domenica 8 novembre 2015

Contro l'urbanistica

Risultati immagini per La Cecla: Contro l’urbanistica. La cultura delle cittàFranco La Cecla: Contro l’urbanistica. La cultura delle città, Einaudi, Torino, pagg 158, € 12,00

Risvolto
Oggi le città hanno una complessità, ricchezza e povertà che sfugge alla pianificazione schiava del riduzionismo economico o di slogan come smart e sustainable. Serve una nuova scienza del capire e fare città che parta dall'urbano come esperienza vissuta dei suoi abitanti.
L'urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L'urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all'architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un'urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.


Per una nuova urbanistica

Disegna la città e valuta l’impatto

di Salvatore Settis Domenica del Sole 24Ore 8.11.15

Ogni mese (anche questo, anche il prossimo) cinque milioni di persone lasciano per sempre la campagna e migrano in città. Nel 1850 viveva in città il 3% della popolazione mondiale, oggi il 54%; il 70% nel 2030, secondo le previsioni: i due terzi dell’umanità. Nel 1950 le città del pianeta oltre il milione di abitanti erano 83, oggi sono più di 500, di cui sedici oltre i 20 milioni. In questa urbanizzazione a tappe forzate, più di un miliardo di esseri umani vive in slums, che talvolta coprono il 90 % di agglomerati che di “città” hanno solo il nome. Su questo sfondo, quale è il compito dell’urbanistica? È la dura domanda che corre in ogni pagina del nuovo libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica (Einaudi). Ma si può essere, così senza mezzi termini, contro l’urbanistica o ancora Contro l’architettura (così un altro libro dello stesso autore, pubblicato da Boringhieri nel 2008)? La Cecla non è tanto ingenuo da voler negare l’intero percorso di una disciplina, ma ha il coraggio che basta per sfidarne l’incoerenza di fondo: in una epocale trahison des clercs, questa la tesi, l’urbanistica ha finito col considerare se stessa una disciplina al servizio del potere e non dei cittadini, barricata in un miope tecnicismo che mette alla porta la democrazia, sorda al degrado ambientale, incapace di rinnovarsi facendosi plasmare dai problemi della gente e del mondo. Da antropologo, ma ancor più da cittadino fra i cittadini, La Cecla percorre col suo sguardo inquieto un pianeta in ebollizione (acuti reportages di viaggio intervallano i capitoli del libro, portandoci da Giacarta a Minsk, da Fukuoka a Milano, e culminando naturalmente in Parigi) e ne misura la febbre, constatando la povertà delle risposte di tecnici e politici, la perversa tendenza a rimuovere la coscienza dei processi in atto o a leggerli sotto il segno di una pretesa necessità.
In una scrittura densa e impegnata, il plaidoyer di La Cecla si muove fra due poli, l’attualità e la storia. Sul fronte della storia, il suo argomento è difficile da contestare: Kropotkin, Geddes, Mumford concepirono l’urbanistica come osservazione simpatetica della convivenza dei cittadini entro le forme urbane, dove la regolazione della città sia pensata in funzione della vita quotidiana, anzi (diciamolo) della felicità dei cittadini. Il secondo Novecento vede gradualmente imporsi «una idea tutta tecnica dell’urbanistica», che ne annienta la matrice e la sapienza umanistica, «come se la fenomenologia urbana fosse tutta fatta di forme e non fossero invece importantissimi tutti i legami e le reti e l’invisibilità delle intenzioni di chi l’abita e di chi ci viene a vivere». Divenuta «l’ancella del formalismo architettonico», «l’urbanistica ha ucciso l’urbanità», è diventata «una specie di assistente dell’economia immobiliare». E qui La Cecla dispiega il suo controveleno, la vita quotidiana delle donne e degli uomini, «una forma di produzione di società, una morale per la vita di tutti i giorni, le routine, i ritmi quotidiani, i sogni collettivi». Al centro della sua proposta, il necessario rapporto fra il corpo del cittadino e il corpo della città, un «abitare i posti» che voglia dire usare la città e non consumarla né esserne consumati. Risuona qui, anche se La Cecla se ne distanzia, il modello della città come luogo supremo di «produzione dello spazio sociale» di Henri Lefebvre, con la connessa tematica del diritto alla città che innerva le tante manifestazioni di piazza di questi anni. Il Droit à la ville di Lefebvre, pubblicato pochi mesi prima che esplodesse il Maggio francese (1968) fu il vero e proprio annuncio della categoria dell’“urbano” come strumento descrittivo e interpretativo di una fase storica in cui la città tende a identificarsi con la forma complessiva della società, secondo The World City Hypotesis (John Friedmann, 1986), che somiglia sempre più all’ecumenopoli di Asimov, una sola città di quaranta miliardi di abitanti che copre l’intero pianeta di Trantor.
L’urbanistica al servizio di voraci developers, ci ricorda La Cecla, è incapace di contrastare le formidabili mutazioni interne che caratterizzano la città di oggi e di domani: l’esplosione delle periferie e l’obesità delle megalopoli, la mercificazione dello spazio in estensione (urban sprawl) e in altezza (il vertical sprawl che Vittorio Gregotti ha chiamato “grattacielismo”), la gentrification che scaccia i meno abbienti dai quartieri più appetibili (al tema è dedicato un recente libro di Giovanni Semi, appena pubblicato dal Mulino: Gentrification. Tutte le città come Disneyland?). Nuove divisioni urbane, basate sul censo, si insediano nelle città. La transizione da città a paesaggio, che fu storicamente una sorta di cerniera, cede il passo a feroci confini intra-urbani, caratterizzati dalla segmentazione della società, da spazi di esclusione, controllo delle libertà e limitazione dei diritti. L’urbanistica «che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums» è una disciplina che ha rinnegato se stessa, disumanizzandosi fino al punto di negare all’agricoltura il diritto di esistere (a meno che non sia l’intensivo land grabbing di immensi neo-latifondi): «la città non ha più bisogno di una campagna né di una natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza».
Mettendo al centro le pratiche di vita quotidiana delle comunità urbane e il ruolo essenziale dell’agricoltura nella vita economica e civile, il libro di La Cecla è un forte richiamo alla responsabilità degli urbanisti (e dei politici) e perciò rivendica l’urgenza di una “valutazione di impatto sociale” (Vis) delle pianificazioni urbane, raccomandata dalla Commissione Europea ma di là da venire in Italia. La Cecla ha fiducia nella riqualificazione dell’urbanistica sulla base di una corretta e non burocratica applicazione della Vis: prova ulteriore, se ve ne fosse bisogno, che la sua non è una cieca invettiva contro l’urbanistica, ma anzi si propone come manifesto per una nuova urbanistica, non solo tecnica ma storica, ecologica e antropologica, una “scienza umana” oggi più necessaria che mai. 

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