giovedì 15 ottobre 2015
Robert Reich pikettiano
“In America troppe diseguaglianze. Rischiamo una svolta autoritaria”
L’economista
Reich: “La globalizzazione schiaccia la classe media. Servono riforme
per salvare il capitalismo dai leader populisti” Il candidato
repubblicano Donald Trump, in testa nei sondaggi, incarna «il populismo
autoritario, in cui una persona sostiene di avere tutte le soluzioni
senza offrire dettagli»
intervista di Paolo Mastrolilli La Stampa 15.10.15
«Gli Stati Uniti rischiano la svolta autoritaria, e l’Europa il ritorno
ai nazionalismi che avevano provocato le due guerre mondiali, se non
affronteranno i loro problemi economici con un riformismo che metta il
sistema al servizio di tutti». L’allarme viene da Robert Reich,
professore all’università di Berkeley e segretario al Lavoro durante
l’amministrazione Clinton, che abbiamo sentito in occasione della
pubblicazione in Italia da Fazi Editore del suo saggio «Come salvare il
capitalismo».
Nel mondo non c’è mai stata tanta diseguaglianza: perché?
«Tre motivi. Primo, la globalizzazione ha trasferito parecchi lavori
della classe media in Paesi dove i salari sono bassi; secondo, i
cambiamenti tecnologici, il software, i robots, hanno rimpiazzato molti
lavoratori; terzo, le persone più ricche hanno acquistato una forte
influenza politica con cui hanno riscritto le regole del capitalismo a
loro favore».
Il capitalismo, però, va salvato e non abbattuto?
«Non vedo alternative. Anche i Paesi scandinavi o la Cina sono
capitalisti. Il problema è se il sistema funziona al servizio di pochi, o
di tutti. Nella loro storia, gli Stati Uniti si sono già trovati 4
volte in situazioni simili, e hanno sempre scelto la strada delle
riforme, per salvare il capitalismo da se stesso».
Faranno lo stesso anche adesso, oppure quello che sta accadendo nelle primarie per le presidenziali la preoccupa?
«Il sentimento anti-establishment è forte, e questa è la ragione per cui
Hillary Clinton e Jeb Bush stanno andando peggio del previsto. Gli
americani sono stanchi della vecchia politica. Però ci sono due modelli
di questo sentimento: uno è il populismo riformista, l’altro è quello
autoritario, in cui una persona sostiene di avere tutte le soluzioni
senza offrire dettagli, punta il dito contro dei capri espiatori, e
sollecita la gente a seguirlo. Non voglio tirare in ballo Berlusconi, ma
è una figura che gli assomiglia. Sanders per ora incarna il primo
modello, e Trump il secondo. Nella loro storia gli Usa non si sono mai
lasciati andare all’autoritarismo, ma stavolta è una possibilità».
Sanders, che si professa socialista, potrebbe battere Clinton?
«La sfida per Hillary è apparire al pubblico come una riformista, invece
che una insider washingtoniana legata all’establishment. Può persuadere
gli americani di questo, ma finora il candidato del populismo
progressista è stato Sanders».
Lei nel libro propone di alzare le tasse ai ricchi, investendo poi in
settori come l’istruzione, ma i conservatori rispondono che la
redistribuzione è stata già provata e deprime l’economia.
«Replico con due fatti. Primo, dal 1945 al 1980 le tasse per i ricchi
negli Usa erano molto più alte di oggi, e la nostra economia cresceva in
maniera più veloce e inclusiva. Secondo, la riduzione del carico
fiscale per le persone più abbienti non ha mai prodotto lo
sgocciolamento verso il basso promesso da Ronald Reagan, visto che le
paghe medie da allora sono rimaste ferme. Non si può criticare il
trasferimento della ricchezza verso il basso, se non si considera che il
trasferimento politico verso l’alto è già avvenuto».
L’Europa ha gli stessi problemi?
«Sì, con la differenza che da voi al sentimento anti-establishment si
aggiungono nazionalismo e diffidenza verso gli immigranti. L’austerity è
stata un errore grave, perché quando la gente è disoccupata non ha
senso tagliare le spese pubbliche».
Molto risentimento è rivolto anche contro l’euro: va eliminato?
«L’Europa sul piano economico è molto più forte e unita. Ci sono
problemi strutturali, come ad esempio il fatto che le esportazioni dal
Sud sono sopravvalutate e quelle dal Nord sottovalutate, ma possono
essere risolti senza cancellare l’euro. Negli Usa, ad esempio, gli stati
più prosperi sovvenzionano quelli più poveri. Tutto però torna alle
scelte politiche, e alla domanda centrale se gli europei sentono di
avere una responsabilità verso tutto il continente, oppure solo verso il
proprio Paese».
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