sabato 7 novembre 2015

Antico esperto di pornogastronomia & business sente l'aria che tira e critica la pornogastronomia tenendosi il business

Risultati immagini per carlo petrini expoSe non c’è l’amore è solo cibo-spettacolo 

Nicola Lagioia e Carlo Petrini a confronto sulla cucina fra memoria e letteratura. E sull’abuso di luoghi comuni

NICOLA LAGIOIA E CARLO PETRINI Repubblica 6 11 2015

Si è appena conclusa l’esperienza di Expo e l’Oms ha da poco fatto notizia sul tema della sicurezza alimentare relativa alla carne. Intanto l’Unione Europea valuta l’apertura dei mercati a nuovi cibi, siano essi i tradizionali insetti appartenenti ad altre culture, o gli ultimi — discutibili — ritrovati da laboratorio. In questo contesto nasce il dialogo tra il fondatore di Slow Food Carlo Petrini e Nicola Lagioia, Premio Strega 2015. Dialogo incominciato da un’avventura narrativa condivisa: la pubblicazione delle nuove edizioni di “Zuppa di latte” e “Spaghetti, cozze e vongole”. Due titoli della collana “Piccola Biblioteca di cucina letteraria” di Slow Food Editore. Sono storie in cui il nutrimento è un pretesto per guardarsi indietro, sul filo della memoria, ripensando a come si era — personalmente e collettivamente — e venendone fuori con qualche preziosa riflessione sull’amore o sulla socialità, sui rapporti, sugli equilibri, su come insieme a certe abitudini si stiano perdendo interi mondi. Un modo diverso di guardare alla centralità del cibo, lontano dalle spettacolarizzazioni, dall’asetticità eminentemente scientifica, da certe bizzarrie.
PETRINI: Attorno al cibo ruotano le nostre vite e si “incollano” a certi piatti, o ricette. Si tratta di universi personali, del dipanarsi delle nostre esistenze, e di ciò con cui entriamo più spesso in contatto: gli altri. Il cibo però resta sempre sullo sfondo, quasi un “contorno” esistenziale, non riesce quasi mai a essere protagonista. Quando potrebbe esserlo a tutti gli effetti, è spesso spogliato del suo valore, spettacolarizzato o banalizzato nel risultato finale: cosa c’è nel piatto. Altrimenti il nutrimento è una macchietta. La gastronomia è una macchietta. Al cinema, nei romanzi. Serve a caratterizzare un personaggio, a rendere più barocca una descrizione, in una litania di luoghi comuni. Che ne pensi dal tuo punto di vista di autore, di editor e di profondo conoscitore del panorama letterario e culturale? Com’è trattato secondo te il cibo nella nostra produzione culturale attuale?
LAGIOIA: I discorsi letterari intorno al cibo che vogliano sfuggire ai rischi di cui parli, devono confrontarsi di solito con due archetipi. Uno è incarnato a perfezione da un racconto di Jack London, Una bella bistecca. C’è un vecchio pugile senza il becco di un quattrino che sale sul ring contro un avversario più giovane e fresco di lui. Non può vincere, ma deve farlo per ottenere la piccola borsa che gli consentirà di sfamare la famiglia. Se solo il macellaio gli avesse fatto credito, il nostro sfortunato amico avrebbe mangiato la bistecca che gli avrebbe dato l’energia per compiere un’impresa che si rovescia in fallimento. In London il cibo simboleggia la lotta per la vita. Chi è a stomaco pieno ignora le ragioni di chi è a stomaco vuoto. Da sempre i ricchi, ciechi sui grandi furti, fanno sbattere in galera i landruncoli che hanno ridotto alla fame. Se pensiamo a come si è allargata la forbice tra ricchi e poveri nel XXI secolo, la lezione è molto attuale. Il secondo archetipo è un po’ l’opposto di questo, ed è la celeberrima madeleine della Recherche. In London si indaga la natura nella sua brutalità, in Proust la cultura all’apice della sua raffinatezza. La rozza bistecca per sopravvivere, il piccolo dolce a forma di conchiglia come inzio di una meravigliosa avventura introspettiva. Ancora oggi la letteratura che voglia raccontare l’uomo attraverso il cibo, difficilmente può prescindere da questi modelli.
PETRINI: Cosa pensi di tutta questa spettacolarizzazione televisiva che si fa del cibo? A qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualunque Paese del mondo, accendi la televisione e incappi immancabilmente in qualcuno che spadella… Una volta non era così, ma penso che il cibo si conoscesse molto più profondamente di quanto non sia oggi, nonostante tutta l’attenzione che gli si dedica. Immagino che anche la letteratura non sia ormai esente da analoghe forme di spettacolarizzazione: i festival, i premi, gli autori trattati come popstar o maître a penser.
LAGIOIA: La spettacolarizzazione fa rima con “prestazione”, dunque è nemica di uno dei più bei motivi per cui vale la pena sedersi a tavola: stare insieme in modo umano. Un tempo si stava a tavola e si parlava di sé e del mondo. Oggi si mangia parlando di cibo. Un po’ autoreferenziale. Il cibo si conosce meno in profondità perché il secondo Novecento ha fatto di tutto per distruggere la civiltà contadina. Che aveva anche i suoi aspetti terribili, chi lo nega, ma chiunque versasse un filo d’olio su un pezzo di pane, di qualunque classe sociale fosse, era stato almeno una volta in un frantoio.
PETRINI: In Zuppa di latte disegno con la memoria la mia cittadina, Bra, ai tempi in cui ero un bambino: la nonna, le botteghe, le latterie, i personaggi di provincia, accompagnati dalla voracità con cui consumavo la mia zuppa di pane e latte serale. Non è un’operazione nostalgica: quelle memorie mi aiutano a capire oggi il valore dei cibi. Il latte è un prodotto altamente industrializzato e standardizzato, il suo prezzo mette in crisi i produttori, diventati ingranaggi di un sistema che li divora, mentre ci consegna prodotti di scarsa qualità. La memoria mi aiuta a riflettere, a guardare il presente per disegnare rotte future. E spesso è data da imprinting sensoriali: gusti, profumi, odori, sensazioni tattili… Tu come “usi” le tue memorie?
LAGIOIA: I miei nonni erano piccoli coltivatori diretti e vivevano a Capurso, un paesino in provincia di Bari. Da bambino trascorrevo molti pomeriggi nella cucina della nonna, dove una mezza dozzina di donne, alcune vecchissime, facevano i cavatelli o le orecchiette sedute intorno a un grande tavolo di legno. Non so se hai presente: si fa la massa a pezzettini e poi, con un solo movimento dell’indice (un colpo di polpastrello e mezzo colpo d’unghia) ecco che viene fuori il cavatello o l’orecchietta. Sembra facile, ma quando ci provavano mia madre o mia zia non ci riuscivano mai. Il bello è che le vecchie, mentre lavoravano, non facevano che parlare e parlare. Raccontavano storie incredibili, ma con tanta convinzione da non infrangere mai in me la sospensione d’incredulità. Una delle prime grandi lezioni sull’arte di narrare credo di averla appresa nel corso di quei lunghi pomeriggi.
PETRINI: In Spaghetti, cozze e vongole il piatto e la sua preparazione sembrano la sintesi di un rapporto, di vari rapporti, o quanto meno un punto che ne definisce delle fasi. A volte penso che un piatto possa rendere felici, almeno per un momento. Ma è anche vero che quando siamo felici o tristi o preoccupati o depressi, inevitabilmente condizioniamo la nostra esperienza gustativa — e anche preparatoria, che può essere altrettanto piacevole o problematica per chi cucina. Come si intrecciano cibo e sentimenti nel tuo modo di vedere il mondo?
LAGIOIA: Da un certo punto in poi, non c’è stato in vita mia corteggiamento che non sia passato per la tavola. Separati da due piatti e una bottiglia di vino ci si lascia tra le lacrime o si promette amore eterno, si confessa un tradimento o se ne viene a conoscenza, si fanno progetti meravigliosi, e magari (in ognuno di questi casi) si cerca insieme la via più breve per il letto.
PETRINI: Io non sono un gran cuoco, sono un gastronomo, pratico una scienza che «definisce tutto ciò che è l’uomo in quanto egli si nutre», per citare Brillat-Savarin. Sono abbastanza esperto, tuttavia ai fornelli faccio fatica. Non cucino molto. Il mio amico Enzo Bianchi mi ha detto che cucinare è uno dei più grandi atti d’amore, perché è nella cura e nell’attenzione che ci si mette che si dimostra cura e attenzione a chi poi lo si serve. Condividi? Chi non sa cucinare perde un pezzo della capacità di amare?
LAGIOIA: Ho cucinato per quella che sarebbe diventata mia moglie quando ho iniziato a innamorarmene. Mi sembrava di buon auspicio. Ho tentato la strada delle linguine all’astice, piatto che non so fare. Ma ho fatto prove su prove in solitudine, ho perso interi pomeriggi faticando come una bestia e alla fine è venuto fuori un piatto più che mangiabile. Il talento in cucina era scarso, ma la capacità di amare c’era eccome.


Mangiar bene è un’arte ma non solo per il gusto Un “lessico” di Andrea Segrè contro gli affabulatori del palato per capire che cos’è il cibo, come condividerlo e non sprecarlo Enzo Bianchi Tuttolibri 7 11 2015
È bastato che l’Organizzazione mondiale della sanità annoverasse salumi e insaccati tra gli alimenti cancerogeni e la carne rossa tra quelli probabilmente tali perché si riaccendessero polemiche sull’eccessivo consumo di carne in occidente, sulle virtù delle diete vegetariane, sull’insensatezza di alcuni stili di vita e di alimentazione. Tra poco l’interesse verrà scemando progressivamente, complice anche la chiusura dell’Expo dedicata a «Nutrire il pianeta, energia per la vita», così come ci si dimenticherà dell’autorizzazione dell’Unione europea al presenza di cibi come insetti e larve anche nei ristoranti e nei negozi dei nostri paesi. È sovente così: ci accendiamo con fiammate di discussioni sulla mucca pazza, l’influenza aviaria, gli ogm, i salumi con additivi… Poi, ritorniamo lentamente alle nostre (buone o meno buone) abitudini alimentari, chiamando magari «tradizione culinaria» una relativamente recente assuefazione alla suggestione pubblicitaria e trascurando aspetti più basilari come, per esempio, la «dieta mediterranea», decantata in tutto il mondo come salutare e ignorata sulle nostre tavole quotidiane.
Si avverte con sempre più urgenza una seria educazione alimentare: ci si lascia affascinare da chef televisivi, si resta abbagliati dallo splendore di piatti belli a vedersi e improbabili da mangiare e si trascura invece la comprensione culturale e vitale legata al cibo, alla sua produzione e alla sua fruizione. Sì, fruizione e non consumo, come acutamente osserva Andrea Segrè nel suo agile e sapido testo sul Cibo incluso dell’editore Il Mulino nella collana Parole controtempo. In una società dei consumi è davvero «controtempo» parlare di «fruizione»: «fruire un bene – spiega Segrè – è assai diverso dal consumarlo, portandolo a termine … fruire significa godere soprattutto nel senso di avere, giovarsi di qualcosa» e preoccuparsi del suo non venir meno, «trarre giovamento da qualcosa avendone diritto».
Le osservazioni di Segrè – non solo docente di Politica agraria internazionale e comparata a Bologna, ma anche ideatore del «last minute market» per il riutilizzo del cibo ancora commestibile e già destinato allo scarto – ruotano attorno a un «lessico dislessico sul cibo», giocano con le parole e la loro etimologia creando però un discorso serissimo sulla nostra carente educazione in fatto di alimenti. Ci parla di diritto al cibo usando termini «a rovescio», forza la dimensione della «coltivazione» portandola al livello nobile e purtroppo trascurato dell’educazione, contrappone alla fretta del cibo di strada il sostare nella condivisione attorno a una tavola, spiega pregi e difetti delle diete, che non sono aridi elenchi di cibi permessi o proibiti ma veri e propri «stili di vita» capaci di incidere in profondità sulla qualità della vita dei singoli e sulla salute del pianeta terra.
Chi abbia un minimo di dimestichezza con la sapienza molto concreta legata all’arte culinaria e allo stare a tavola non sarà sorpreso nel leggere che «tutto è già stato detto» da Pellegrino Artusi e da Brillat-Savarin più di un secolo fa. Tutto è stato detto, sì, ma ben poco è stato messo in pratica di quelle perle di sapienza legate al saper vivere e al saper mangiare, cioè al saper discernere il buono e il bene legato ai cibi. A dire il vero, tutto era stato detto ancora millenni prima, in quel racconto delle origini umane di cui la bibbia dà una narrazione: la prima parola rivolta dal Dio biblico all’essere umano è «Mangiare, mangerai» e, subito dopo, «non mangerai di quel frutto». Mangiare avendo ben chiaro un limite, questo il dato primordiale per noi umani, un dato che ci obbliga a pensare a quello che mangiamo e a come lo mangiamo, a chi e come ha coltivato un determinato cibo, a chi non vi potrà accedere, a come condividerlo, al perché non sprecarlo… Tutte operazioni impegnative, ma anche pensieri e azioni che caratterizzano l’animale-uomo e lo distinguono dagli altri animali. Se è vero, infatti che «il cibo deve soddisfare un bisogno fondamentale dell’uomo, non un desiderio» è vero anche che desideriamo mangiare bene, con persone amiche, nella calma di un ambiente che sentiamo familiare, nel rispetto della terra, degli altri e dei loro diritti fondamentali.
Il lavoro di Segrè è pieno di consigli offerti senza nessuna saccenteria ma con grande competenza, con molta (auto)ironia, con simpatia verso i propri contemporanei e gratitudine verso le generazioni che ci hanno preceduto. Sapremo fruirne come di un dono destinato a dare frutto anche dopo che ha nutrito il nostro bisogno e allietato il nostro gusto? Sapremo accogliere la sfida ad «andare contro tempo e controcorrente» verso un cibo «educato»? È questione, anche di giustizia perché, osserva a ragione Segrè, «non c’è gusto senza giustizia: vale per il cibo, vale per tutto».

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