mercoledì 14 ottobre 2015

Piketty altereuropeista di grido

Si può salvare l'Europa?Thomas Piketty: Si può salvare l’Europa?, Bompiani, pagg. 392, euro 20

Risvolto
Thomas Piketty raccoglie in questo libro i suoi interventi apparsi su "Libération", sui temi a lui più cari. Ne risulta una sintesi, in un'ottica europea. Il libro è una edizione aggiornata e arricchita dei suoi più recenti interventi.

Quelle verità nascoste nel regno dell’austerity 

L’economista francese analizza il “non detto”delle politiche europee: “Amnesia e ipocrisia sono i reali principi su cui si fonda il dominio delle nazioni più forti”
THOMAS PIKETTY Repubblica 14 10 2015
La cosa più triste, nella crisi europea, è l’ostinazione con la quale i leader al potere presentano la loro politica come l’unica possibile, e il loro timore per ogni scossa politica che possa alterare anche solo di poco l’attuale quadro istituzionale. La palma del cinismo spetta sicuramente a Jean-Claude Juncker, il quale, dopo le rivelazioni di LuxLeaks, spiega

tranquillamente all’Europa sbalordita di non aver avuto altra scelta, quand’era alla testa del Lussemburgo, se non quella di gonfiare la base fiscale dei suoi compatrioti: «L’industria declinava, vedete, dovevo pur trovare una nuova strategia di sviluppo per il mio paese; che cos’altro potevo fare se non trasformarlo in uno dei peggiori paradisi fiscali del pianeta?». I paesi vicini, alle prese anch’essi da decenni con la deindustrializzazione, apprezzeranno. Oggi non basta più scusarsi: è tempo di ammettere che sono le stesse istituzioni europee a essere chiamate in causa, e che solo una rifondazione democratica dell’Europa può aiutare a portare avanti politiche di progresso sociale. In concreto, se si vuole davvero evitare il ripetersi di scandali LuxLeaks, occorre rinunciare alla regola dell’unanimità in materia fiscale, e prendere tutte le decisioni in fatto di imposte sulle grandi società (e idealmente sui redditi e i patrimoni più elevati) a maggioranza. E se il Lussemburgo e altri paesi dicono no, il loro no non deve impedire ai paesi che dicono sì di costituire un nocciolo duro che proceda da solo lungo la strada tracciata, e di adottare le sanzioni necessarie contro chi continua a voler approfittare dell’opacità finanziaria dominante.
La palma dell’amnesia spetta invece alla Germania, con la Francia come fedele secondo. Nel 1945 i due paesi avevano un debito pubblico superiore al 200% del pil. Nel 1950 esso era sceso a meno del 30%. Che cosa accadde? Svincolarono di colpo le eccedenze di bilancio, per rimborsare un debito del genere? Evidentemente no: solo con l’inflazione e il ripudio puro e semplice — in una parola la cancellazione — del debito, Germania e Francia si sono sbarazzate nel secolo scorso del debito stesso. Se avessero tentato di svincolare pazientemente e annualmente eccedenze dell’1 o del 2% del pil, oggi sarebbero ancora lì, più o meno allo stesso punto, e sarebbe stato più difficile per i governi del dopoguerra investire nella crescita. Eppure oggi sono questi due paesi a continuare a dire, dal 2010-2011, ai paesi del Sud Europa, che il loro debito dovrà essere rimborsato fino all’ultimo euro. Si tratta tuttavia di un egoismo miope, perché proprio il nuovo Patto di bilancio europeo approvato nel 2012, guarda caso su pressione di Germania e Francia — trattato che impone un regime di austerità in tutta Europa (con una riduzione troppo rapida del deficit dei singoli paesi e un sistema di sanzioni automatiche totalmente inoperante) — ha portato a una recessione generalizzata dell’eurozona. Mentre l’economia è ripartita un po’ ovunque, in particolare negli Stati Uniti e nei paesi dell’ue esterni all’eurozona.
All’interno dell’accoppiata, la palma dell’ipocrisia spetta comunque, incontestabilmente, ai leader francesi, i quali passano il tempo a gettare la colpa sulla Germania, quando si tratta chiaramente di una responsabilità condivisa. Il nuovo Patto di bilancio europeo, negoziato dalla vecchia maggioranza, e ratificato dalla nuova, non avrebbe potuto essere approvato senza la Francia, la quale ha più che mai condiviso con la Germania la scelta dell’egoismo nei confronti del Sud Europa: visto che paghiamo un tasso d’interesse tanto basso, perché condividerlo con gli altri? Il fatto è che una moneta unica non può funzionare con 18 debiti pubblici diversi e 18 tassi d’interesse diversi, sui quali i mercati finanziari possono liberamente speculare.
Occorrerebbe investire massicciamente nella formazione, nell’innovazione e nelle tecnologie verdi. Mentre si fa tutto il contrario: attualmente, l’Italia spende quasi il 6% del suo pil per pagare gli interessi del debito e ne investe appena l’ 1% nel sistema universitario.
A questo punto, quali crisi potrebbero aiutare a smuovere la situazione? Esistono, grosso modo, tre possibilità: una nuova crisi finanziaria, uno scossone politico prodotto alla sinistra e uno scossone politico prodotto dalla destra. Gli attuali leader europei dovrebbero avere l’intelligenza di riconoscere che la seconda possibilità è di gran lunga la migliore: i movimenti politici che crescono oggi a sinistra della sinistra, come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, sono fondamentalmente internazionalisti e filoeuropei. Anziché emarginarli, bisognerebbe invece collaborare con loro per tracciare i contorni di una rifondazione democratica della ue. Altrimenti rischiamo di dover spegnere un segnale di allarme ancora più inquietante, trasmesso dalla destra: nelle regionali del dicembre 2015, salvo un cambiamento delle modalità di voto, è assolutamente possibile che il Front National conquisti parecchie regioni. Possiamo anche augurarci l’impossibile. Al punto in cui siamo, Hollande avrebbe insomma l’occasione di ammettere gli errori commessi nel 2012 e di tendere la mano al Sud Europa, formulando una buona volta delle proposte coraggiose per tutto il continente.
© Les liens qui libèrent 2012, 2015. Published by arrangement with L’Autre agence, Paris, France and Anna Spadolini Agency, Milano, Italy © 2015 Bompiani (Traduzione di Sergio Arecco)
©RIPRODUZIONE RISERVATA


Una teoria divenuta scuola
di Federico Rampini Repubblica 14.10.15
Ormai si può parlare di un “effetto Piketty”, forse di una Scuola Piketty. Gli studi sulle diseguaglianze hanno una fioritura rigogliosa da quando l’economista francese ha fatto fuochi d’artificio internazionali, sia in termini di vendite che di notorietà e impatto sul dibattito pubblico. Gli ultimi due casi sono di questi giorni. A diffondere consapevolezza sulla dimensione dell’elusione fiscale delle multinazionali ha contribuito il saggio di un economista di Berkeley, Gabriel Zucman, intitolato
The Hidden Wealth of Nations ,
cioè la ricchezza nascosta delle nazioni. È per certi aspetti un “successore” dello studio di Piketty su capitalismo e diseguaglianze. Zucman ha stimato che le grandi imprese nascondono al fisco un imponibile pari a 7.600 miliardi di dollari. Ha avuto qualche ruolo nella decisione di principio annunciata dai paesi avanzati al vertice del Fmi a Lima: un accordo di massima per rendere meno agevole la fuga verso i paradisi offshore. Poi c’è stato il Nobel dell’economia assegnato allo scozzese Angus Deaton, che tra l’altro si è occupato dei nessi tra il reddito e indicatori alternativi di benessere, e dell’analisi della povertà a livello globale.
Non mancano le controreazioni, un esempio lo ha dato il Financial Times in un paginone dedicato a vari saggi sulle diseguaglianze. Primo fra questi è un anti-Piketty scritto dal “pop-filosofo” Harry Frankfurt, che rispolvera obiezioni classiche: il rimedio più semplice alle diseguaglianze è rendere tutti poverissimi, ma siamo sicuri di volerlo? Ma Piketty e altri, incluso un recentissimo Robert Reich uscito in anteprima mondiale in Italia ( Come salvare il capitalismo , Fazi) spiegano che le diseguaglianze stanno spegnendo il nostro dinamismo, la nostra capacità di crescere. Società patrimoniali e oligarchiche soffocano l’innovazione. La stagnazione secolare che incombe su di noi, può essere evitata solo con scelte politiche radicali, che curino il male oscuro delle democrazie. Altri economisti come i neokeynesiani Krugman e Stiglitz scrivevano queste cose già da tempo. Piketty ha avuto l’intuizione di lavorare come uno storico delle Annales , con una formidabile squadra di collaboratori. Il suo affresco del capitalismo su due secoli ha catturato l’attenzione e ha aperto nuove strade alla ricerca. 

Il federalismo di una superstar 
Derive continentali. Una cronologia delle vicende europee. Dalle illusioni iniziali all’attuale crisi irreversibile del progetto teso a costruire l’Europa politica. Una raccolta degli scritti di Thomas Piketty per Bompiani 
Marco Bascetta Manifesto 4.11.2015, 0:36 
L’autore c’è, eccome! È Tho­mas Piketty, una super­star, il cele­brato autore de Il Capi­tale nel XXI secolo. Il titolo anche: Si può sal­vare l’Europa? Chi mai sarebbe tanto nichi­li­sta o indif­fe­rente dal non porsi que­sta domanda? Quello che non c’è, invece, è pro­prio il libro, a dispetto delle quasi 400 pagine (Bom­piani, euro 20) che ci tro­viamo tra le mani. Ma, in fondo, era­vamo stati avver­titi: «il libro rac­co­glie l’insieme delle Cro­na­che men­sili dell’autore, pub­bli­cate su Libé­ra­tion dal set­tem­bre 2004 al giu­gno 2015, senza alcuna cor­re­zione o riscrit­tura» . E, va aggiunto, senza alcuna nota o ele­mento di cura e sele­zione per l’edizione italiana. 
Si può imma­gi­nare quanto risulti ostico, o tedioso, per il let­tore ita­liano un arti­colo scritto per un quo­ti­diano fran­cese, magari una decina di anni fa, rife­ren­dosi a una spe­ci­fica con­tin­genza nel qua­dro poli­tico tran­sal­pino dell’epoca. O seguire com­menti e affondi cri­tici con­tro deter­mi­nate poli­ti­che e misure legi­sla­tive senza cogni­zione alcuna del sistema pre­vi­den­ziale , fiscale o sco­la­stico fran­cese. Dif­fi­coltà per le quali que­sta edi­zione non offre il minimo aiuto, né ha ope­rato alcuna ragio­ne­vole sele­zione, tanto da pro­pi­narci nume­rose e fasti­diose ripe­ti­zioni. Insomma, un libro «but­tato lì» dall’indifferenza dell’autore e dalle le pre­vi­sioni di mar­ke­ting dell’editore secondo il prin­ci­pio del minimo sforzo per un risul­tato quale che sia, salvo che in ter­mini di vendite. 

Dif­fi­denze francesi 
Mal­grado la discu­ti­bile qua­lità dell’operazione edi­to­riale non man­cano, tut­ta­via, arti­coli sin­te­ti­ca­mente effi­caci soprat­tutto su due que­stioni asso­lu­ta­mente cen­trali nell’argomentazione cri­tica di Piketty, quella fiscale e quella del debito. Che l’autore tratta sag­gia­mente in modo stret­ta­mente col­le­gato. La pres­sione fiscale sui cit­ta­dini euro­pei dei paesi medi­ter­ra­nei, con i suoi effetti depres­sivi, accom­pa­gnata da un ridi­men­sio­na­mento del wel­fare invece che dalla sua esten­sione, è infatti lar­ga­mente deter­mi­nata dagli ele­vati inte­ressi sul debito e dalle irrea­li­sti­che regole di rien­tro pre­vi­ste dalle isti­tu­zioni euro­pee per que­sti paesi. 
La pro­spet­tiva sto­rica adot­tata dall’economista fran­cese ha il merito di illu­mi­nare l’infondatezza delle pre­vi­sioni e l’inefficacia degli stru­menti pre­scritti dalla dot­trina ordo­li­be­rale al Vec­chio con­ti­nente. Nem­meno con gli alti livelli di cre­scita dell’immediato dopo­guerra Fran­cia e Ger­ma­nia avreb­bero potuto sba­raz­zarsi del loro enorme debito pub­blico senza l’inflazione e un taglio bello e buono. Eppure con tassi di cre­scita infi­ni­ta­mente minori anche nelle più rosee pre­vi­sioni, e senza poter fare ricorso allo stru­mento della sva­lu­ta­zione, Parigi e Ber­lino con­ti­nuano a pre­ten­dere dai paesi più inde­bi­tati dell’eurozona l’obbligo di rim­bor­sare fino all’ultimo euro. Inne­scando così una spi­rale senza fine desti­nata ad accen­tuare gli squilibri. 
Piketty non è certo tenero con le timi­dezze, le reti­cenze e gli egoi­smi, peral­tro a lungo ter­mine poco van­tag­giosi, delle poli­ti­che euro­pee del pre­mier socia­li­sta fran­cese Fra­nçois Hol­lande. Aldilà dalle posi­zioni di fac­ciata, la dif­fi­denza fran­cese per l’Europa poli­tica costi­tui­sce uno sfondo per­ma­nente. Ma l’eurozona, così come è stata con­ce­pita e poi gestita nel corso della crisi, non è in grado di fun­zio­nare e viag­gia sem­pre sull’orlo di una pos­si­bile cata­strofe. Senza una decisa cor­re­zione di rotta gli attuali squi­li­bri non faranno altro che aggra­varsi, spia­nando la strada alle forze euro­scet­ti­che della destra. 
Il punto su cui lo stu­dioso fran­cese ritorna con­ti­nua­mente è la neces­sità di met­tere in comune il debito pub­blico dei paesi euro­pei onde garan­tire a tutti tassi d’interesse bassi e sta­bili, al riparo dalla spe­cu­la­zione e dall’inflazione. Per fare que­sto ser­vi­rebbe però un orga­ni­smo euro­peo di governo, che Piketty vedrebbe com­po­sto dai mem­bri delle Com­mis­sioni bilan­cio dei diversi par­la­menti nazio­nali. «La prio­rità asso­luta – scrive nel 2010 – deve essere rap­pre­sen­tata dal costi­tuirsi di un potere pub­blico euro­peo capace di lot­tare ad armi pari con i mer­cati finan­ziari». Dun­que un passo avanti verso il fede­ra­li­smo in Europa, ma senza impru­denze o fughe in avanti. Non si tratta di met­tere tutto in comune (sistemi pre­vi­den­ziali, sco­la­stici etc.), sostiene Piketty, ma solo quelle cose che un paese non è in grado di fare da solo. E cioè essen­zial­mente due: oltre al governo dei debiti sovrani nel mer­cato glo­bale, una impo­sta euro­pea sui red­diti d’impresa, tale da met­tere fine al dum­ping fiscale di cui si avvan­tag­giano le multinazionali. 
Ma ciò che osta­cola nell’arena con­creta della poli­tica e dell’economia euro­pee ipo­tesi ragio­ne­voli come quelle avan­zate dallo stu­dioso fran­cese è il fatto che poteri pub­blici e mer­cati finan­ziari si sono sal­da­mente intrec­ciati nel corso degli ultimi decenni sia sul piano dell’ideologia che su quello delle pra­ti­che di governo, fino a con­vin­cere i con­tri­buenti dei paesi ric­chi a con­si­de­rarsi attori vin­centi nella com­pe­ti­zione sul mer­cato della finanza. Così la pro­por­zio­na­lità piatta dell’imposizione fiscale su patri­moni grandi e pic­coli, fino alla pura e sem­plice regres­si­vità delle impo­ste, il man­te­ni­mento di nic­chie ed esen­zioni a van­tag­gio delle ren­dite e degli alti red­diti, che Piketty si pro­pone giu­sta­mente di com­bat­tere, pog­giano su quella vit­to­ria poli­tica delle éli­tes che non ha ancora incon­trato sullo scac­chiere euro­peo una rea­zione capace di rove­sciarne il segno. Come l’esito della vicenda greca nello scorso luglio e l’atteggiamento, assog­get­tato agli inte­ressi dei cre­di­tori, assunto in quella occa­sione dalle social­de­mo­cra­zie euro­pee stanno chia­ra­mente a dimostrare. 

Élite implose 
L’ultimo arti­colo pre­sente in que­sta rac­colta si ferma tut­ta­via alla metà di giu­gno del 2015, prima della resa di Atene. Per modi­fi­care il corso di una unione mone­ta­ria che viag­gia, con una Banca cen­trale che la può con­tra­stare solo fino a un certo punto, verso l’implosione, tre sono, secondo Piketty, le even­tua­lità da pren­dere in con­si­de­ra­zione: una nuova, acuta, crisi eco­no­mica, uno scos­sone poli­tico pro­vo­cato dalla destra, o uno scos­sone poli­tico pro­vo­cato dalla sinistra. 
Guar­dan­dosi intorno non è dif­fi­cile sco­prire quale delle tre even­tua­lità sia la meno pro­ba­bile. Per quanto riguarda i socia­li­sti al governo in Fran­cia gli arti­coli di que­sta rac­colta tol­gono ogni resi­dua illu­sione sul «social­mal­de­stro» Hol­lande. Quanto al Pd di Mat­teo Renzi non par­lia­mone neppure.

Nessun commento: