martedì 20 ottobre 2015

Quotidiani esempi di negazionismo pratico dell'Olocausto palestinese

Dunque ci sarebbe una guerra di religione tra fanatici beduini per queste cose qua [SGA].



“L’Europa deve agire o nessuno troverà più la strada per la pace”
Abraham Yehoshua Lo scrittore israeliano: “I gesti criminali arrecano danni a entrambe le comunità. L’Ue può avere un ruolo decisivo per portare le parti attorno a un tavolo”

intervista di Guido Andruetto Repubblica 18.10.15
«È necessario agire, servono iniziative concrete. Dobbiamo fermare questa nuova escalation di violenza». Si scalda lo scrittore Abraham B. Yehoshua, al telefono dalla sua casa a Tel Aviv, commentando la nuova escalation del conflitto israelo-palestinese.
Signor Yehoshua, questi atti violenti quali reazioni potrebbero innescare nel popolo israeliano e in quello palestinese?
«Se non si ferma la violenza, la strada della pace diventerà sempre meno percorribile per entrambe le parti. Vediamo in azione individui isolati che sono degli assassini, i cui gesti criminali hanno ripercussioni anche sulle due comunità chiamate in causa. È uno scenario molto triste e pericoloso: questi giovani palestinesi armati di coltello che cercano di uccidere gli ebrei israeliani di fatto si suicidano perché vengono uccisi subito dopo. Si deve fare tutto il possibile per fermarli. Se questa situazione perdura il livello dello scontro aumenterà».
Anche al Monte del Tempio, luogo sacro sia per l’Islam che per l’ebraismo, la tensione resta altissima. Quali soluzioni intravede per quest’altra criticità?
«Guardi, la questione è spinosa ma anche molto chiara. Io penso che si debba ripristinare lo status quo e dunque vietare agli ebrei di pregare al Monte del Tempio. Venga dunque permesso di visitarlo ma non di pregare. È necessario fermare subito questa provocazione della preghiera. Anche il nostro primo ministro lo sta dicendo, ma il punto non è quello che lui dice, ma quello che fa realmente per vietare agli ebrei di pregare al Monte del Tempio. Il governo di Israele deve mostrare con molta chiarezza questa presa di posizione e agire tempestivamente. E poi bisognerebbe porre anche fine alle visite sul posto di ministri e parlamentari israeliani».
Secondo lei chi sono i veri responsabili del conflitto che nelle ultime settimane è riesploso fra israeliani e arabo-palestinesi?
«Da una parte certamente gli insediamenti israeliani hanno aggravato la situazione, ma quando il premier Netanyahu, rivolgendosi al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha dichiarato davanti alle telecamere che era disponibile a recarsi a Ramallah per parlare e negoziare senza nessuna precondizione, Abu Mazen non ha risposto e questo secondo il mio punto di vista è stato un grandissimo errore. Netanyahu invece ha sbagliato a proseguire la strada di espansione degli insediamenti, perché se non ci fossero stati sarebbe risultato molto più semplice giungere ad un accordo, lavorare alla demilitarizzazione della Palestina e creare un loro stato».
Che colpe ha Hamas?
«Non ha saputo costruire una situazione di pace dopo l’evacuazione di Gaza e degli 8mila ebrei e delle forze militari: invece di fare diventare Gaza un modello della futura Palestina, ha iniziato con questo terribile lancio di mis- sili. Così, anziché convincere l’opinione pubblica israeliana che l’evacuazione dai Territori avrebbe portato la pace, ha fatto irrigidire gli israeliani che hanno percepito l’abbandono dei territori come ulteriore causa di guerra e conflitto».
Adesso siamo di fronte ad una nuova Intifada?
«Non penso. Gli arabi palestinesi sanno che la seconda Intifada per loro è stata un disastro e non li ha portati da nessuna parte. I palestinesi non la vogliono, esattamente come gli ebrei».
Il primo passo verso la pace è avviare il negoziato?
«Bisogna portare le due parti in pochi mesi a un incontro di negoziazione. L’influenza dell’Europa in questo senso è fondamentale: gli Stati Uniti in questo momento sono in campagna elettorale e non possono fare nulla, mentre l’Europa può esercitare un ruolo decisivo per raggiungere un accordo tra Israele e Palestina».


L’amaca di Michele Serra

Repubblica 18.10.15
HO cercato di capire qualcosa di più sulla Tomba di Giuseppe, uno dei tanti edifici e siti oggetto dell’inesausta lite tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e musulmani. Ho scoperto che al pari di infinite vestigia e reliquie dei tre monoteismi, il valore simbolico è certo, quello storico molto incerto: non si sa nemmeno se la tomba di Giuseppe sia davvero la tomba di Giuseppe; né se Giuseppe sia un personaggio storico o della suggestiva fiction biblica, i cui sceneggiatori non sono più tra noi da circa tremila anni.
Il rispetto che si deve ai simboli (tutti) non può impedire agli uomini di buona volontà di riflettere sul peso micidiale che le tradizioni religiose ancora infliggono ai figli dei figli dei figli; sul prezzo di sangue che ancora esigono. Si ha un bel dire che sono sempre l’economia e la politica a regolare la guerra e la pace, e che il conflitto religioso è solo un pretesto. Come pretesto funziona perfettamente, perpetua gli odii, separa i destini, aizza i fanatici, arma i disgustosi fondamentalismi. Sarà una considerazione banalmente meccanicistica, ma se un’epidemia di laicità, se non di miscredenza, dilagasse in Terra Santa, probabilmente morirebbero meno persone, in Terra Santa.


La spianata dell’odio

E’ su questa collina di Gerusalemme che è nata la “Terza intifada”

Perché è qui che si sono accumulati leggende e conflitti delle tre religioni

di Siegmund Ginzberg Repubblica 18.10.15
SI DICE CHE LA BELLEZZA DEL LUOGO sia tale da sconvolgere le menti. E in effetti centinaia di persone vengono ricoverate ogni anno con quella che viene definita “Sindrome di Gerusalemme”, uno stato di delirio da fervore religioso, scatenato dalla vicinanza di siti troppo carichi di santità e storia. Sigmund Freud sapeva quanto fossero pericolose quelle pietre. Scrisse negli anni Venti ad Einstein di non provare “alcuna simpatia per una religiosità aberrante che fa di un pezzo del muro di Erode una religione nazionale, e per amore della quale si offendono i sentimenti della popolazione locale”. E poi all’amico Arnold Zweig, di ritorno da un viaggio in Palestina: “Ti sarà sembrata ben strana questa terra di tragica pazzia, che non ha mai prodotto altro che religioni, sacre frenesie e presuntuosi tentativi di imporre al mondo le proprie pie illusioni”. Amos Oz è anche più perentorio. Ha proposto: “Dovremmo rimuovere pietra per pietra e trasferirle in Scandinavia per cento anni, e non riportarle finché tutti abbiano imparato a vivere insieme in Gerusalemme”. Ma non è detto che basti un secolo.
Il fascino della Spianata viene dal modo in cui nei millenni si sono sovrapposti infiniti strati di pietre e passioni, si è ricostruito sulle rovine e poi distrutto di nuovo, si sono accumulati storie e leggende di tutte e tre le religioni monoteiste. Ma anche strati su strati di risentimento e di odio. Dovrebbe essere un sito caro a Dio e agli uomini. Poteva essere il luogo di un modello di convivenza tra chi crede che qui fosse l’altare su cui Abramo stava per sacrificare Isacco, che qui sorgesse il Tempio di Salomone, qui pianse Gesù profetizzando che non sarebbe rimasto “pietra su pietra” e qui fu chiamato in cielo Maometto. E invece è la pietra di tutte le discordie.
Non sono d’accordo nemmeno sul nome. “Monte del Tempio”, Har Ha-Báyit
è come lo chiamano gli ebrei,
Al-aram al-Šarf (“Nobile santuario”) i musulmani. Si ritiene che la piattaforma sorga sul luogo dove si trovava tre millenni fa il Tempio distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C., e poi fu ricostruito il Secondo Tempio al ritorno dall’esilio babilonese, reso splendido da Erode e infine bruciato e raso al suolo dalle legioni di Tito nel 70 d.C. Si sarebbe dovuto attendere la conquista islamica da parte del Califfo Omar nel 638 perché si superasse la dissacrazione del luogo. Fu il vincitore di una delle prime guerre fratricide in seno all’islam, il Califfo di Damasco Abd-el-Malik, a far completare nel 691 la splendida Cupola della Roccia che domina la Spianata con la sua elegante mole dorata, e suo figlio Walid a costruirvi pochi anni dopo la Moschea di Al-aqsa.
Ma guai a chi pensi di scavare e studiare gli immensi labirinti sottostanti: gli archeologi non sono graditi, si prestano al sospetto di voler sostenere questa o quella parte della leggenda. È già tanto che non rischino il linciaggio a furor di popolo come successe agli inizi del Novecento all’avventuriero britannico Montagu Parker. Era corsa voce che, calandosi da un buco nel pavimento, avesse trovato e trafugato niente meno che la corona di Salomone, l’Arca dell’Alleanza e la spada di Maometto. Quella fu una delle poche volte che la rivolta vide fianco a fianco ebrei e musulmani.
Ci sono intere biblioteche sulle plurisecolari vicende di follia, massacri, stupidità, ma anche di tolleranza e magnanimità attorno a quelle pietre. Ma non sono sicuro che abbiano appeal tra i più giovani contendenti di oggi.
Sono passati quasi cinquant’anni da quando nel giugno 1967, durante la guerra dei Sei giorni, i paracadutisti di Moshè Dayan e Isaak Rabin avevano raggiunto, dopo una schermaglia con le truppe giordane, la Spianata delle Moschee. L’obiettivo era il Muro del pianto, il Kotel , ai piedi della parete a strapiombo sul lato meridionale della spianata. Ma non sapevano come arrivarci. Fu un vecchio arabo a indicargli la strada. Il rabbino Shlomo Goren, cappellano capo dell’esercito israeliano, avrebbe voluto far saltare le moschee. I comandanti militari lo zittirono, dicendogli che era pazzo da legare. Dayan vide che avevano issato una bandiera israeliana sulla grande Cupola dorata. Ordinò che venisse immediatamente tolta.
Altri non ebbero altrettanta delicatezza. Nel settembre del 2000 Ariel Sharon, allora leader del Likud all’opposizione, decise di fare una “passeggiata” sulla Spianata, protetto da falangi di poliziotti. Sostenne che si trattava di un “messaggio di pace”. Scatenò invece la cosiddetta Seconda intifada. Non ci furono solo le sassaiole: sarebbe seguito un decennio di sanguinosi attentati suicidi. Da allora la catena di provocazioni e sospetti incrociati, con le conseguenti esplosioni di violenza, non si sarebbe mai davvero arrestata. Non passa anno che non si ricominci da capo. Non occorre nemmeno che le provocazioni siano intenzionali, succeda qualcosa di grave, volino sassi o molotov, scorra sangue. Stavolta ad accendere la miccia della “Terza intifada” sarebbe stata la voce, pare del tutto infondata, che le autorità israeliane si apprestavano a consentire la preghiera nelle moschee anche ai non islamici.
Il magnifico labirinto di pietre della Spianata poggia su una città forse più divisa di quanto lo sia mai stata. Non è più solo questione di separazione tra Gerusalemme ebraica ed araba, della tradizionale divisione tra i quartieri ebraico, musulmano, cristiano e armeno nella Città vecchia. Ci sono una città ebrea-sionista che si sta sfoltendo e una città ebrea-ultra ortodossa che sta prevalendo, una città arabo-palestinese e una città arabo-estremista. Che si guardano in cagnesco, anzi non si guardano nemmeno più quando si incrociano per le strade. Sono mondi ancora più schizofrenici di quelli del passato. La spaccatura anzi non è più nemmeno tra le diverse fedi, è all’interno di ciascuna fede. È diventata una spaccatura tra generazioni: il guaio è che i più giovani sembrano avere perso la cognizione di quello per cui si battevano i loro padri. La demografia è ancora più spietata della storia. Non ha funzionato che per un paio di giorni la proibizione l’anno scorso dell’accesso alla Spianata ai minori di cinquant’anni. Non si vede come possa durare a lungo la scelta di ostacolare ora ogni accesso. Non ci sono nemmeno più molte nuove idee di soluzione.
L’internazionalizzazione di Gerusalemme proposta dall’Onu nel 1949 appare antidiluviana. Così come la proposta di Bill Clinton di una divisione verticale del Monte, con controllo palestinese sulla spianata superiore e israeliano sulla parte inferiore. Salomone se l’era cavata proponendo di tagliare in due con la spada il bambino conteso dalle madri. Qui si rischia che piuttosto l’ammazzino loro.



Gerusalemme, pagano le famiglie degli attentatori

Case circondate e minacciate di demolizione, arresti, intimidazioni

Cresce la pressione delle autorità israeliane sui familiari dei palestinesi responsabili di attacchi

Non va meglio in Cisgiordania. Ieri altri cinque tentati accoltellamenti di coloni e soldati, di cui quattro a Hebron. Quattro palestinesi uccisi
di Michele Giorgio il manifesto 17.10.15

GERUSALEMME Reparti della polizia israeliana ieri sono entrati con decine di uomini a Jabel Mukaber. Hanno circondato una casa e bloccato le strade circostanti, con la copertura di tiratori scelti. Quindi hanno prelevato la madre, il padre e i fratelli di Muataz Oweisat per interrogarli. L’intera famiglia si è ritrovata sotto accusa per l’azione compiuta dal figlio 16enne. Muataz, stando al resoconto ufficiale, è stato ucciso quando ieri mattina ad Armon HaNetsiv — una colonia costruita nella zona occupata di Gerusalemme, un “quartiere” secondo la definizione israeliana — ha estratto un coltello dalla tasca e tentato di colpire un agente durante un controllo della polizia. La Oweisat è una delle famiglie allargate di Jabel Mukaber maggiormente prese di mira dalle autorità. La partecipazione di suoi membri ad alcuni degli attacchi che dal 1 ottobre hanno ucciso cinque israeliani a Gerusalemme, ha trasformato in potenziali terroristi tutti gli Oweisat, di ogni età, uomini e donne. Da un giorno all’altro possono ritrovarsi senza un tetto sulla testa. Tre giorni fa a Jabel Mukaber, in linea con le misure decise dal gabinetto di sicurezza israeliano, sono state consegnate a quattro famiglie palestinesi ordini di evacuazione immediata dalle loro abitazioni che saranno demolite al più presto. Famiglie che potrebbero perdere anche il diritto a risiedere a Gerusalemme, vedersi confiscati tutti i beni e anche il diritto a seppellire i loro congiunti responsabili di attacchi (i corpi saranno inumati in luoghi segreti dalla polizia israeliana). E girano indiscrezioni che, dovessero continuare gli accoltellamenti, le famiglie dei responsabili di questi atti rischierebbero di essere deportate a Gaza. Sono punizioni collettive criticate dai centri per i diritti umani ma che le autorità giustificano con l’urgenza di fermare a tutti i costi quella che in Israele chiamano “Intifada dei Coltelli” e i palestinesi “Intifada di Gerusalemme”.

Ulteriori provvedimenti potrebbero essere adottati in Cisgiordania, dove la legge militare già non prevede le tutele sulle quali, almeno fino a qualche giorno fa, potevano contare le famiglie palestinesi di Gerusalemme. Ieri altri due adolescenti sono stati uccisi dopo aver aggredito un colono e una agente di polizia. Entrambi gli attacchi sono avvenuti nel settore H2 di Hebron sotto il controllo delle forze armate israeliane. Il 18enne Fadil Qawasmeh ha provato a colpire un colono accanto a Beit Hadassah, un edificio in Via Shuhada dove vivono diverse famiglie di coloni ebrei, ma è stato fermato e ucciso. Via Shuhada è nota. A poche decine di metri dalla casbah, un tempo era il cuore pulsante del commercio di Hebron. Dal 2000 in poi per “ragioni di sicurezza” è stata progressivamente chiusa ai palestinesi, su insistenza (o imposizione) dei coloni, e oggi è una strada priva di vita: regna il silenzio, i negozi sono tutti chiusi, gli ingressi di alcuni edifici sono stati sigillati, i palestinesi devono seguire percorsi interni in modo da non transitare davanti a Beit Hadassah e altri edifici dei coloni. Qualche ora dopo, sempre nella zona H2, la 17enne Bayan al-Esseili conn un coltello ha ferito a una mano una agente di polizia a breve distanza dalla Tomba dei Patriarchi ed è stata uccisa. In serata si è saputo di un altro accoltellamento di un soldato, ancora ad Hebron. L’attentatore Tareq Natche è morto all’arrivo all’ospedale di Gerusalemme. I coloni, riferiva ieri il giornale online Times of Israel, hanno bloccato e forato una ruota dell’ambulanza incaricata di trasportare il palestinese. Un tentato pugnalamento sarebbe avvenuto in serata anche al posto di blocco israeliano di Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah.

L’esercito si appresterebbe a ordinare la demolizione immediata delle case di questi palestinesi. Tuttavia questa misura non è più di facile attuazione in Cisgiordania. A Nablus, ad esempio, decine di attivisti palestinesi e internazionali, occupano le case di attentatori minacciate di distruzione e, per il momento, tengono lontane le ruspe militari. Lo stesso è accaduto a Surda, il villaggio nei pressi di Ramallah dove c’è l’abitazione del palestinese responsabile due settimane fa dell’uccisione di due israeliani nella città vecchia di Gerusalemme.

La macchina punitiva comunque non è ferma. Mufid Sharbati, un testimone oculare dell’aggressione tentata ieri dal palestinese davanti Beit Hadassah, è stato arrestato dai soldati che hanno fatto irruzione nella sua abitazione e sequestrato un computer portatile, una videocamera e una macchina fotografica. E’ stato arrestato anche Ahmed Amr, responsabile per i rapporti con la stampa del gruppo “Giovani contro le colonie”, alcune ore che aveva pubblicato in rete il filmato dell’uccisione di Fadil Qawasmeh. Venerdì, sempre a Hebron, era stato arrestato un fotoreporter, Bilal Tawil, che aveva ripreso l’uccisione di un palestinese del vicino villaggio di Dura, Eyad Awawdeh, che fingendosi giornalista aveva tentato di accoltellare un soldato nei pressi della colonia di Kiryat Arba. Sono stati fermati e interrogati anche altri reporter. I palestinesi riferiscono di decine di arresti avvenuti in diverse località della Cisgiordania e in alcuni quartieri e sobborghi di Gerusalemme Est, a cominciare da Jabel Mukaber, circondati e bloccati dalle forze di sicurezza. Attende una conferma la notizia dell’arresto due giorni fa in Cisgiordania di 19 attivisti e simpatizzanti di Hamas da parte della polizia dell’Autorità nazionale palestinese.

“Così ci difendiamo” Gli israeliani in coda per comprare pistole

Dopo “l’Intifada dei coltelli” e gli inviti delle autorità a “stare in allerta”, il governo ha alleggerito le misure sul porto d’armidi Fabio Scuto Repubblica 20.10.15
TEL AVIV  Davanti alla LBH, una delle più fornite armerie di Tel Aviv, le macchine sono parcheggiate in doppia e in terza fila. Proprietari e addetti di questo negozio aperto nel 1949 faticano a gestire la lunga fila di clienti che si assiepano sulle vetrine interne, ingrombre di quasi ogni tipo di arma da fuoco. Di fronte all’ondata di attentati di queste ultime due settimane e il senso di insicurezza che ne deriva, molti israeliani hanno deciso di armarsi. Gli uffici che rilasciano le licenze sono sommersi dalle richieste ma sono anche state “allentate” dal ministro dell’Interno Gilad Erdan le disposizioni che consentono di portare un’arma: è sufficiente essere stati congedati col grado di sergente o aver fatto parte dei corpi speciali dell’esercito per ottenere la licenza. Condizioni non estreme in un paese dove la leva è obbligatoria e si resta nella Riserva fino ai 48 anni.
Le richieste di armi, conferma il gestore della LBH, «sono aumentate di quattro volte » e altri prodotti di “sicurezza” come gli spray al peperoncino sono andati esauriti anche nei magazzini in una manciata di giorni. Non tutti sono in fila per comprare un’arma. C’è chi deve rinnovare la prova di tiro al poligono che è obbligatoria ogni tre anni per una licenza dimenticata magari nel cassetto da dieci anni e chi ha soltanto bisogno di una nuova scorta di munizioni. Le richieste di utilizzare il poligono di tiro della LBH «sono aumentate del 50%, per giubbotti anti- proiettile e spray vari siamo oltre il 100%», spiega Yariv Ben-Yehuda, che è uno dei proprietari del negozio, «le nostre vendite di armi da fuoco sono aumentate del 30%». Le “Smith&Wesson” e le “Glock” sono tra i modelli più richiesti, ma anche la “Jericho” prodotta in Israele ha i suoi estimatori. I prezzi non sono proibitivi, si va dai 2.000 ai 4.000 shekel — da 400 a 800 euro — per una scatola da 50 munizioni bastano 120 shekel (24 euro).
«Abbiamo esteso l’orario del poligono di tiro», spiega Shaul Derby direttore del negozio, «il personale è nel negozia fino a sera inoltrata per gestire tutte le richieste». «Se c’è un accoltellamento o una sparatoria, un civile armato se è ben allenato può cambiare il corso degli eventi, fare la differenza fra un attacco dove ci sono dei feriti e uno in cui ci sono diversi morti», spiega ancora Derby, «ma se non ha la mano ferma e non è allenato, può fare solo danni». In coda ci sono uomini con i capelli bianchi. Uno è un chirurgo ultracinquantenne di Ramat Hasharon. «Da anni volevo il porto d’armi, ma non l’avevo ancora fatto, è l’attuale situazione che mi ha fatto decidere», spiega il dottore, «se qualcuno vuole ucciderti, uccidilo prima, accade così in tutto il mondo».
La legge israeliana stabiliva che oltre alle forze di sicurezza, soltanto i civili che abitano in zone a rischio, oltre la Linea Verde in Cisgiordania o a Gerusalemme, e coloro che lavorano come security per negozi, hotel, erano autorizzati a portare un’arma da fuoco. Circa 260.000 licenze su una popolazione di 8,5 milioni di abitanti, non erano molte. Ma da due settimane, da quando l’Intifada dei coltelli ha fatto la sua tragica comparsa, la richiesta di porto d’armi è schizzata in alto «di decine di volte» conferma un portavoce del Ministero degli Interni. Con gli uffici governativi sopraffatti dalle richieste in molti vanno direttamente nei negozi d’armi per capire se hanno i nuovi requisiti richiesti e compilare l’apposito modulo, che si scarica anche via internet dal sito del Ministero.
Gli israeliani sembrano aver ben compreso gli appelli a «stare in allerta». Del resto è stato il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat — ex delle Forze speciali — ad invitare i gerosolimitani a girare armati mentre si faceva riprendere dalle tv locali con il fucile mitragliatore in mano. Oltre la Linea Verde la maggioranza dei coloni — sia uomini che donne — ha un’arma alla cintura o nella borsa ogni volta che varca i cancelli del proprio insediamento.
Ma gli appelli all’autodifesa suscitano anche inquietudine. L’avvocatessa Smadar Ben Natan che guida una coalizione di gruppi contro l’uso delle armi che si chiama “Niente armi sul tavolo della cucina” fa notare che con le nuove disposizioni raddoppieranno rapidamente il numero di pistole e mitra in circolazione. «A lungo termine», conclude l’avvocatessa, «è evidente che se ci sono più armi c’è più pericolo di errore e meno sicurezza».
Nelle armerie le richieste sono quadruplicate: “Se qualcuno vuole ucciderti, uccidilo prima Funziona così in tutto il mondo”


Gerusalemme, la minaccia di Hamas
Netanyahu blocca le nuove barriere di cemento ma da Gaza l’organizzazione palestinese annuncia: “La nostra lotta proseguirà” Un giovane eritreo ucciso nel Negev: la polizia lo scambia per un terrorista, linciato dalla folladi Fabio Scuto Repubblica 20.10.15
TEL AVIV . Il premier Benjamin Netanyahu ha ordinato lo stop alle nuove barriere di cemento per separare i quartieri ebraici da quelli arabi di Gerusalemme. Una misura che secondo l’opinione di molti parlamentari anche del suo partito demoliva l’immagine della Città Santa come «capitale, unica, eterna e indivisibile», come venne proclamata dalla Knesset nel 1980. Intorno ai sei quartieri arabi di Gerusalemme – che i palestinesi rivendicano come loro futura capitale - restano i check-point agli ingressi e alle uscite, i controlli di sicurezza resi necessari dopo l’ondata di accoltellamenti di queste ultime settimane. Il tasso di violenza nella Città santa è sceso ma i prossimi giorni si annunciano carichi di tensione perché Hamas – stando a quanto scritto ieri da diversi website d’informazione – avrebbe attivato le sue cellule “in sonno” in Cisgiordania – dove è praticamente fuorilegge per l’Anp di Abu Mazen – per nuovi attacchi kamikaze, annunciando le «l’intifada proseguirà fino alla liberazione di Gerusalemme, della Cisgiordania e della Palestina». Hamas, confinato solo nella Striscia di Gaza, sta cercando di prendere il controllo politico di questa protesta, che finora ha rifiutato “padrini e padroni”, corre sui socialnetwork e non proclama nessuna jihad. Gli islamisti sono stati duramente repressi in Cisgiordania dalle forze di sicurezza di Abu Mazen, resta da vedere se le cellule “in sonno” a Hebron e Nablus – le due città un tempo caposaldi islamisti hanno mantenuto la capacità operativa per poter condurre attacchi sul territorio israeliano.
La tensione di questi giorni sta incidendo molto sui comportamenti della popolazione. «Solo per il colore della pelle », titolava oggi il quotidiano Yedioth Aaronoth , per descrivere la morte di Mila Haftom Zarhum, 29 anni, il cittadino eritreo ucciso durante l’attacco nella stazione centrale degli autobus di Beersheva, nel Negev. Scambiato erroneamente per un complice dell’attentatore arabo - un beduino - è stato ferito da un agente di sicurezza. Mentre era a terra incapace di esprimersi in ebraico, è stato ancora colpito alle gambe da un agente e poi linciato dalla folla nella convinzione che fosse un terrorista. È spirato nella notte scorsa.
Alla vigilia dell’incontro con il capo della diplomazia Usa John Kerry domani a Berlino, il premier Netanyahu che ha tenuto per sé il portafoglio degli Esteri ha convocato urgentemente l’ambasciatore francese. È stato un «colloquio aspro» fanno sapere dal ministero degli Esteri israeliano, all’ambasciatore Patrick Maissonave è stata ribadita l’assoluta contrarietà di Israele alla proposta francese all’Onu di inviare osservatori internazionali sulla Spianata delle Moschee.



“Israele, non basta un muro per fermare la nostra rivolta”
Il padre di un attentatore palestinese ucciso a Gerusalemme “Non temiamo il martirio”. Stop di Netanyahu alla nuova barrieradi Maurizio Molinari La Stampa 20.10.15
«La gente di Jabel Mukabber conosce il nemico, non teme il martirio e vuole la Palestina indipendente, per questo mio figlio è diventato uno shahid». A parlare è Mohammed Aliyan, 60 anni, avvocato, padre di Baha che una settimana fa è stato ucciso nell’attacco ai passeggeri dell’autobus di linea 78 nel vicino quartiere ebraico di Armon HaNaziv.
Mohammed siede nella tenda del lutto assieme ai parenti di una famiglia che include anche gli Abu Jamal, genitori e zii di Alaa Daud, 32 anni, divenuto «shadid» - martire - nello stesso giorno di Baha, 23 anni, dopo aver ucciso a colpi di machete due israeliani nel quartiere di Gheula. «Erano entrambi figli di Jabel Mukabber - spiega Mohammed, riferendosi al posto dove vive da sempre - un quartiere che ha dato e darà molti martiri alla Palestina perché siamo i più vicini geograficamente agli israeliani, hanno costruito le loro case sulle nostre terre e appena facciamo una protesta pacifica ci sparano addosso, ma non ci pieghiamo, siamo gente forte». Nelle sue parole c’è l’orgoglio di una famiglia dalle origini beduine che aveva in Baha il suo «giovane leader» perché «amava lo studio, organizzava attività per i giovani, aveva aperto una libreria per il quartiere, era appassionato di letteratura straniera, viveva su Facebook e sognava una nazione democratica». In politica, aggiunge Mohammed, «mio figlio era nazionalista e religioso ma non estremista, pregava come fanno tutti i musulmani».
Il giorno prima dell’attacco al bus di linea, che ha causato un morto e 16 feriti israeliani, «aveva visto in tv le immagini di soldati che profanavano la moschea di Al Aqsa e di un bambino ucciso dai militari». Baha non disse nulla al padre quando, martedì 13 ottobre, uscì di casa «come faceva ogni mattina». Mohammed ha saputo dalla radio che «era diventato un shahid»: «In quell’istante mi si è chiusa la gola, ho pianto e al tempo stesso gioito per ciò che aveva fatto».
Nella tenda del lutto
Attorno a lui, sotto il tendone verde, i più giovani offrono tè e caffè ai visitatori. Sulle pareti drappi con i colori palestinesi si alternano alle immagini di Baha Aliyan e Alaa Daud Abu Jamal, sovrapponendo lutto e militanza. «I nostri due giovani appartenevano a una generazione a cui gli accordi di Oslo non piacciono, aspirano ad avere leader palestinesi nuovi, più forti e determinati di quelli attuali», assicura Mohammed, definendosi «padre di uno shahid». Davanti alla parole di Sheik Qaradawi, leader religioso dei Fratelli Musulmani, sulla «Jihad per Gerusalemme» e all’auspicio di Hamas per «una rivolta popolare che diventi militare», Mohammed prevede: «La rivolta continuerà, forse avrà delle soste ma non si fermerà negli anni a venire, con ogni tipo di armi» e dunque «se Israele vuole sicurezza deve ritirarsi, da Gerusalemme e dalla West Bank».
La decisione della polizia israeliana di posizionare un muro di cemento per dividere Jabel Mukkaber da Armon HaNaztiv -sebbene congelata dal governo Netanyahu - la giudica «una dimostrazione di stupidità». Ecco perché: «Gli israeliani pensano che infliggendoci punizioni collettive diminuirà il sostegno alla rivolta ma è vero il contrario, cresce la rabbia delle famiglie e aumenteranno i martiri». Quando parla, parenti e amici lo ascoltano mostrando rispetto. Vedono nelle sue parole il proseguimento del sacrificio del figlio. E Mohammed parla del futuro di Gerusalemme: «Se il mondo ci abbandonerà fra 20 anni questa città sarà del tutto giudaizzata, se i palestinesi continueranno a battersi otterranno la nostra terra perché il diritto alla resistenza contro l’occupazione è sancito dalla legge internazionale».

A Gerusalemme l’arpista fa i conti con se stessa 
In anteprima il nuovo romanzo dello scrittore israeliano: racconta una donna ritornata nella sua città, così diversa da come l’aveva lasciata Abraham B. Yehoshua Stampa 21 10 2015
Alle quattro del mattino il cellulare riprende vita. Anche se è una sveglia dimenticata dal giorno prima, Noga non interrompe la malinconica suoneria, inserita dall’amico flautista che non voleva essere dimenticato durante questo suo lungo soggiorno in Israele. Quando finalmente ricade il silenzio, Noga non si raggomitola nel plaid a quadri dei suoi genitori per riprendere il sonno interrotto ma, manovrando con delicatezza le leve del letto elettrico, solleva la testa per osservare, ancora distesa, il cielo pallido di Gerusalemme, alla ricerca del pianeta al quale deve il proprio nome.
Quand’era bambina suo padre le suggeriva di cercarlo poco prima dell’alba, o subito dopo il tramonto. «Anche se non riuscirai a trovarlo, – diceva, – è importante che di tanto in tanto alzi gli occhi al cielo e guardi almeno la luna, che è più piccola del tuo pianeta come tuo fratello è più piccolo di te, anche se a noi sembra più grande perché è più vicina».
E infatti, durante questa sua visita, forse a causa della forzata inattività o del lavoro di comparsa che talvolta la tiene impegnata di notte, Noga alza spesso gli occhi al cielo israeliano, più limpido di quello europeo.
Negli anni precedenti la morte di suo padre, quando tornava in patria per una breve vacanza, preferiva farsi ospitare dalle amiche dei tempi dell’accademia di musica piuttosto che dai suoi genitori. E non, come supponeva suo fratello Honi, per evitare i nuovi vicini che avevano «tinto di nero» il quartiere. Lei – che negli ultimi anni si era allontanata da Gerusalemme e godeva dello spazio protetto e liberale dell’Europa – non aveva problemi a credere in una coesistenza dignitosa e pacifica con una minoranza che già mostrava segni di maggioranza. E, d’altro canto, quand’era ragazza le sue esercitazioni musicali di sabato non avevano risvegliato il malcontento dei vicini.
– Nel Tempio si suonava l’arpa anche durante le festività, – le aveva detto una volta con ironia il signor Pomeranz, il prestante vicino ortodosso del piano di sopra, – e ai timorati di Dio piace sapere che ti eserciti per l’arrivo del Messia.
– Ma alle ragazze sarà permesso suonare nel Tempio? – aveva domandato la giovane musicista col viso in fiamme.
– Anche le ragazze potranno suonare, – aveva risposto l’uomo, osservandola intensamente, – ma se all’arrivo del Messia i sacerdoti non te lo permetteranno, ti trasformeremo in un bel giovanotto.
Persino un ricordo tanto insignificante rafforza in Noga la convinzione che una tollerante convivenza con i vicini sia possibile e – contrariamente al fratello, molto preoccupato per il benessere della madre ormai circondata da ultraortodossi – osserva il loro modo di camminare spedito senza avversione né presunzione, ma con lo sguardo divertito e benevolo di una turista navigata, dinanzi alla quale il mondo si dispiega in tutta la sua folcloristica varietà.
Dopo essersi sposata aveva vissuto per alcuni anni a Gerusalemme col marito Uriah ma, avendo in seguito abbandonato città e consorte, quando talvolta capitava nella capitale di venerdì sera, per una visita ai genitori, preferiva passare la notte sul litorale. L’amicizia e l’intimità di suo padre e sua madre, cementatesi con la vecchiaia, le pesavano anziché confortarla. I genitori tacevano sul suo rifiuto di mettere al mondo un figlio, rassegnati. Eppure lei aveva la sensazione che anche loro preferissero che non rimanesse la notte, per non disturbare il loro strettissimo rapporto di coppia, rimasto fedele all’angusto, antiquato e usurato letto di legno nel quale i due sprofondavano in serena armonia. E se uno di loro si svegliava di soprassalto a causa di uno strano sogno, o di una qualche preoccupazione, l’altro lo imitava, proseguendo una conversazione che probabilmente non si interrompeva nemmeno nel sonno.
Una volta, a causa di un temporale, per paura di non riuscire a raggiungere Tel Aviv, Noga era rimasta a dormire nella sua camera di quand’era bambina e, fra i fischi del vento e i bagliori dei lampi, aveva visto suo padre camminare per casa a passi piccolissimi, a capo chino, riverente, con le mani strette al petto a mo’ di monaco buddhista.
– E adesso che succede? – aveva sentito bofonchiare sua madre dal letto matrimoniale.
– I lampi e i tuoni mi hanno trasformato in un cinese, – si era giustificato suo padre in un sussurro, salutando con un cenno del capo una folla di cinesi immaginari.
– Ma i cinesi non camminano così…
– Come dici?
– I cinesi non camminano così.
– E allora chi cammina così?
– I giapponesi, solo i giapponesi.
– Allora sono un giapponese, – aveva detto lui avanzando a passi ancora più piccoli verso lo stretto letto matrimoniale, girandoci intorno e profondendosi in educati inchini verso la donna della sua gioventù. – Che cosa ci posso fare, amore? La tempesta mi ha fatto volare dalla Cina al Giappone e mi ha trasformato in un giapponese…
 © 2014 Abraham B. Yehoshua 2015 Giulio Einaudi editore



Storia della “Comparsa” che diventa protagonista 
In un intreccio di iperrealismo e surrealismo, il senso (o l’insensatezza) della vita Elena Loewenthal Stampa 21 10 2015
La comparsa di Abraham B. Yehoshua è un romanzo sorprendente per molti aspetti. Racchiude in sé tutta quella felice ambiguità che contraddistingue la narrazione più riuscita dello scrittore israeliano. A incominciare dal titolo, che configura un ruolo secondario ma che nel suo termine ebraico,
nitzevet, disegna quasi un paradosso, perché alla lettera significa «colei che sta», che quasi «si staglia». E tutt’altro che «comparsa» fugace è Noga, la protagonista del romanzo che ruba quasi tutta la scena per sé.
È infatti un libro profondamente al singolare, questo. Complesso e sfaccettato, ma con al centro una figura che è perennemente sulla scena. E che, ancora per paradosso, ricorda molto da vicino l’ombra che ascolta nel Signor Mani, romanzo costruito in forma di dialoghi in cui manca sempre una delle due voci, che però è quella determinante. Ne risulta, in entrambi i libri, una trama che si snoda con grande virtuosismo e la capacità di imprigionare il lettore dentro il racconto, di accattivarlo dalla prima all’ultima pagina.
Noga è un’arpista israeliana, divorziata dal marito perché lei non voleva figli e lui sì, che vive in Olanda. Torna a Gerusalemme a occupare la casa della vecchia madre perché quest’ultima si trova a Tel Aviv per tre mesi di prova in una confortevole casa di riposo. Noga si ritrova così in una dimensione spazio-tempo sospesa, di attesa e pausa. Per guadagnare qualcosa, scacciare la noia e fors’anche i ricordi, fa la comparsa per produzioni cinematografiche grazie ai contatti che le ha procurato suo fratello. Questa specie di mestiere le consente uno sguardo tutto particolare sul mondo che la circonda, e su se stessa.
Yehoshua è qui formidabile nell’entrare dentro la testa di questa donna, che tornando in una Gerusalemme così diversa da come l’ha lasciata finisce col fare i conti con se stessa. Gerusalemme è diversa perché ci sono tante più figure nere di ebrei ortodossi nel loro quartiere. Comparse anche loro, come i due bambini che vengono di soppiatto a guardare la televisione in casa di sua madre, visto che nella loro è un’attività proibita, pagana.
Qui, in questo romanzo come in altri fra i più riusciti dello scrittore israeliano, c’è un continuo intersecarsi tra iperrealismo e surrealismo, tra situazioni banali in un modo sconfortante e altre ai limiti dell’incredibile. In questo intreccio inestricabile sta forse il senso - o l’insensatezza - della vita che Yehoshua sa cogliere in tutta la sua pagina. E anche qui, così come nelle sue ultime opere, lo scrittore apre una finestra sulle arti che non sono la sua: musica, pittura, cinema. È come una curiosità inesausta che lo porta a creare personaggi votati a ispirazioni per lui nuove. Anche se l’arpa per Noga è più un mestiere che una vocazione, ormai. Ma in fondo anche lei sente il bisogno di pizzicare quelle corde, in questi mesi vuoti di musica e pieni delle voci di Gerusalemme, delle sue contraddizioni, delle sorprese con cui lei dovrà fare i conti, giorno per giorno.
La comparsa è un romanzo disinvolto, pieno di inventiva e di garbo, dove la narrazione scorre trattenendo sempre il lettore a sé, come succede nella produzione migliore di Yehoshua. Anche qui la storia si costruisce con perizia, in un susseguirsi di dettagli che il lettore non deve farsi sfuggire. Anche qui c’è una protagonista che è un poco prevedibile e un poco enigmatica, ma soprattutto c’è una limpidezza narrativa che talora lascia spazio allo stupore, talora al sorriso. È insomma un romanzo profondamente vero.




A Gerusalemme l’arpista fa i conti con se stessa
In anteprima il nuovo romanzo dello scrittore israeliano: racconta una donna ritornata nella sua città, così diversa da come l’aveva lasciatadi Abraham B. Yehoshua La Stampa 21.10.15

Il racconto Appena 12 km di distanza, ma la stessa angoscia tra Ramallah e Gerusalemme
Arabi e israeliani uniti nella paura “L’Intifada distrugge le nostre famiglie”di Fabio Scuto Repubblica 21.10.15
GERUSALEMME . Tra il quartiere arabo di Beit Hanina – a nord della città verso Ramallah – dove vive la middle class araba della Città Santa e quello ebraico di Arnona, dove abita la media borghesia gerosolimitana, ci sono 12 chilometri. Fatte salve le differenze stilistiche, le palazzine – forse anche per quella pietra bianca di Gerusalemme usata per le coperture esterne degli immobili e obbligatoria fin dai tempi del mandato britannico – che ne definiscono il profilo urbano si somigliano. Come si somigliano in questi giorni le ansie delle famiglie che le abitano. Tv e radio in ebraico o in arabo con i loro continui online, filmati di scontri e di attentati, diffondono quell’inquietudine che si è impadronita delle strade di Gerusalemme, a Est come a Ovest. Scuole, mercati, stazioni di bus, shopping center. L’imprevedibile – com’è accaduto – può succedere ovunque.
Allarmi veri e falsi in questi giorni si mescolano ma è l’elicottero in volo sulla città a dare il senso che qualcosa di grave è accaduto. «Quando lo sento il battito del cuore mi arriva in gola e penso subito mio figlio Fadhi », racconta Leila, una dentista palestinese che abita con Ismail, il marito architetto, a Beit Hanina. Fadhi, il loro unico figlio, è la loro ansia. Ha 15 anni ed è probabilmente un “lanciatore di pietre”. «Sta sempre su Internet, traffica sullo smartphone, ci dice un sacco di bugie », si sfoga la madre seduta nel moderno salotto borghese con il maxi-schermo. Ma Leila racconta di più, sono venuti meno anche quei legami familiari che in un ambito sociale tradizionale e conservatore come quello palestinese sembravano saldi. Dice a voce bassa, quasi con vergogna: «Non rispetta più nemmeno il padre, sbatte la porta, entra e esce quando vuole».
Sono migliaia le famiglie di Gerusalemme che vivono nella paura che i loro figli possano essere accoltellati da un “ lupo solitario” palestinese, oppure uccisi, feriti o arrestati durante scontri con l’esercito israeliano. Nella parte araba della Città Santa i genitori li vedono uscire al mattino di casa e non sanno se stanno veramente andando a scuola, con gli amici del “muretto”, protestare davanti a un checkpoint o peggio attaccare qualcuno con il coltello. Ogni famiglia palestinese sa che se il figlio sarà fermato, arrestato o coinvolto in qualche fatto grave la loro casa sarà demolita, i fratelli o i genitori verranno arrestati, verranno schedati come “ pericolosi” e in un futuro potranno anche perdere il diritto di residenza a Gerusalemme e essere espulsi verso Gaza o la Cisgiordania. Questi giovani – slegati da Hamas e da Fatah – rappresentano la “generazione perduta di Oslo”, secondo una felice definizione della giornalista e scrittrice Amira Hass: non hanno lo Stato indipendente promesso, non partecipano alla vita politica, non hanno una leadership credibile a cui guardare, non hanno né futuro né lavoro. Renata e Ariel, con i loro figli Ariela di 13 anni e Gilad di 10 abitano ad Arnona, all’altro estremo della città, sono 12 chilometri esatti dalla casa di Leila e Ismail. Il condominio bianco nel quale abitano si affaccia sopra i quartieri arabi di Abu Tor, Silwan e il famigerato Jabal Mukaber. Negli ultimi giorni i loro figli sono andati in classe poco o nulla. «Il ministero del Tesoro non stanziava i fondi per la security fuori delle scuole», spiega Ariel, «e con quel che sta succedendo era meglio tenere a casa i ragazzi». «Le volte che sono andati a scuola, poi è sempre successo qualcosa ed io o il padre siamo corsi a prenderli con la macchina», interviene Renata, «e poi comunque stavo con l’angoscia ». I ragazzi, tablet in mano, non sembrano interessati. Invece no. Gilad racconta che a scuola l’altro ieri hanno fatto training simulando un attacco contro l’edificio, certo non una lezione come un’altra per un ragazzino di 10 anni. Ariela è invece più scocciata che preoccupata. Quel piccolo margine di autonomia dalla famiglia che si lascia agli adolescenti è stato spazzato via dalla paura per “l’intifada dei coltelli”. I ragazzi accettano la situazione ma sembrano inconsapevoli delle angosce dei genitori. Da venerdì scorso il checkpoint dell’esercito che “filtra” l’uscita dal confinante quartiere di Abu Tor è ben visibile dalle finestre perché è all’angolo della strada. Road bloc di cemento, i soldati sotto l’ombrellone di giorno per il sole ancora cocente durante il giorno, le fotoelettriche illuminano invece la notte.
«Hanno portato la guerra sotto casa nostra, guarda…», dice amareggiato Ariel. «Quanto durerà… come andrà a finire?», chiede Renata, cercando una risposta impossibile da dare.


Pressing di Onu e Stati Uniti per fermare la terza Intifada
Ban Ki-moon vuole un’intesa sullo status quo della Spianata delle moscheedi Maurizio Molinari La Stampa 21.10.15

Case, amori e rimozioni emotive L’indagine magistrale di Yehoshua Un’arpista torna a Gerusalemme: le tappe di una maturazione sulle note di Debussy12 nov 2015  Corriere della Sera di Giorgio Montefoschi
Le circostanze Tre mesi nella dimora dove Naga è nata. E dalla quale era fuggita, lasciando il marito
Noga, la protagonista dell’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua intitolato La Il dipintoVania Elettra Tam, 250 lt (2007), olio su tela; dal sito dell’artista di origini comasche che ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2011 (www. vaniaelettra tam.it)
comparsa (Einaudi), ha poco più di quaranta anni. È una musicista. Suona l’arpa. L’arpa è uno strumento che spesso ha un ruolo limitato o addirittura non è presente nelle partiture. Talvolta, invece — come nel celebre poema sinfonico di Debussy, La mer, nel quale di arpe, a dialogare fra vento, onde, e misteri sonori del mare, ce ne sono addirittura due — ha una fondamentale importanza e produce miracoli. Suonare l’arpa nella Mer è meraviglioso. Ma ora, all’inizio del romanzo, Noga è lontana dall’Olanda — dove si è trasferita dopo essersi separata dal marito Uriah, al quale non voleva dare figli — e dall’orchestra nella quale ha trovato posto. Ora è a Gerusalemme, nella vecchia casa di famiglia in cui è cresciuta insieme a suo padre, sua madre e suo fratello Honi, perché il padre è morto ( serenamente, senza neppure accorgersene, nel sonno: come vorremmo tutti) e il fratello, passati alcuni mesi, l’ha richiamata indietro per un aiuto.
Ci sono, infatti, da risolvere dei complicati problemi immobiliari. La casa, nella quale la famiglia di Noga è vissuta in affitto pagando un prezzo bassissimo, è situata in un quartiere ortodosso, il quartiere di Makor Baruch, e deve essere costantemente presidiata. Insomma: è un appartamento che fa gola a molti e, per le leggi vigenti, non può essere lasciato vuoto nemmeno un giorno in quella zona di Gerusalemme che si sta «tingendo sempre più di nero», con quegli ultraortodossi indemoniati che non fanno altro che pregare, presto governeranno Israele e non vedono l’ora di istallarsi nella comoda casa gerosolimitana. E siccome la madre di Noga e Honi, che non è vecchia, però ha settantacinque anni, forse da sola non può più stare, e Honi l’ha convinta a provare per tre mesi un bella casa di riposo per anziani, moderna, piena di ogni confort, a Tel Aviv, dove lui vive con la moglie e i figli, ecco la necessità che per soli tre mesi Noga abbandoni la sua orchestra e l’Olanda e venga a fare da sentinella nell’appartamento dal quale, comunque, hanno già tolto quasi tutto. Al suo mantenimento penserà il fratello. In più, se vorrà guadagnare qualcosa, e ingannare il tempo, potrà fare la comparsa. Che comparsa? Nel cinema, negli sceneggiati televisivi.
Yehoshua, da quel grande scrittore che è, può anche inventarsi spericolati e magnifici racconti che sprofondano in un passato remoto, come nel Signor Mani o in Viaggio alla fine del millennio, ma il suo epos vive nel presente. E neppure tanto nella tragedia del conflitto israelo-palestinese, che pure è sempre sullo sfondo, ancorché muto o invisibile; quanto nella dolorosa meccanica coniugale e in quella famigliare. E nei luoghi che la custodiscono: quegli appartamenti, moderni o antichi, di Haifa come di Gerusalemme come di Tel Aviv, nei quali sempre la semplicità degli arredi e la pulizia e il decoro sono l’elemento comune; quei salotti con i divani che hanno la base di legno e una tappezzeria qualunque; quelle cucine in cui c’è il necessario; quelle stanze da pranzo che su un mobile hanno le candele del sabato e la bottiglia del vino; quelle stanze da letto con quei letti nei quali non si finisce mai di abbracciarsi. E così è ne La comparsa: nella casa concupita e sorvegliata perché non diventi preda.
Perché Noga non ha voluto dare un figlio a Uriah, l’uomo che amava, che continua a amare e dal quale, nonostante sia adesso sposato con una donna grassottella che le assomiglia e di figli gliene ha regalati due, continua a essere amata? Alle persone che le pongono questa domanda, una domanda che lei non smette mai di sollecitare di proposito o inconsciamente, sia con la madre sia con il fratello, sia con degli sconosciuti visti per la prima volta, Noga non vuole e non sa rispondere. Intanto, riprende la vita di un tempo nel condominio in cui è stata bambina, è diventata grande, ha conosciuto Uriah e per la prima volta ha voluto fare l’amore con lui nel letto dei suoi genitori; si deve difendere dai due nipoti del vecchio e infinitamente saggio signor Pomeranz del piano di sopra: due piccoli ultraortodossi, con riccioli biondi e bruni e occhi meravigliosi, ai quali sua madre ha dato il permesso di vedere come e quando vogliono la televisione (proibita al piano di sopra), e adesso sgusciano in casa da ogni parte compresa la finestrella del bagno; si riabitua Gerusalemme; si accorge che gli uomini la guardano e la desiderano; va a Tel Aviv, mangia con la madre, sta sul prato della casa di riposo, dorme nel letto della madre. E fa la comparsa: in un finto ristorante, in un finto processo, in un finto ospedale.
Non c’è alcun bisogno di illustrare gli inevitabili momenti del contrasto e dell’identificazione con se stessa provocati dalle varie parti nelle quali Noga si cala — uscendone ogni volta senza aver sciolto il groviglio interiore che l’ha spinta a lasciare l’uomo che amava e a partire per l’Europa. Nel romanzo adesso, deve a ogni costo riapparire Uriah: il marito tradito nel suo desiderio di avere un figlio. E riappare Uriah: nello spettacolare palcoscenico della fortezza di Masada, sulle rive del Mar Morto. Lì, per tre recite, Noga fa la comparsa nella Carmen. Uriah incontra Honi e la madre di Noga che sono venuti a vederla. Vede Noga. E, possedendo la chiave, torna nel vecchio appartamento che conosce tanto bene. La lunga scena che si svolge fra i due è straziante. Lui le dice che il suo amore non è finito. Lei gli fa capire che non è finito neppure il suo. Lui le chiede perché non ha voluto essere la madre di un loro figlio. Lei si difende dicendo di aver avuto paura di essere risucchiata dal suo amore, di essere ricattata, se mai avesse voluto liberarsi da questo amore, dalla presenza di un figlio, più altre cose confuse. Lui non capisce e le chiede di farlo ora, subito, un figlio loro. Lei gli dice che non può perché orami si è isterilita, non ha più le mestruazioni e comunque non lo farebbe, perché non vuole dare un dolore a sua moglie. Poi lo congeda, chiude la casa, torna in Olanda e, con la sua orchestra, va in tournée in Giappone.
Il lettore, adesso, ha capito che tutto quella che Noga ha detto a Gerusalemme al suo ex marito è una finzione. Ha capito che la negazione di Noga non ha ragioni spendibili: non è nient’altro che la misteriosa negazione alla felicità nella quale ci precipita il nostro incancellabile senso della colpa. Ma non può prevedere quello che capiterà, quando, a Kyoto, Noga metterà le dita sull’arpa e inizierà La mer (vuol dire anche madre, oltre che mare) di Debussy. Che strepitoso romanzo ci ha regalato, alla vigilia dei suoi ottanta anni, Abraham B. Yehoshua.      

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