mercoledì 21 ottobre 2015

Una nuova indagine su Socrate

Indagine su SocrateMaria Michela Sassi: Indagine Su Socrate. Persona, filosofo, cittadino, Einaudi:

Risvolto
Chi era Socrate? Quali i contenuti del suo pensiero? E perché «l'uomo piú giusto del suo tempo» fu messo sotto accusa per empietà ad Atene, simbolo di democrazia? Il filosofo piú «paradossale» di tutti è stato autore e vittima post mortem, e oggi piú che mai, di un ulteriore paradosso. Non ha scritto nulla, e secondo molti è vano cercarne i tratti «storici» nel contrasto tra le fonti (Aristofane, Platone, Senofonte...); eppure la sua vita e il suo pensiero sono al centro della riflessione dagli Stoici a Ficino, a Nietzsche o Foucault. Ma la varietà delle fonti si spiega meglio con la ricchezza della figura di Socrate che liquidando notizie e divergenze come creazioni ex nihilo. Questo libro muove dalla sua persona, il ruolo sociale che Socrate ha consapevolmente tradotto nell'eccentricità della sua figura intellettuale; ne esplora poi il metodo (fra confutazione e aporia, eros e ironia) e i temi di pensiero (l'anima e la sua cura, il bene e la virtú) di cui fu iniziatore come filosofo; infine, il processo e la condanna a morte, che Socrate ha affrontato da cittadino di una città che aveva fortemente criticato, perché l'aveva profondamente amata.
Satiro, quasi filosofo, forse santo E allora: prega per noi, o Socrate 

21 ott 2015  Corriere della Sera Di Pietro Citati © RIPRODUZIONE RISERVATA 
eccellente libro che Maria Michela Sassi ha appena scritto su Socrate ( Indagine su Socrate, Einaudi, pagine 246, 23) ha inizio con le parole che Alcibiade gli dedica nel Simposio di Platone. Alcibiade ha tradito sia Socrate e il suo insegnamento sia Atene. Ma dice le cose essenziali su di lui. «Quello che è stato, nella sua stranezza, quest’uomo qui, sia lui che i suoi discorsi, non si potrebbe trovare neppure uno che gli si avvicini, nemmeno a cercarlo, né fra i contemporanei né fra gli antichi, a meno che non lo si assomigli a quegli esseri che dicevo io, a nessun essere umano quindi, ma ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi». Una statua di Socrate ad Atene (470 o 469 - 399 a. C.). 

Socrate non assomiglia a nessuno, soprattutto a nessuno dei filosofi e degli scrittori del mondo antico: è strano, stravagante, «privo di luogo», non classificabile; una pura anomalia nell’Atene del suo tempo e in ogni tempo. Vedete la sua figura: l’epica omerica aveva insegnato che l’uomo è, o deve essere, «bello e buono»; mentre Socrate, come dice Erasmo, aveva una faccia da bifolco, un’aria bovina, una pancia prominente, il naso schiacciato e pieno di moccio; e usava camminare a piedi nudi sul ghiaccio e con un mantello leggero anche d’inverno. Sembrava un buffone tardo e ottuso. Ad Atene, i filosofi frequentavano i filosofi: lui, invece, amava la totalità dell’esistenza: si intratteneva con ciabattini, lavandai, cuochi, artigiani di ogni specie; li interrogava e li trasferiva, ciò che era assolutamente inusuale, nel cuore del discorso filosofico. 
Alcibiade insisteva: «Io dico che Socrate è similissimo a quei sileni che si trovano nelle botteghe degli scultori di erme, quelle statue che gli artigiani modellano con in mano zampogne e flauto e che, poi, aperti in due, mostrano all’interno di possedere immagini degli dei». Socrate portava dunque in sé stesso immagini sacre di satiri e sileni, che appartenevano, nel culto di Dioniso, sia al mondo dei misteri sia a quello della sfrenatezza animale. Chi lo ascoltava, si fermava, e dai suoi occhi sgorgavano lacrime, come quando venivano invasati dalla possessione dei Coribanti, sacerdoti di Cibele e officianti di riti catartici. Dai suoi discorsi emanava qualcosa come un fluido magico, che induceva nei giovani una condizione di dipendenza fisica: essi provavano vergogna, fuggendo da lui come servi. 
Non soltanto i sileni, i satiri e i Coribanti testimoniavano per Socrate: ma anche Apollo. Il suo amico Cherefonte si recò a Delfi per domandargli se vi fosse qualcuno superiore a Socrate, e la Pizia aveva risposto che non c’era nessuno. Socrate era rimasto stupito, commentando che lui non era sapiente né tanto né poco. Eppure, nei suoi ultimi giorni di prigionia e di vita, aveva immaginato un inno ad Apollo: l’unica cosa (insieme alla traduzione in versi dei racconti di Esopo) che egli avesse composto. 

Come dice l’Apologia di Socrate, in lui c’era qualcosa di divino e di demonico. Camminava per strada, e all’improvviso si fermava, perché era assorbito in una trance meditativa: una voce gli parlava all’orecchio, e di solito non lo induceva a fare qualcosa, ma lo distoglieva dal fare qualcosa. Questa voce non sostituiva il ragionamento, ma era una specie di aggiunta divina al ragionamento umano, che Socrate amava così profondamente. Così, invaso dalla voce degli dei, Socrate entrava insensibilmente nel mondo divino. Ma questo mondo non gli portava nessuna altra conoscenza. Se il suo allievo Platone ricercava nel mito l’esempio di un persuasivo discorso filosofico, Socrate non balzava nel mito. E, a quanto pare, sempre al 


contrario di Platone, non credeva nell’immortalità dell’anima. 

Come sottolinea Maria Sassi, egli amava profondamente la vita: il suo insegnamento non mirava a cancellare o a superare la vita in un altro cosmo, ma a fare buon uso della esistenza quotidiana e di tutte le sue immagini e figure. Sapeva di possedere «una certa sapienza umana», ben diversa da quella degli dei, o degli uomini che, in terra, immaginavano di essere come gli dei: i Sofisti, i politici, i poeti. Cicerone disse che Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo e a collocarla nelle città e nelle case, costringendola a indagare la vita e i costumi, il bene e il male. «Il più grande bene dato all’uomo — dice l’Apologia di Socrate — è proprio questa possibilità di ragionare ogni giorno sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere, ed esaminare me stesso e gli altri. Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta». 
Questa ricerca urtava contro un fatto: Socrate non sapeva: sapeva di non sapere, mentre voleva conoscere le «cose in sé». Come fare, dunque, per arrivare alla conoscenza? Egli adottava la condizione più difficile: quella della incessante ironia. Socrate si prendeva gioco di tutte le cose ma soprattutto di sé stesso. Alternava la serietà e la leggerezza, il tragico e il comico. 
Interrogava, faceva nascere dubbi, faceva partorire pensieri negli esseri umani. Come disse Montaigne, suo allievo supremo, non possedeva altra scienza tranne quella di contraddire: non concludeva mai, non dava mai una risposta definitiva: continuava a interrogare senza la minima presunzione; in questo modo lui — il sileno, il satiro, il coribante — incantava tutti gli uomini pieni di dubbi. Forse il suo, diceva Kierkegaard era «un gioco infinitamente leggero col nulla», che non arretrava mai di fronte a niente, tanto meno alla morte. 
Secondo gli Atti degli Apostoli, Pietro disse al Sinedrio: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini», riecheggiando la frase che Socrate aveva rivolto alla giuria di Atene. Tra i primi autori cristiani, specialmente Giustino Martire sviluppò l’analogia tra Socrate e Cristo. Come Cristo, Socrate era vissuto secondo il logos, la ragione divina. Mediante il logos aveva guidato i suoi contemporanei a riconoscere la verità di Cristo, fino a dare la vita. Così, almeno parzialmente, la filosofia pagana attinse alla conoscenza del vero Dio, e la morte a cui Socrate era andato serenamente incontro ne costituì la più alta confessione. Secoli più tardi, il neoplatonismo cristiano, Coluccio Salutati e Marsilio Ficino, aveva riconosciuto in lui «il capostipite dei nostri martiri». Erasmo da Rotterdam esclamò: « Sancte Socrates, ora pro nobis! ». Durante la sua prigionia nella torre di Vincennes, Diderot si immerse così profondamente nell’atmosfera socratica da tradurre a memoria l’Apologia. 


Il libro di Maria Michela Sassi si conclude con una scoperta. Secondo Critone, Socrate lo invitò, con le sue ultime parole, a sacrificare un gallo ad Asclepio, dio della medicina. Questa offerta implicava il ringraziamento per una guarigione avvenuta: la guarigione — il senso non può essere diverso — dalla vita. Ciò suppone che la vita sia una malattia. Ma Socrate non può mai avere supposto, o immaginato, che la vita sia una malattia. Come scrive Georges Dumézil, «tutto il suo insegnamento è diretto a un buon uso della vita». Dunque Socrate non ha mai detto queste parole: non ha mai chiesto a Critone di sacrificare per lui un gallo ad Asclepio.

Faccia da ottuso bifolco e animo vicino agli dei 

29 o tt 2015  Libero MAURIZIO SCHOEPFLIN 

« Monstrum in fronte, monstrumin animo », orribilenell’aspetto, orribilenell’animo: così, senza tanti complimenti, il filosofo tedesco FriedrichNietzsche descrive Socrate. E se non v’è dubbio che il primo giudizio sia vero, suffragato com’è dal consenso unanime di coloro checonobbero il filosofoateniese, per quanto riguarda il secondo è necessario andare più cauti e, molto probabilmente, rovesciarlo completamente per asserire il contrario. È noto che Nietzsche contestò con durezza il socratismo, ravvisando inesso una forma di pensiero che, venendo menoallagloriosa tradizione inaugurata dai sommi autori della tragedia attica, aveva elaborato una concezione chedisprezzava la vita e le sue passioni e intendeva sottomettere tutti gli impulsi al dominio della ragione, unica forza capace di guidare l’uomo al conseguimento della virtù. Ma è lecitoaffermarecheperquestomotivo Socrate fu un uomo interiormente mostruoso? Secoli e secoli di ricerche ci autorizzano a rispondere di no. Parimenti ci permette dicontestareil giudizionietzscheanoancheilrecente articolato volume di Maria Michela Sassi Indagine su Socrate. Persona, filosofo, cittadino ( Einaudi, pp. XII-242, euro 23), che, pur senza cadere nella banalità delmeroencomioeattenendosi ai criteri della ricerca ben documentata, consegna al lettore la figura di un «individuo eccezionale, filosofo e cittadino... morto non per un ideale ascetico, né per un’ideologica ostinazione, ma per affermare l’irrinunciabilità del dialogo edelconfronto criticosui valori morali, come “ciò che fa” il vero bene dell’individuo nella comunità». 
Anche Hannah Arendt, della quale Raffaello Cortina pubblica il saggio, finora inedito in traduzione italiana, intitolato proprio Socrate ( pp. 124, euro 11), guardò sempre con ammirazione alla personalità dell’Ateniese: in particolare, sottolineò in modo positivo la dimensione politica del socratismo, indicando in Platone colui che avrebbe tradito tale chiara propensione in nome di una fuga verso le realtàmetafisiche. 
La Sassi, docente di Storia della filosofia antica presso l’UniversitàdiPisa, ricostruisce tutte le componenti dellapersonalità edella filosofia socratiche: l’originale afflato religioso che le caratterizza, la scoperta deldialogo come mezzo privilegiato di comunicazione tra gli uomini, la decisivaimportanza attribuita all’anima, la certezza che esista uno stretto legame fra conoscenza, virtù e felicità, la sottolineatura del rapporto, tanto difficile quantonecessario, del cittadino con lo Stato. 
Certo - e l’autricelodicesubito - accostarsi a Socrate è difficile: non scrisse nulla e dobbiamo affidarci alle testimonianze, spesso in netto contrasto tra loro, di quelli che loconobbero. Perchéunuomo, il cui comportamento è considerato esemplare da un filosofo della levatura di Platone, viene condannatoa morte dai suoi concittadini? Perché egli si presenta come una personalità eticamente ineccepibile e ricca di fascino e poi incappa nelle accusediempietà e di traviamentodei giovani? AllaSassivail meritodiconsegnare al lettore un vivido ritratto del celebre maestro greco, tale da rendere condivisibili le seguenti parole dell’umanista Erasmo da Rotterdam che smentiscono appieno il giudiziodiNietzsche: «Chiavesse valutato Socrate, come si dice, dalla buccia, non l’avrebbepagatounsoldo. Avevaunafacciadibifolco, un’aria bovina, il naso schiacciato e pieno dimoccio. L’avresti detto un buffone tardo e ottuso... Eppure, spiegando questo ridicolissimo Sileno, tu avresti indubitatamente scoperto un essere più divino che umano: un grande animo, altissimo, filosofico nel vero senso della parola. Alle cose che fanno correre per terra epermare, che fanno sudare, litigare e guerreggiare gli altri uomini, era indifferente: a tutte. Gli oltraggi non arrivavano a toccarlo, la fortunanonaveva laminima presa su di lui. Di paure non ne conosceva».

Socrate sempre fuori luogo L’indagine di Maria Michela Sassi
di Gianluca Briguglia Il Sole Domenica 6.12.15
La sua stranezza colpì i suoi contemporanei molto profondamente e spiega anche perché decise di non sottrarsi alla condanna a morte
Socrate è senza dubbio, tra i grandi personaggi della tradizione del pensiero occidentale, una delle figure più misteriose e affascinanti. La atopia di Socrate, come la definisce Alcibiade nel Simposio di Platone, cioè quella sua stranezza percepita da tutti come un essere fuori posto (a-topos), o privo di luogo, o forse semplicemente come un essere fuori dal comune, non solo ha colpito i suoi contemporanei e influenzato in modo decisivo il corso della filosofia successiva (non è un caso che oltre a Platone, suo allievo diretto, all’insegnamento di Socrate si siano variamente richiamate scuole filosofiche di orientamento molto diverso, dai Cinici alla scuola Megarica e Cirenaica), ma è testimoniata in fondo anche in quella decisione quasi incomprensibile di non sottrarsi alla condanna a morte. E certo la morte di Socrate rappresenta una specie di cesura mitica, il segno fondatore di un distacco sempre possibile e presupposto tra la città e la filosofia. Il fascino e il mistero dell’individuo atopos sono poi nutriti da un altro elemento essenziale, come tutti sanno, cioè la decisione di non scrivere nulla, di affidare solo alla parola vivente, alla relazione dialogica con gli interlocutori, la propria azione filosofica. Ogni tentativo di ricostruzione del pensiero e dell’individualità di Socrate deve dunque passare attraverso le testimonianze, per nulla univoche o neutre, degli scritti di chi fu variamente a contatto con lui.
Maria Michela Sassi, nella sua godibile e vivace Indagine su Socrate, è interessata al Socrate persona, filosofo e cittadino. Il metodo usato è proprio quello di un’indagine, che deve districarsi tra documenti disponibili e noti, tra tracce indirette, indizi, e che deve saper leggere anche tra le righe, sempre indicando le poste in gioco di determinate letture. L’autrice costruisce dunque la sua indagine su alcuni nuclei di investigazione capaci di restituire il senso della personalità e dell’azione di Socrate. Un bell’esempio è dato dal capitolo sulla sua “eccezione fisiognomica”. Socrate non solo è visto come un tipo bizzarro, ma è anche brutto. Proprio all’apice di una cultura, quella ateniese, che si rappresenta come amante della bellezza e che lega indissolubilmente il bello al buono, Socrate spiazza per il suo stesso aspetto, che contesta quell’ideologia dominante pacificatrice e certamente disloca il tema della bellezza ad un altro livello. Del resto questa riproblematizzazione della bellezza non sfugge ai suoi contemporanei. La persona di Socrate viene paragonata sia alle statuine dei Sileni, che sono esteriormente brutte, ma che possono essere aperte e hanno al loro interno immagini divine, sia al satiro Marsia, addirittura ripugnante, ma letteralmente capace di incantare le persone.
D’altra parte questo “incanto” socratico poteva suscitare anche reazioni di diverso segno. Sassi riprende in esame anche la testimonianza di Aristofane, che nelle Nuvole fa di Socrate, ancora vivente, la caricatura dell’intellettuale strambo e forse pericoloso. Socrate è tratteggiato come un astuto caposcuola che insegna dietro compenso e che stupisce per i suoi insegnamenti oziosi e a volte violenti e contro la morale. Si tratta naturalmente di un’opera comica, ma rappresenta la perplessità di una parte dell’opinione pubblica di Atene di fronte allo spiazzamento socratico e forse non sarà priva di effetti se molti anni dopo, durante il processo, Socrate ricorderà, secondo Platone, come proprio con quella commedia fossero cominciate le gravi calunnie nei suoi confronti.
Indagando dunque una serie di dossier particolari, Sassi ha il merito di condurre il lettore al nucleo del pensiero di Socrate, per esempio il rapporto fin troppo rigido tra conoscenza, virtù e felicità, ma mostrando anche alcuni punti di tensione del suo metodo (come forse nel rapporto raté con Alcibiade). Il risultato è un Socrate certo sempre mediato e misterioso, ma concreto, proprio come quello del processo, che l’autrice depura di alcuni elementi troppo platonici, un Socrate che forse davvero sbaglia linea di difesa, con la megalegoria del suo parlare, cioè con un atteggiamento troppo grande, da vanteria, riconosciuto da tutti, che gli aliena il favore della giuria, o forse davvero un Socrate che decide che la difesa di tutta una vita non può che consistere in un’estrema testimonianza di sé e del proprio ruolo, fino all’accettazione di una condanna a morte.

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