lunedì 2 novembre 2015

Ancora la questione meridionale

Responsive imageSalvatore Lupo: La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi, Donzelli

Risvolto

«In questi centocinquant’anni il Sud è effettivamente rimasto indietro (rispetto al Nord), ma nel contempo è anche andato avanti (rispetto al suo passato). Il punto è che, delle due affermazioni, la prima occulta la seconda e, possiamo dire, l’ha sempre occultata. Perché? Per il fascino della grande metafora dualista che sta dietro e sotto la questione meridionale: progresso contro arretratezza, modernità contro arcaismo, civilizzazione contro barbarie. A contro B. Nord contro Sud».
Quando si parla dell’Italia contemporanea, la «questione» per antonomasia non può che essere quella meridionale. E la questione è tale – così di solito si pensa – proprio perché è sempre la stessa, proprio perché da centocinquant’anni il Mezzogiorno è fermo, è «rimasto sempre lì». Ma è davvero così? E il fatto di continuare a riproporre la questione ci è davvero di aiuto per comprendere la storia del Mezzogiorno e quella del nostro paese? In effetti, se è innegabile che per molti versi il Sud è rimasto indietro (rispetto al Nord), d’altro canto sembra difficile non vedere che nel contempo esso è anche andato avanti (rispetto al suo passato). In realtà, quando parliamo di divario tra Nord e Sud – come facciamo ormai da un secolo e mezzo – ci riferiamo a un concetto composito, che comprende fasi storiche differenti, e che non tocca solo l’ambito dell’economia, ma riguarda anche la società, la sfera pubblica, la politica, il costume. Questo nuovo libro di Salvatore Lupo prova a districare il groviglio, risalendo alle origini di una «questione» che tuttora impera nel dibattito pubblico e che è divenuta un vero e proprio mainstream storiografico. È infatti intorno al 1875 che la questione meridionale divenne il fulcro di una più grande questione sociale, che riguardava la relazione tra la borghesia e il popolo e che si presentava con tratti di particolare gravità al Sud. In una seconda fase, a cavallo tra Otto e Novecento, essa condensò una serie di proteste regionaliste delle diverse borghesie meridionali. È proprio in questo periodo che l’espressione «questione meridionale» divenne canonica. A ben vedere, la «questione» non nacque da un automatico rispecchiamento della realtà. In ciascuno dei momenti della sua elaborazione, gli argomenti e i concetti furono prodotti e selezionati con finalità fortemente soggettive. Ne deriva che la questione meridionale non è un tutto unico; e ancor più che non va confusa, né può coincidere, con la storia del Mezzogiorno. La quale può emergere, in tutta la sua forza e le sue articolazioni, solo se si ha, paradossalmente, il coraggio di liberarla dal meridionalismo.




Per capire il Sud dimentichiamo i paragoni col Nord 
InLa QuestioneSalvatore Lupo imputa polemicamente ai meridionalisti un’idea dualistica e stereotipata del rapporto tra “le due Italie” 

Luigi La Spina  Stampa 1 11 2015

Si può essere studiosi del Meridione senza essere meridionalisti? A questa provocatoria domanda, uno dei più importanti storici italiani, Salvatore Lupo, risponde altrettanto provocatoriamente: «Non solo si può, si deve».
È questa la tesi controcorrente che emerge dall’ultimo libro del professore all’università di Palermo, edito da Donzelli e che si intitola sinteticamente La questione. Sì, perché nelle vicende del nostro Paese, con buona pace di Bossi e Salvini, l’unica grande, storica «questione» nazionale è stata quella del Sud d’Italia e, purtroppo, lo è tuttora. Ma la chiave interpretativa con la quale tradizionalmente è stata affrontata, a giudizio di Lupo, non aiuta una corretta analisi della realtà economica e sociale del Mezzogiorno. Né agevola l’individuazione degli interventi con i quali, oggi, si può aiutare il suo sviluppo. Visto che non è più tempo per riesumare quei grandi progetti statalisti che, negli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, hanno avuto successo, ma che, ora, in un contesto politico e economico molto diverso, non sono certo concepibili.

Categorie anchilosate
Il classico modo con il quale si è discusso, appunto, della condizione del Mezzogiorno si fonda essenzialmente sul «dualismo» tra Nord e Sud d’Italia. L’autore di questo polemico libro ricostruisce la storia della cosiddetta «questione meridionale», a cominciare dalle sue origini, quelle delle famose indagini post-unitarie di Villari, Franchetti, Sonnino e Fortunato, nelle quali, per la verità, il vero tema è la situazione sociale dopo la costituzione del Regno d’Italia. Di «questione meridionale», in senso proprio, si può parlare solo all’inizio del Novecento, quando il confronto, economico, sociale, culturale con il Nord diventa l’asse interpretativo fondamentale degli studi sul Mezzogiorno. 
A giudizio di Lupo questo approccio dualistico ha due principali difetti. Non considera le grandi e significative oscillazioni del divario economico tra Nord e Sud, distanza non ampia nei primi due - tre decenni post-unitari, cresciuta nella prima metà del secolo scorso fino ad arrivare al suo massimo, nel 1951, diminuita nei due decenni successivi in virtù dei «provvedimenti straordinari» adottati per il Mezzogiorno e, infine, di nuovo salita con il declino nazionale avvenuto a cavallo del nuovo secolo. La seconda accusa che lo storico addebita a tale visione riguarda la tendenza a omogeneizzare la situazione economica, sociale e culturale delle varie regioni del Sud italiano, connotate, invece, da molte e profonde diversità.
Risultato di questo prevalente, se non quasi esclusivo, modello interpretativo è, sempre secondo Lupo, la sottovalutazione del fatto che il Sud sia «effettivamente rimasto indietro (rispetto al Nord), ma nel contempo sia anche andato avanti (rispetto al suo passato)». A questo proposito, lo storico partecipe e protagonista dell’esperienza di un gruppo di studiosi riunito intorno alla rivista Meridiana, è consapevole del rischio «revisionista», di quello che chiama «il passaggio dal meridionalismo rivendicativo e piagnone a una sorta di patriottismo della grandeur meridionalistica, all’insegna del “noi siamo stati e siamo bravi come voi”». Ma prende le distanze anche dalla definizione di «modernizzazione passiva», introdotta da Luciano Cafagna e ripresa dal giovane storico e ed economista Emanuele Felice, per indicare il modo con il quale la società meridionale ha, in un certo senso, «subìto» l’intervento dello Stato per promuoverne lo sviluppo. «Non si capisce perché - polemizza Lupo - uno Stato nazionale dovrebbe essere considerato un fattore “esterno” rispetto ad alcune sue regioni, e solo rispetto ad esse». Del resto, aggiunge, «le borghesie meridionali hanno fornito il loro (grande) contributo al personale che ha retto quello Stato, e la cultura giuridica meridionale alla determinazione delle sue regole e delle sue finalità». Ecco perché questo concetto di «modernizzazione passiva», «funge da porta di servizio attraverso cui far rientrare il dualismo fatto uscire dalla porta principale».


Approssimazioni

L’attacco di Lupo alla interpretazione dualistica della «questione» per eccellenza nella storia d’Italia si rivolge soprattutto contro i libri, di grande successo presso una ampia parte dell’opinione pubblica, di due studiosi stranieri come Edward Banfield e Robert Putnam. Il primo, responsabile di quella categoria squalificante con la quale si bolla d’infamia la società meridionale, quella del «familismo amorale»; il secondo, disinvolto e approssimativo storico «di una immutata e immutabile dicotomia di civismo» tra Nord e Sud d’Italia. Insomma, sembra concludere Lupo, per aiutare davvero a comprendere i problemi del nostro Mezzogiorno, liberiamoci dai meridionalisti, soprattutto da quelli improvvisati.


Ma la crescita del Sud è ancora un’anomalia 
Lo storico Emanuele Felice risponde al “maestro” Salvatore Lupo sui cliché della questione meridionale 

Emanuele Felice Stampa 2 11 2015

Ma il Sud Italia è sempre stato più povero? Il divario Nord-Sud è immodificabile, cristallizzato nella storia d’Italia come una maledizione? Quando e perché è sorta la questione meridionale? Sono domande fondamentali sia per il nostro passato, sia per comprendere e migliorare il presente. Si possono formulare anche in maniera diversa, fornirebbero stimoli ugualmente interessanti: davvero l’andamento del Sud Italia, dall’Unità ai nostri giorni, è stato così deludente? E non sarà forse il caso di cominciare a valorizzare le differenze all’interno del Mezzogiorno, fra le sue aree e regioni dall’Abruzzo alla Sicilia, più che la tinta uniforme? 
Le due vulgate
Salvatore Lupo, fra i massimi storici italiani - sull’Ottocento, il fascismo, le mafie, i partiti, le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno -, nel suo ultimo libro (La questione, Donzelli) ci offre risposte e propone, con la chiarezza e profondità che lo contraddistinguono (e anche, qua e là, con intelligente verve polemica), una chiave di lettura originale. Da un lato, infatti, la sua tesi si differenzia dalla storiografia considerata «classica», quella in base a cui - semplificando - il Sud era già più povero all’Unità ed è poi andato male essenzialmente a causa del suo assetto interno e delle conseguenti scelte politiche ed economiche delle sue classi dirigenti. 
Dall’altro, si distanzia pure, nettamente e con più forza, da una recente vulgata di segno opposto, assai diffusa nell’opinione pubblica meridionale ma con qualche appiglio anche nell’Accademia, la quale ritiene che all’Unità d’Italia il Sud fosse più o meno allo stesso livello del Nord (se non addirittura più ricco), e che il successivo divario sia da attribuirsi allo sfruttamento da parte dei settentrionali, che nel nuovo Regno avrebbero imposto il loro giogo ai meridionali. Lupo ribadisce che invece il Sud all’Unità era già più arretrato, soprattutto negli indicatori sociali (istruzione, speranza di vita, povertà) e nelle infrastrutture ma un po’ anche nel Pil, e che il divario di reddito si è poi ampliato non tanto nei decenni immediatamente successivi all’Unità, quanto nella prima metà del Novecento, soprattutto per gli effetti delle due guerre mondiali e delle politiche fasciste. E in contrasto con l’interpretazione tradizionale, lo storico siciliano sottolinea che quello stesso Sud era comunque differenziato al proprio interno, che alcuni suoi rappresentanti (si pensi a Nitti) sono stati fra i migliori esponenti della classe dirigente nazionale e che - in termini assoluti - la qualità di vita dei meridionali è cresciuta enormemente in questi centocinquant’anni.
Dialogo critico
In alcune parti Lupo si pone in dialogo critico con Perché il Sud è rimasto indietro, libro che ho pubblicato l’anno scorso per il Mulino, e lo ascrive all’interpretazione classica. La collocazione non mi dispiace. In quel lavoro, ciò che facevo era in effetti aggiornare le tesi tradizionali del meridionalismo classico (da Croce a Galasso, da Salvemini a Sereni) alla luce delle più rigorose stime quantitative di cui oggi disponiamo, e della recente letteratura internazionale sui divari di sviluppo. Lupo accoglie la ricostruzione quantitativa lì proposta, arricchendola con una narrazione storica che completa e rafforza quell’ossatura numerica; e forse i diversi accenti fra di noi - io avevo insistito più sull’uniformità che sulla diversificazione - derivano soprattutto dalle diverse prospettive adottate nei rispettivi testi (la sintesi, nel mio caso). 
Lupo invece trascura, ammettendo di non essere un economista, il dibattito internazionale. A mio giudizio il suo impianto analitico ne risente un po’, in due aspetti importanti. Primo, lo sguardo comparativo: il Sud in questi centocinquant’anni è certo migliorato, ma quale regione d’Europa non l’ha fatto? Per tasso di crescita il Mezzogiorno è inchiodato agli ultimi posti, non solo nel reddito ma anche nello sviluppo umano: se l’è cavata più o meno come il Portogallo, un po’ peggio della Grecia, molto peggio della Spagna che pure partiva da condizioni analoghe. 
Modernizzazione passiva
Lupo poi ridimensiona l’idea della modernizzazione passiva, forse proprio perché manca di collegare la ricostruzione quantitativa e storica che pure condividiamo con una teoria economica conseguente sulle istituzioni estrattive (che originano dalla maggiore disuguaglianza e dal latifondo), sugli incentivi e disincentivi che esse pongono alla modernizzazione nelle diverse dimensioni dello sviluppo, e quindi sull’azione complessiva delle classi dirigenti, al di là di singoli casi - cioè sulle classi dirigenti come ceto sociale: agrari, mediatori politici, burocrazia, borghesia abortita o malavitosa. 


Peccato, perché proprio nel testo di Lupo si trovano di tanto in tanto limpide conferme alla modernizzazione passiva: ad esempio, quando si accenna all’implementazione delle politiche scolastiche nelle amministrazioni meridionali. E a dire il vero a me pare che finanche l’impostazione e l’ispirazione di questo bel libro, così tese a sottolineare come la questione «meridionale» fosse all’inizio una questione «sociale» (cioè un problema di povertà e disuguaglianza, maggiormente concentrate a Sud), siano in fondo le stesse di Perché il Sud è rimasto indietro: la distinzione da porre non è fra meridionali e settentrionali ma fra quanti, dentro il Mezzogiorno, hanno goduto di rendite e privilegi e quanti invece si sono ritrovati vittime di quell’assetto estrattivo, spinti a emigrare o costretti a adattarvisi.

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