martedì 20 ottobre 2015

Togliatti non uccise Gramsci ma impedì a Stalin di salvarlo. Canfora sul libro di Fabre

Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato
Sempre e comunque colpa del Partito comunista fu [SGA].

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Le rivelazioni nel libro di Giorgio Fabre (Sellerio)
Liberare Gramsci: i tentativi sovietici e tutti gli errori del Partito comunista
I compagni italiani dimostrarono in questa vicenda leggerezza e cinismo
20 ott 2015 Corriere della Sera Di Luciano Canfora RIPRODUZIONE RISERVATA
E' uscito un libro che dice finalmente come andarono le cose quando si tentò di tirar fuori Antonio Gramsci dal carcere. Si tratta di un volume edito nei giorni scorsi da Sellerio, intitolato Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, di uno storico italiano tra i più esperti di ricerche in archivio, Giorgio Fabre, curiosamente escluso dal mondo universitario, ad opera di docenti non di rado quasi digiuni della ricerca archivistica. D’altra parte è noto che ormai molte forze intellettuali valide non si trovano dentro l’istituzione universitaria, ma fuori.
Ma veniamo a questo libro per tanti versi decisivo. È talmente ricco che è difficile darne una descrizione completa. Proverò a darne il senso. Il risultato della ricerca è il seguente: il governo dell’Unione Sovietica e l’ambasciata sovietica a Roma operarono a più riprese per tirar fuori Gramsci dalla galera. Dapprima indirettamente (tramite il Vaticano: e su ciò Fabre porta molte novità), poi compiendo passi presso il governo italiano e direttamente presso Mussolini, col quale l’Unione Sovietica nel settembre 1933 aveva stretto un patto di amicizia e collaborazione che vigoreggiò fino alla rottura determinata dalla guerra d’Etiopia.
Alcuni episodi restano ancora passibili di progressi nell’indagine. Ad esempio, molti anni fa fu pubblicato il verbale di un incontro tra l’ambasciatore Potëmkin e Mussolini: verbale del quale inizialmente si disse che non era una cosa seria. In realtà l’incontro comunque ci fu e molto probabilmente (l’autore su questo punto è prudente), il tema Gramsci venne fuori nel dialogo tra l’ambasciatore sovietico e Mussolini. Sta di fatto che l’azione retroscenica dell’interlocutore sovietico, coordinata — nonostante tutto — con l’iniziativa acuta ed efficace dello stesso Gramsci, condusse alla concessione della libertà condizionale, con conseguente ricovero di Gramsci in clinica già alla fine del 1934.
Quello che era rimasto in ombra è che i compagni ostili a Gramsci, in particolare Athos Lisa, suo accusatore politico in carcere e dopo, continuarono a godere della piena fiducia del Centro estero del Pcd’I (almeno fino al momento in cui Mussolini poté, morto Gramsci, utilizzare su «Il Popolo d’Italia» un ignobile articolo del doppiogiochista Taddei che chiamava in causa a proprio sostegno Athos Lisa). Gli interventi giornalistici promossi dal Centro estero del Pcd’I, in particolare su «Azione popolare» del 29 dicembre 1934 (a titoli cubitali: Gramsci è stato scarcerato) determinarono l’irrigidimento del governo italiano e l’arenarsi di ulteriori possibilità, ivi compresa quella di consentire a Gramsci di ricongiungersi alla famiglia in Russia. La notizia « sparata » da «Azione popolare» e presentata come effetto della campagna per la liberazione di Gramsci (cosa non vera) fu poi ripresa dal quotidiano del Pcf «L’Humanité». Non aveva torto Piero Sraffa quando, scrivendo a Paolo Spriano nel 1969, parlò di vero e proprio «disastro», alludendo chiaramente a questa vicenda. Purtroppo Spriano, per motivi di opportunità partitica, non rese mai pienamente chiaro il senso di queste parole; e perciò nei suoi libri gramsciani l’episodio è sbiadito. Cade con ciò la tesi che ha avuto tanta fortuna nella pubblicistica degli anni Novanta, soprattutto a destra, secondo cui vendicativamente i sovietici volevano mantenere Gramsci in carcere a causa della sua presa di posizione dell’ottobre 1926, in merito allo scontro in atto nel Partito comunista russo. Da parte dei compagni italiani ci furono leggerezza e cinismo: si volle sfruttare la vicenda Gramsci per fini agitatorii, giungendo a sostenere una tesi completamente falsa, che cioè Mussolini avesse ceduto di fronte alle pressioni della propaganda antifascista all’estero.
Nel volume del Fabre ci sono moltissime altre novità, a partire dalla prima edizione veramente completa dei documenti che Gorbaciov donò ad Alessandro Natta, riguardanti il primo tentativo sovietico — compiuto attraverso il Vaticano — di liberare Gramsci a ridosso dell’arresto. Anche in questa vicenda l’attenta rilettura, che Fabre fornisce, dei documenti e delle strane cancellature che li sfigurano si è rivelata molto istruttiva. Siamo di fronte ad un contributo che segna un punto fermo nella ricostruzione biografica su Gramsci.

Gramsci vittima della sua strategia
Giorgio Fabre, «Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato», da Sellerio. Gramsci vittima della sua strategiadi Gianpasquale Santomassimo il manifesto 1.11.15
A partire dai primi studi di Spriano, la vicenda dei tentativi falliti di liberare Gramsci ha conosciuto una fortuna storiografica che ne ha fatto un tema sempre più ricorrente, e anche ineludibile nella discussione sul comunismo italiano, per le implicazioni che conteneva attorno al contrasto tra il «capo» dei comunisti e i suoi compagni che dall’estero tenevano in vita le stentate fortune di quel partito. Nel tempo si è trasformato, anche, in un «genere letterario» aperto a scorribande complottistiche, a processi sommari basati su brandelli di documenti decontestualizzati.
Oggi con il libro di Giorgio Fabre (Lo scambio Come Gramsci non fu liberato, Sellerio «La diagonale», pp. 536, euro 24,00) si esce decisamente dal complottismo o dalla reticenza (che è stata a esso speculare), e la vicenda viene riportata alla sua dimensione storica effettiva, dentro la quale però si annida anche un grumo di pensieri, di cose non dette e solo accennate o adombrate, e che tali inevitabilmente resteranno.
È un quadro molto ampio e frastagliato, di cui è impossibile rendere conto in dettaglio. Forse non tutto è egualmente significativo, e non è detto che dietro a ogni singolo gesto, supposizione od omissione debba nascondersi parte di un disegno o di molti disegni che si intersecano.
La trattazione segue le tre fasi che si succedono: una prima collegata a una sperata mediazione vaticana tra potere fascista e governo sovietico (scambio con vescovi) che si rivela inconsistente. Poi quello che Gramsci definisce il «tentativo grande», fase più lunga, che interviene mentre i rapporti fra Italia fascista e Urss conoscono un momento di incontro e collaborazione (Patto di amicizia del settembre 1933), che non dà vita neppure stavolta allo scambio auspicato ma che si conclude comunque con la concessione della «libertà condizionale» presso le cliniche di Formia e poi di Roma. Libertà che diviene però ben presto molto condizionata e sorvegliata e non si traduce nella concessione dell’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia, che è l’ultimo tentativo di un Gramsci ormai piegato e destinato a spegnersi il 27 aprile del 1937.
Posto che la mancata liberazione di Gramsci dipese in ultima istanza dalla volontà di Mussolini di mantenere uno stretto controllo sulla sua persona, la discussione che si apre riguarda il ruolo dei sovietici e, soprattutto, dei comunisti italiani.
Qui si possono cogliere molte novità. Intanto, contrariamente a quanto molti avevano adombrato, si può dire che non viene mai meno l’impegno dei sovietici per ottenere la liberazione di un loro uomo, malgrado le critiche del 1926, rivolte non tanto alla maggioranza staliniana quanto alle modalità di esercizio del suo predominio. Più complicato e dolente è il quadro dei rapporti con i compagni italiani. Lasciando da parte dissensi e dissapori sulle scelte dell’Internazionale, che pure agiscono sullo sfondo, la questione si pone sui pochi e spesso male improvvisati interventi nella questione. Alla fine, si può anche convenire con l’autore che «gli italiani non facevano una gran bella figura» nella vicenda, sia perché «era difficile trovare qualche episodio che li vedesse positivamente coinvolti nei tentativi di liberazione del loro leader», sia perché alcuni interventi furono controproducenti e tali vennero severamente giudicati da Gramsci. Imbarazzo e reticenza che accompagneranno tale memoria e che impediranno fino all’ultimo una ricostruzione veritiera della vicenda. Ma qui è giusto ricordare che i comunisti italiani si mossero sotto un condizionamento difficilissimo tanto da ignorare quanto da accettare pienamente.
Infatti la novità più rilevante del libro è quella di porre al centro di tutta la vicenda Gramsci stesso, non solo in quanto oggetto di iniziative altrui ma soprattutto in quanto regista e stratega delle tortuose strade che avrebbero dovuto condurre alla sua liberazione. Una strategia largamente fallimentare, bisogna pur dire. Fin dall’inizio, con una fiducia immotivata nella disponibilità vaticana a trattare il suo scambio. Ma soprattutto con una strategia processuale debolissima e che si sarebbe rivelata all’origine di tutti i contrasti e di tutte le amarezze vissute nel rapporto con i compagni italiani.
Volontà di Gramsci era che gli italiani si tenessero fuori da ogni aspetto di quella trattativa, interamente demandata all’impulso sovietico. Una pesante intromissione era stata considerata la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, sulla quale molto si è scritto, e che procurò in Gramsci un’irritazione destinata a riaffiorare nel tempo, mentre non suscitò reazioni simili in Terracini e Scoccimarro, che erano gli altri destinatari della missiva. Al riguardo, bisognerebbe cominciare pure a chiedersi se davvero una polizia efficientissima come quella fascista avesse bisogno della lettera di Grieco per «scoprire» che Gramsci era uno dei massimi dirigenti del partito comunista. Ma tutta la strategia prescelta puntava ad attenuare e porre in dubbio l’esercizio di quel ruolo dirigente: il che comportava anche la raccomandazione di evitare campagne propagandistiche volte a rivendicare la sua liberazione.
A questo era particolarmente difficile attenersi, per un partito clandestino in patria e che aveva un compito naturale di mobilitazione di coscienze sul piano internazionale. Tanto più diverrà difficile col passare del tempo, quando, ad esempio, col patto di unità d’azione siglato con i socialisti nel 1934 il nome di Sandro Pertini verrà stabilmente ad associarsi a quello di Terracini tra le vittime del carcere fascista di cui si chiedeva la liberazione.
Al riguardo, è singolare che in questa letteratura non si sia mai tenuto conto della lettera di Togliatti a Turati del 30 ottobre 1930, nella quale venivano segnalate le gravi condizioni di salute di Pertini nel carcere di Santo Stefano, si invitava a una mobilitazione unitaria e si suggeriva di inoltrare la richiesta di trasferimento a un carcere più idoneo: come poi avvenne, nel carcere-sanatorio di Turi nel quale era recluso anche Gramsci (Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di S. Caretti e M. Degl’Innocenti, Lacaita 2006, pp. 70–71). La vicenda, tanto più significativa perché avvenuta in piena epoca di «socialfascismo», fa comprendere come da parte comunista si tenessero unite le dimensioni dell’agitazione politica e dell’esperire le vie «legali» consentite dai regolamenti.
Se si eccettuano cadute approssimative e dilettantesche (il modo in cui Azione popolare del 29 dicembre 1934, diretta da Teresa Noce, diede conto della scarcerazione di Gramsci, irrigidendo la posizione di Mussolini e dando luogo a quello che ancora nel 1969 Sraffa definiva un «disastro» rispetto alle speranze di Gramsci), la posizione del gruppo dirigente comunista fu nel complesso di accettazione della richiesta di Gramsci, se pure non condivisa e ritenuta sicuramente onerosa sul piano politico. Anche il ruolo di Togliatti emerge come particolarmente rispettoso della personalità dell’amico e vòlto a salvaguardarne la memoria, attribuendogli perfino colorite espressioni contro Trotskij nel momento in cui Grieco, Di Vittorio e altri sollecitavano un processo postumo contro Gramsci, che riuscì a bloccare. A Togliatti si deve in larga misura anche l’invenzione della frase eroica pronunciata di fronte al Tribunale speciale, dibattimento che invece si svolse in forma timida e stentata.
Quando all’inizio del 1934 Dimitrov venne espulso dalla Germania, dopo avere trionfato contro il Tribunale nazista, Gramsci dovette probabilmente porsi delle questioni e venire assalito da dubbi. Perché la strategia seguita dall’«eroe di Lipsia» era stata esattamente opposta a quella che Gramsci aveva prescelto: politicizzare al massimo il dibattimento, dare a esso la massima pubblicità, convogliare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale.
Gli ultimi anni di Gramsci furono amarissimi, segnati da delusione e scoramento, da sensazioni di abbandono e tradimento. Un esito di cui fu certamente vittima, ma che in qualche misura contribuì anche a determinare.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Capisco la necessità, di questi tempi, di irrigidirsi ideologicamente, però ogni tanto conviene leggerlo un libro prima di giudicarne tendenziosamente, e in modo sbagliato, il contenuto da una recensione. Grazie lo stesso, comunque, per il lavoro culturale che svolge con questo blog.

materialismostorico ha detto...

Ma un poco di ironia e/o auto-ironia no? Non si capisce che è un titolo scherzoso?