domenica 25 ottobre 2015
Sottosviluppo africano e tradizione coloniale europea
Nel Sudafrica delle disuguaglianze
di Thomas Piketty Repubblica 26.10.15
LA FINE dell’apartheid ha reso indubbiamente possibile l’uguaglianza
formale dei diritti civili fondamentali, ma non ha consentito di ridurre
la disuguaglianza abissale delle condizioni di vita. Una constatazione
motivata in parte da fattori internazionali.
A poco più di vent’anni di distanza dalla fine dell’apartheid e dalle
prime elezioni libere (1994), il Sudafrica si interroga più che mai sul
problema delle disuguaglianze. La strage di Marikana, dove 34 minatori
in sciopero per chiedere aumenti salariali erano stati massacrati dalla
polizia, nell’agosto del 2012, continua a tormentare la coscienza del
Paese. L’Anc (African National Congress), al potere senza interruzione
dall’inizio della transizione democratica, ha reso possibile
un’uguaglianza nei diritti civili fondamentali: il diritto di voto, il
diritto di spostarsi liberamente sul territorio e di svolgere,
teoricamente, tutte le professioni. Ma questa uguaglianza formale non ha
consentito di ridurre l’abissale disuguaglianza delle condizioni di
vita e dei diritti reali. Il diritto a un lavoro e a un salario
dignitosi, il diritto a una scuola di qualità, il diritto di accedere
alla proprietà, il diritto a una reale democrazia economica e politica.
Il Paese si è sviluppato, la popolazione è cresciuta notevolmente, ma la
promessa di uguaglianza non è stata mantenuta.
Secondo gli ultimi dati disponibili, il 10% più ricco si accaparra circa
il 60-65% del reddito nazionale, contro il 50-55% in Brasile, il 45-50%
negli Stati Uniti, il 30-35% in Europa. Peggio ancora: questo scarto
estremo che separa il 10% in alto (composto ancora in larga maggioranza
da bianchi) dal 90% in basso si è aggravato dopo la fine dell’apartheid.
Questa triste constatazione si spiega in parte con fattori
internazionali: la deregolamentazione e l’esplosione dei compensi nel
settore finanziario (molto importante in Sudafrica), l’aumento delle
quotazioni delle materie prime (che beneficia soprattutto una minuscola
élite di bianchi), un dumping fiscal e sociale generalizzato. Ma si
spiega anche con l’insufficienza delle politiche messe in atto dall’Anc:
i servizi pubblici e scolastici disponibili nelle zone più disagiate
rimangono di mediocre qualità; nessuna riforma agraria ambiziosa è mai
stata realizzata, in un Paese dove i neri si erano visti sottrarre il
diritto di possedere terre ed erano stati parcheggiati in riserve e
township, dal Natives Land Act del 1913 fino al 1990; il patrimonio
fondiario, immobiliare e finanziario resta largamente nelle mani
dell’élite bianca, così come le risorse minerarie e naturali; le timide
misure di empowerment economico della comunità nera, che mirano a
costringere gli azionisti bianchi a cedere una quota delle loro azioni a
neri, sulla base di transazioni volontarie ai prezzi di mercato, hanno
beneficiato un’infima minoranza di neri che aveva già i mezzi (o le
conoscenze politiche) per comprarle.
Risultato prevedibile: l’Anc è sempre più contestato a sinistra dal
partito degli Economic Freedom Fighters (Eff), che propongono una serie
di misure radicali: istruzione e previdenza sociale per tutti,
ridistribuzione delle terre, nazionalizzazione delle risorse minerarie.
La minoranza bianca è spaventata: la settimana scorsa una deputata
bianca, una sorta di Nadine Morano locale, reclamava il ritorno
dell’ultimo presidente dell’apartheid. Per riprendere in mano la
situazione, l’Anc potrebbe introdurre, a partire dal 2016, un salario
minimo nazionale e utilizzare questo strumento per ridurre le
disuguaglianze, come fece il Brasile con Lula. Qualcuno pensa anche
all’introduzione di un imposta progressiva sui capitali, per poter
ridistribuire gradualmente il potere economico. Il progetto, già preso
in considerazione fra il 1994 e il 1999, alla fine era stato abbandonato
dall’Anc. Secondo l’ex presidente Mbeki, la polizia e l’esercito,
tuttora guidati da bianchi, non l’avrebbero permesso.
Una cosa è certa: che si tratti di nazionalizzazione delle miniere, o di
un qualsiasi progetto che costringa le multinazionali e i detentori di
patrimoni a contribuire in misura più significativa di adesso alle casse
dello Stato, il Sudafrica avrebbe bisogno della collaborazione dei
Paesi ricchi, e non della nostra ipocrisia. L’élite finanziaria
sudafricana lo ripete fino alla nausea: negli anni 80 eravamo costretti a
negoziare, ma oggi possiamo facilmente trasferire i nostri fondi
all’estero e nei paradisi fiscali. L’opacità del sistema finanziario
internazionale è un autentico flagello per l’Africa: si calcola che il
30-50% delle attività finanziarie del continente si trovi in qualche
paradiso fiscale. Eppure, se solo Europa e Stati Uniti decidessero di
farlo sarebbe tecnicamente semplice creare un vero e proprio registro
mondiale dei titoli finanziari. Come spiega Gabriel Zucman ne La
richesse cachée des nations (Le seuil, 2014), basterebbe che le autorità
pubbliche unificassero e prendessero il controllo dei depositari
privati che attualmente svolgono questo ruolo. L’Africa non ha bisogno
di aiuti: ha bisogno di un sistema legale internazionale che le consenta
di non essere saccheggiata in permanenza.
(traduzione di Fabio Galimberti) L’autore è direttore didattico all’Ehess e professore alla Scuola di economia di Parigi
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