giovedì 22 ottobre 2015

L'invenzione del paesaggio italiano nella pittura europea tra Sei e Ottocento

Terre senz'ombra
Anna Ottani Cavina: Terre senz’ombra, Adelphi, pagg. 472, euro 50

Risvolto
 Per lungo tempo la storia è stata raccontata così: fra Sei e Ottocento, gli artisti europei arrivavano (più o meno obbligatoriamente) in Italia, dove a contatto con un paesaggio ancora simile all'Arcadia, e con le maestose rovine della civiltà classica, trovavano il senso di un mestiere che avrebbero poi passato il resto della vita a perfezionare. Di questa parabola fin troppo lineare il nuovo libro di Anna Ottani Cavina costituisce una variante piena di scoperte e di sorprese. È vero, sostiene Ottani Cavina in questa sua arringa magnificamente illustrata, gli artisti del Nord in Italia trovavano qualcosa, come la luce, cui gli studi non li avevano preparati; e, anche questo è vero, il trauma culturale e visivo li portava a modificare i loro stessi strumenti, l’uso che ne facevano: a esasperare il disegno, ad esempio, oppure, in una gran quantità di casi, ad abbandonarlo del tutto. Ma in questo modo non lavoravano a una replica fedele di quanto avevano visto, e vissuto: piuttosto, uno schizzo alla volta, una tela dopo l'altra, Poussin, Thomas Jones, Granet e molti altri cominciavano in realtà a costruire quasi dal nulla quel luogo dell'immaginazione e della memoria che da allora tutti noi, credendo di conoscerlo da sempre, chiamiamo Italia.



Quegli artisti nell’Italia dei paesaggi perduti 

Un saggio di Anna Ottani Cavina documenta l’impegno dei pittori che dal Seicento all’Ottocento illustrarono le bellezze naturali e storiche del nostro Paese

TOMASO MONTANARI repubblica 22 10 2015
Esiste ancora l’Italia? Quella misteriosa concrezione di natura e di storia che, rivelandosi, non poteva non cambiare gli artisti e il mondo? L’Italia del Rinascimento e della Maniera Moderna di Raffaello che divenne modello all’Europa, l’Italia dell’antichità che i neoclassici intesero come dimora,
come approdo ritrovato per sempre. E l’Italia della Natura, quando l’uomo moderno, divenuto viandante, inseguiva un altrove che coincideva con luoghi reali. Luoghi che non erano privi di passato e memoria, ma che venivano ora investiti da un sentimento così dirompente da fare emergere, ancora in Italia, il volto moderno della pittura».

È racchiuso in questo brano il senso dell’ultimo libro di Anna Ottani Cavina, che è una storia del paesaggio come protagonista della pittura: Terre senz’ombra , che esce come secondo numero della nuova collana Imago di Adeplhi.
Dopo un essenziale antefatto — Lorenzetti, Leonardo, Giorgione... — la partenza vera della storia, e del libro, è nel Seicento: quando Annibale Carracci «diede luce al bell’operare de’ paesi, onde li Fiamminghi videro la strada di ben formarli», come scrive nel 1642 il pittore Giovanni Baglione. Fin da allora, come si vede, è questione di primato: la pittura di paesaggio è un’invenzione italiana?
Felicemente, il libro di Anna Ottani preferisce tessere una storia di incontri: inizia con la figura ammaliante di Adam Elsheimer, un pittore tedesco che usò il cannochiale di Galileo, se non per primo, certo con più intelligenza e poesia di tutti suoi contemporanei. Già, perché parlare di pittura di paesaggio significa innanzitutto parlare di visione: come guardavano, e come vedevano, i pittori del Seicento? Siamo ancora molto lontani dal saper rispondere a questa domanda, ma è irresistibile il fascino di Elsheimer, che (suggerisce plausibilmente l’autrice) si fa prestare il nuovissimo ordigno dal cardinal Francesco Maria del Monte, il grande protettore di Caravaggio, e riesce così a dipingere il primo quadro della storia dell’arte dove la Via Lattea e le macchie lunari appaiono come sono davvero. Tanto che — lo hanno stabilito astronomi bavaresi confermando e precisando una precedente intuizione dell’autrice — si può riconoscere con esattezza la notte in cui Elsheimer si affacciò alla sua finestra: era il 16 giugno 1609. Ma, proprio come per Caravaggio, questa rinnovata attenzione per la natura non si risolve in una pittura “scientifica”, bensì in una esatta meditazione pittorica sulla perdita di centralità dell’uomo, letteralmente inghiottito in una notte esistenziale in cui è possibile procedere solo a tentoni.
Da qui si parte per un viaggio — raffinatissimo, imprevedibile, godibile come pochi altri — che ci porta fino alla metà dell’Ottocento: attraversando la Vallombrosa verdissima di Louis Gauffier; incantandosi davanti alla Napoli, luminosa e astrattamente creaturale, dell’inglese Thomas Jones; piangendo per la perdita dell’opera del magico Lusieri; ammirando le geometrie del sommo e gelido David; deliziandoci di fronte alle finestre aperte di Caspar David Friedrich; rabbrividendo degli incubi di Böcklin. Si chiude il libro in un baleno: stupendosi di aver divorato 450 pagine.
Terre senz’ombra è un magnifico libro di storia dell’arte: illustrato senza risparmio. Ma di una storia dell’arte che non abdica alla propria più intima vocazione: essere parte di una più vasta storia della cultura. La morale del libro è che se è vero che la bellezza naturale e la storia — entrambe incomparabili — dell’Italia hanno attratto infiniti occhi di artisti da tutta Europa, è anche vero che le mani di quegli artisti hanno creato opere che, a loro volta, hanno profondamente cambiato l’immagine dell’Italia, contribuendo in modo decisivo a definire la nostra identità. Quando oggi parliamo sinteticamente di «Italia», nella mente e nel cuore dei nostri interlocutori stranieri si accende un “qualcosa” che deve più a Poussin che a Garibaldi, più ad Elsheimer che a De Gasperi.
Non sembri una forzatura. Se la nostra Costituzione pone il paesaggio come un principio fondamentale per la costruzione di una Italia nuova, è perché in Costituente siedono persone come Piero Calamandrei: un grande giurista che nel 1939 scrive al figlio Franco che, se la tradizione familiare non l’avesse istradato verso il diritto, avrebbe fatto «o lo storico dell’arte o l’archeologo». Quando, nel 1944, Calamandrei riapre, come rettore, l’università di Firenze pronuncia un discorso — meraviglioso fin dal titolo: L’Italia ha ancora qualcosa da dire — in cui dice: «Quello che più ci ha offeso è stato l’assasinio premeditato delle nostre città, dei nostri villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio. Voi lo sapete che in Italia... ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie e i lutti della nostra famiglia». Una pagina altissima, un vero preludio all’articolo 9: un’epigrafe perfetta per Terre senz’ombra .
Ma «esiste ancora l’Italia?» Quella di Anna Ottani Cavina non è una domanda retorica. Da molti decenni, e con pochissime eccezioni (una è Tullio Pericoli), gli artisti non ci prestano più i loro occhi e le loro mani per vedere e sentire il paesaggio italiano. È anche per questo che non troviamo la forza di lottare contro governi, leggi, grumi di interessi, grandi opere che fanno sparire l’Italia. Leggere Terre senz’ombra in questo autunno in cui la Penisola, come sempre, si scioglie nel fango delle alluvioni da Nord a Sud fa uno strano effetto: non spinge a esiliarsi nell’Arcadia dei musei, ma spinge a combattere perché gli italiani, «studiando fin da bambini la storia dell’arte come una lingua viva, abbiano piena coscienza della loro nazione». Lo scriveva Roberto Longhi a Giuliano Briganti nel 1944: dobbiamo ancora cominciare a farlo.


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IL PAESAGGIO NON È SOLTANTO UNO SFONDO 
27 nov 2015  Corriere della Sera di Vincenzo Trione © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Un avvincente romanzo sull’arte: Terre senz’ombra (Adelphi, pp. 472, 50), l’ultimo libro di Anna Ottani Cavina. Si tratta di un romanzo involontario, che riesce a coniugare erudizione e affabulazione. Abile nel portarsi oltre le secche di un filologismo asettico e impersonale, la Ottani Cavina nelle sue pagine fa rivivere quasi con leggerezza documenti pittorici poco esplorati. E li dispone all’interno di una vasta pinacoteca, nella quale incontriamo dipinti che finora si erano lanciati tra di loro solo «segnali intermittenti». 
Nelle stanze di questo sontuoso museo immaginario ci imbattiamo, tra gli altri, in Poussin, in Thomas Jones, in Granet e in Elsheimer, i quali ci offrono il miglior ritratto pittorico possibile del nostro Paese tra Sei e Ottocento. Per loro, il paesaggio italiano non è quinta teatrale, ma protagonista decisivo della rappresentazione, forma simbolica, totalità avvolgente, «paradigma della modernità», interlocutore dotato di una propria densità linguistica, luogo catartico di metamorfosi e di risonanze. 
Nel Seicento, muovendo dalla convinzione secondo cui sarebbe inscindibile il legame tra apparenze e realtà e assegnando un’assoluta centralità alla percezione retinica, i paesaggisti credono nell’oggettività del vedere: modellano una «bellezza perfetta che trascende la disorganicità della vita». Nei secoli successivi, saranno inquietati da molte domande: capiscono che «l’intuizione razionalista» non potrà mai penetrare gli enigmi della natura; si consegnano perciò a «processi astrattivi» o a «risposte emozionali», per lambire «l’essenza non visibile». Scorre un film interamente girato in esterni da registi di diversa provenienza — francesi, tedeschi, russi, scandinavi, olandesi — che, pur se con accenti differenti, sono accomunati da alcuni aspetti: mettono in scena una natura che si manifesta non come forza vasta e tremenda, né come incarnazione di un sogno, ma come spazio-stato d’animo, governato da geometrie nette e curve, avvolto da una luce «gialla, liquida, liberamente fluente» (Henry James). Un misterioso vapore capace di trasformare le cose, di arrotondarne i dettagli e di sottolinearne gli angoli, traendone visioni di bellezza. Una specie di proustiano fondu che collega cattedrali, palazzi, vigne, boschi, fiumi, laghi e colline dentro una sublime unità estetica. 
Per interpretare queste divagazioni paesaggistiche, senza mai incrinare il rigore storiografico del suo discorso critico, la Ottani Cavina costruisce il suo trattato come un mosaico nel quale tessere teoriche e tessere monografiche convivono grazie al ricorso a una sorta di sofisticata «arte della conversazione»: le sue pagine sembrano mimare le conversation piéces sperimentate dai pittori inglesi del XVII e del XVIII secolo. Nasce così un diario affettivo, aperto a svelamenti e a scoperte, in cui si compone una fitta trama di geografie e di personaggi. Un taccuino frammentario la cui maggiore qualità, forse, è di tipo letterario. 

In linea con la migliore tradizione del saggismo d’arte italiano, la Ottani Cavina elabora una sapiente riscrittura per verba delle immagini dipinte: le fa parlare. Ventriloquo impegnato a dar voce a quel teatro di fantasmi che è ogni autentica opera d’arte, estrae con gli occhi il pensiero segreto dei «suoi» artisti. E restituisce i valori figurativi attraverso un’acuminata trasposizione verbale. In filigrana, si avvertono echi della grande lezione di Roberto Longhi, il quale aveva invitato gli storici dell’arte a togliere i quadri dal «mutismo così pericoloso per la loro stessa incolumità fisica ; parlarli bisogna. Nulla di estetizzante è nell’esigenza di riconsegnare la critica nel cuore di una attività letteraria».
Quei paesaggi italiani medicina per l’anima Da Poussin al Grand Tour così nasce in Europa la pittura “en plein air” che supera quella di storiaMARC FUMAROLI Repubblica 9 12 2015
L’Ulisse di Joyce si apre con la celebre preghiera del mattino recitata davanti allo specchio da Stephen Dedalus, il protagonista del romanzo-manifesto del Modernismo: «La storia è un incubo da cui cerco di svegliarmi». Oggi i progressi della storia-incubo e la diffusione delle immagini digitali hanno condotto alla scomparsa quasi totale della pittura, che nell’Europa premoderna era in grado di svegliare dai brutti sogni sia i grandi artisti sia i loro estimatori. Ciò nonostante, i benefici capolavori di quest’arte scomparsa sono al centro di affollatissime mostre, i collezionisti di antichità (meno numerosi che in passato) continuano a frequentare le aste, e sapienti conservatori di musei e storici dell’arte mantengono vivo il sacro fuoco della passione verso queste meraviglie d’altri tempi. Alcuni di essi sono dotati di una sensibilità
e di un talento letterario tali da essere considerati dai lettori, per la loro close reading di quadri e disegni, autentici maestri spirituali moderni, interpreti fedeli dei maestri del passato. È il caso di Anna Ottani Cavina, di cui è recentemente apparso presso Adelphi Terre senz’ombra, una bella raccolta di saggi dedicata a un genere pressoché ignoto prima della Rivoluzione francese: la pittura di paesaggio eseguita dal vero e en plein air.
Questa innovazione, che ha fatto scuola fino all’Impressionismo e cui ha contribuito una nuova e geniale generazione di pittori inglesi, francesi, tedeschi e italiani, ha avuto come teatro Roma e Napoli: capitali dell’arte situate ai margini della grande Storia europea, ma particolarmente ospitali nei confronti di artisti e viaggiatori inclini alla contemplazione, i quali, nella natura e nella luce solare del Mezzogiorno, cercavano di svegliarsi dalle nebbie natie e dall’incubo storico in cui era immersa l’Europa settentrionale.
È in questa fase che il «quadro di storia», religioso, mitologico o moderno – il genere aulico dello Stato e della Chiesa coltivato nelle Accademie, dove sarebbe rimasto in auge fino all’Ottocento –, subisce un ridimensionamento, più o meno tacito ma sempre più deciso, a opera dei generi considerati sino allora minori: il ritratto e l’autoritratto, la natura morta, e soprattutto il paesaggio, a quel tempo senza visibilità né mercato. Già nel Seicento, nella calma solenne di Roma e della campagna deserta circostante — da dove, si legge nella sua corrispondenza, udiva gli echi lontani della guerra dei Trent’anni e della Fronda -, Nicolas Poussin aveva creato per sé e per i suoi committenti divenuti amici il «paesaggio eroico», nutrito, nell’atelier, di appunti presi dal vero nel corso delle sue passeggiate per la città e i dintorni. Quello che Poussin si aspettava da composizioni di grande respiro compatibili con l’impianto solenne della pittura di storia, e dalla loro attenta lettura, era un esercizio spirituale di liberazione dal mondo e di consolazione dell’anima. Gli inglesi del Grand Tour, provenienti da una nazione dal temperamento considerato geniale (se pure al prezzo di una tendenza alla malinconia e talvolta persino al suicidio), se ne innamorarono e presero a collezionare i «paesaggi eroici» di Poussin e quelli di Claude Lorrain.
Nella stessa Francia, nazione a cui la classica tassonomia dei caratteri nazionali attribuiva un’indole gioviale, due dei Dialoghi dei morti di Fénelon, pubblicati nel 1712 e concepiti per la difficile educazione del duca di Borgogna, innalzarono la lettura di due quadri meditativi di Poussin a genere terapeutico esemplare. Questa lezione non fu dimenticata. E Jean-Jacques Rousseau, che avrebbe voluto, diceva, «essere il domestico di Fénelon», fece definitivamente assurgere la passeggiata in aperta campagna — lontano dalle città, dalla loro inesausta attività e dalle loro trame politiche — a medicina morale degli europei moderni.
Un secolo e mezzo dopo Poussin, all’epoca del Concordato, François-Marius Granet, allievo di David — il pittore di storia per eccellenza -, e amico di Girodet e di Ingres, dipinse a Roma vasti interni di chiese e di chiostri in controluce; le tele ebbero un successo commerciale enorme e, unitamente al best seller di Chateaubriand Il genio del cristianesimo,
contribuirono al revival religioso seguito, in Francia e in Europa, al Terrore di cui David «il pittore di storia» era stato un protagonista. Ma, per se stesso, Granet disegnò e dipinse vedute di Roma e della campagna romana, paragrafi di un diario intimo scritto con il pennello, che l’artista non aveva intenzione di esporre né di vendere.
La cesura fra l’io razionale e pubblico dell’accademico e l’io poetico e privato dell’artista, vissuta per due volte senza drammi da questo grande pittore cattolico, prefigura lo scisma che nella Parigi del Secondo Impero opporrà apertamente gli artisti dell’Accademia a quelli del Salon des Refusés.
Una cesura che aveva avuto un antecedente, in Inghilterra, nella dedizione assoluta con cui i pittori britannici innamorati di Poussin e di Lorrain si erano dedicati al paesaggio e al ritratto. John Constable (1776-1837) non aveva avuto bisogno di Roma né di Londra per esplorare pervicacemente la natia provincia rurale del Suffolk. Un felice attaccamento alle proprie radici che faceva presagire la scoperta da parte dei paesaggisti francesi, tornati o meno da Roma, della loro terra, della loro luce.
Tutta la Germania luterana, e in particolare i pittori, avrebbe rifiutato il neopaganesimo di Winckelmann e di Goethe, che in vecchiaia visse la sua Egira a Roma e in Sicilia. Dopo il fallimento delle crociate, l’Europa cattolica e gli stessi italiani avevano sostituito Gerusalemme e la Palestina occupate dai turchi con un’Italia-Terrasanta e una Roma apostolica cui conferivano sacralità le reliquie della Passione e le rovine di antica capitale del mondo pagano. La Riforma non aveva accettato questa translatio, né l’antropomorfismo caratteristico della devozione cattolica, nel quale vedeva una forma di idolatria.
Invece di misurarsi con l’idolatria per tentare di depurarla dell’iconografia romana, come auspicavano Goethe e i suoi amici, due fra i maggiori pittori tedeschi dell’epoca, Caspar David Friedrich (1774-1840) e Philipp Otto Runge (1777-1810), evitarono ogni pellegrinaggio a Roma, e cercarono nella pittura del paesaggio nordico il terrore religioso che si accompagna, secondo Edmund Burke, all’epifania astratta del sublime. In linea con la tradizione mistica del pietismo, i due attribuivano alla rappresentazione della natura, immune dal peccato originale, il potere di far adorare il Creatore senza idolatrarlo.
Anna Ottani Cavina, che è storica dell’arte, unisce, sulla scia di Longhi, alla sua rigorosa erudizione e all’empatia poetica il talento della scrittrice, attenta al senso misterioso delle opere che commenta non meno che alle tecniche, ai sapori e ai materiali che distinguono il paesaggio dipinto o disegnato da quello fotografato. Si esce dalla lettura e rilettura di questo libro, illustrato con squisita raffinatezza e stampato su una carta delicatamente granulosa, secondo lo stile Adelphi, come da un viaggio sentimentale à la Sterne fra Roma e Firenze, con qualche puntata in Inghilterra, in Francia e in Russia, attraverso un caos di rivoluzioni e di invasioni, ma in compagnia di paesaggisti impegnati a svegliarsi, e a svegliare anche noi con loro, dalla Storia e dai pittori a essa asserviti.

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