venerdì 20 novembre 2015

Dalla tragedia al controllo della morale universale: 70 anni da Norimberga e una strumentalizzazione

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Vale quanto detto per il romanzo di Dicker. Norimberga è qui, in questa contingenza precisa, nome del diritto dell'Occidente a ergersi a tribunale del mondo e della stessa dignità umana.
Ma se la Norimberga storica ha avuto una sua legittimità nella sua reale fondazione universalistica, una Norimberga di oggi va invece respinta perché sarebbe solo la prosecuzione della falsificazione neocolonialista e particolaristica dell'universalismo stesso, ridotto a ideologia occidentalista [SGA].

Norimberga, 1945 Così nacque la giustizia globale
Settant’anni fa i vertici dello Stato nazista furono chiamati dalle potenze vincitrici a rispondere dei crimini di guerra
di Umberto Gentiloni La Stampa 20.11.15
Si apre settant’anni fa, il 20 novembre 1945, il primo processo contro un nucleo di criminali nazisti; il primo di una serie, il più celebre e controverso. Si doveva tenere a Berlino cuore del Terzo Reich. Ma non c’erano edifici adatti, solo macerie e tracce di una battaglia estenuante. Venne così scelta la città di Norimberga, in Baviera nel Sud della Germania, per due ragioni: il palazzo di giustizia e l’adiacente prigione erano ancora in piedi, il valore simbolico di un luogo che aveva ospitato i congressi del partito nazionalsocialista e legato il suo nome alle famigerate leggi del 1935.

Ma il punto principale quando la guerra in Europa volge al termine investe le colpe e le responsabilità. Chi poteva decidere sul confine tra dimensione individuale e responsabilità collettiva dei crimini compiuti? Quale sede, in quale contesto? E soprattutto quali capi di imputazione avrebbero potuto segnare il giudizio sul nazismo e sui suoi protagonisti? Un groviglio di interrogativi che fa da cerniera nel passaggio tra guerra e dopoguerra lungo quel sentiero difficile che i vincitori cercano di tracciare mentre il responso militare si consolida.
La ricerca di una giustizia possibile ha origine negli anni centrali del conflitto quando tutto è ancora in gioco. A partire dal gennaio 1942 alcuni governi in esilio di Paesi occupati dai nazisti denunciano le violazioni ripetute alla convenzione dell’Aia sulla protezione delle popolazioni civili in tempo di guerra; nell’ottobre 1943 con la dichiarazione di Mosca, Churchill, Roosevelt e Stalin vogliono colpire i responsabili dei crimini nazisti. Un’intenzione generica che viene raccolta e codificata con la costituzione di un Tribunale Militare Internazionale (Imt) due giorni dopo il lancio della bomba atomica su Hiroshima, l’8 agosto 1945. Una corte internazionale promossa dalle potenze vincitrici (Usa, Urss, Inghilterra e Francia) per sostenere e qualificare le ragioni del verdetto dei campi di battaglia.
Un’impresa che si snoda a partire dall’individuazione dei capi d’imputazione e dal loro utilizzo. Seguiamo le parole di un «Diario» che ci riporta a quella mattina di 70 anni fa, una sintesi dalla penna dello psicologo americano G.M. Gilbert incaricato di seguire gli imputati nelle tenebre della prigione di Norimberga: «La prima udienza del mattino è stata dedicata alla lettura dell’atroce catalogo dei crimini nazisti. Capo primo: associazione o cospirazione per acquisire il controllo totalitario della Germania. Utilizzo del potere per aggredire Paesi stranieri. Capo secondo: crimini contro la pace. Violazione dei trattati internazionali, degli accordi e delle garanzie». Uno sguardo in sala: «Gli imputati sedevano in silenzio, disattenti, alcuni di loro giocavano col selettore delle cuffie per la trasmissione delle diverse traduzioni simultanee, altri si guardavano intorno studiando i giudici, i pubblici ministeri, i giornalisti e il pubblico». Solo nella seduta pomeridiana si completa il quadro delle accuse: «Capo terzo: crimini di guerra. Uccisione e trattamento inumano delle popolazioni civili, dei prigionieri di guerra. Deportazione per il lavoro forzato. Uccisione di ostaggi. Capo quarto: crimini contro l’umanità: uccisione, sterminio, schiavitù persecuzione per motivi politici e razziali. Terminata la lettura dei quattro capi d’imputazione è toccato alle accuse rivolte ai singoli imputati e alle organizzazioni».
Da quel momento un anno di deposizioni, accuse incrociate, raccolta di prove e testimonianze sotto i riflettori di un mondo scosso dalle atrocità e dai costi della guerra e pronto a voltare pagina. Il 30 settembre 1946 la sentenza: dodici imputati condannati a morte per impiccagione, sette indirizzati verso pene detentive nell’ex prigione militare di Berlino-Spandau, tre assolti. Il capo del Fronte tedesco del lavoro si suicidò alla vigilia dell’inizio del processo. Il tribunale di Norimberga definì il Partito nazista, le SS e la Gestapo organizzazioni criminali. E così calò il sipario sul processo e iniziò il confronto sul suo significato ben al di là dei confini tracciati dalla sentenza e dalle biografie dei 23 imputati.
Tre linee di giudizio, di segno diverso hanno attraversato i decenni che ci separano dalla sentenza. Una critica al carattere celebrativo del processo: le ragioni dei vincitori prevalgono sulla ricerca di giustizia e responsabilità; vaghe le accuse, generici i riferimenti, ristretto il numero degli imputati. Su un altro versante il processo rappresenta un passaggio di svolta per la conoscenza del nazismo e della sua natura, per la diffusione di notizie e informazioni, per il coinvolgimento della Germania nella riflessione collettiva sulle colpe, le responsabilità, i comportamenti degli uomini, su quella zona grigia sfuggente di cui scriverà Primo Levi anni dopo. Viene progressivamente smontata la facile scorciatoia di chi si appella agli ordini ricevuti e alle dinamiche di una catena di comandi che tutto condiziona. Il processo di Norimberga fissa il principio di una giustizia potenzialmente più forte degli individui e degli stati, apre la strada a una ricerca faticosa e contraddittoria per definire principi e valori irrinunciabili di una costituenda Comunità internazionale. 

“Fu una giustizia imperfetta ma il meglio che si potesse fare”
Dershowitz: e oggi bisognerebbe creare una corte per il terrorismo

di Paolo Mastrolilli La Stampa 20.11.15
Il giurista di Harvard Alan Dershowitz, uno tra i più celebri principi del foro americano, definisce il processo di Norimberga come «giustizia imperfetta». E poi aggiunge: «Per non ritrovarci nelle stesse difficoltà oggi, dovremmo costituire un tribunale internazionale contro i reati di terrorismo».
Perché Norimberga fu «giustizia imperfetta»?
«Non esistevano i precedenti e le strutture. Non c’erano un tribunale e leggi internazionali chiare, e non c’erano neppure giudici preparati in maniera specifica per quel compito: molti di loro, anzi, erano ex nazisti. Infatti diversi criminali colpevoli di genocidio, come ad esempio il dottore Mengele, riuscirono a farla franca. Diciamo che, nelle condizioni date, fu il meglio che si potesse fare».
Dal punto di vista giuridico è accettabile che i vincitori di una guerra processino i vinti?
«Succede sempre così. In molti casi i vinti vengono semplicemente ammazzati, e quindi in questo senso Norimberga rappresentò un progresso storico, perché quanto meno di fu un processo».
E’ lecito processare il male?
«No, si processano i reati. In quel caso il male assoluto fu implementato attraverso il genocidio, e quindi davanti ai giudici finirono persone accusate di aver commesso crimini specifici. C’è molto male anche nella nostra società, ma si può essere diabolici senza violare le leggi internazionali».
Perciò, davanti agli orrori commessi dall’Isis, lei invoca la creazione di un tribunale specializzato nel terrorismo?
«La situazione oggi è migliorata rispetto a Norimberga, perché abbiamo una Corte penale internazionale, e quindi un quadro di riferimento per giudicare certi reati. Però questa Corte non ha neanche un’inchiesta aperta sull’Isis, mentre indaga su Israele. Papa Francesco ha detto giustamente che stiamo vivendo la Terza guerra mondiale, ma si tratta di una guerra combattuta attraverso il terrorismo, e quindi dovremmo attrezzarci per affrontarlo anche sul piano legale».
Al momento la comunità internazionale non è d’accordo nemmeno sulla definizione del terrorismo.
«Vero. Ma la soluzione è semplice, se la vogliono: chiunque prenda di mira deliberatamente i civili commette un atto di terrorismo, che può essere perseguito da questo nuovo tribunale».
Non si corre il rischio che qualcuno definisca pure i militanti dell’Isis come combattenti per la libertà?
«Anche i nazisti, per difendersi, dissero che obbedivano ad un progetto politico che passava sopra le loro teste, ma nessuno accettò questo argomento. Gli esseri umani hanno la responsabilità delle proprie azioni, e non credo che esista un magistrato disposto a giustificare le atrocità commesse dall’Isis come atti politici finalizzati alla libertà».
L’assenza di questo tribunale favorisce lo sviluppo del terrorismo?
«Certo. Sul piano internazionale non è neppure formalmente un reato. Questa condizione di incertezza aiuta tanto i terroristi, quanto i loro fiancheggiatori».
Durante il G20 di Antalya, il presidente russo Putin ha accusato alcuni Paesi seduti intorno al suo tavolo di aver finanziato l’Isis. Andrebbero giudicati davanti al nuovo tribunale?
«Putin purtroppo aveva ragione. C’è troppa ipocrisia e connivenza intorno al fenomeno dell’Isis, così come c’era stata intorno al nazismo. Il tribunale contro il terrorismo, andando anche oltre Norimberga, dovrebbe poter processare chi lo finanzia, chi lo sostiene, chi incita a praticarlo. Avrebbe un forte effetto pratico di dissuasione e prevenzione, che non esistette ai tempi del nazismo».

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