi, anche senza saper nulla di Torino».
Dov’è che sono cominciati i guai?
«Ad esempio quando descrive processi scientifici - che so, la diffusione del carbonio. Sono passi davvero impegnativi. In un articolo [nella raccolta L’altrui mestiere, ndr] analizza una scena dei Promessi sposi in cui Renzo scappa col pugno per aria, studia il gesto e conclude che è impossibile, sbagliato».
Scrive infatti che «è del tutto innaturale correre con il pugno in aria. È antieconomico, anche per pochi passi: si perde molto più tempo di quanto non ne occorra per stringere e sollevare il pugno una seconda volta».
«Ecco. Rendere adeguatamente un passo simile in inglese, rispettando il tono di Levi, la sua oggettività partecipe, è una prova non da poco».

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