domenica 29 novembre 2015

Il Ghetto di Venezia



La mostra. A Roma storia e mito della Menorà, il più antico simbolo ebraico
I Musei Vaticani e il Museo Ebraico dedicano una mostra al più importante tra i segni dell'ebraismo: dal testo biblico al candelabro del Tempio di Gerusalemme         
Avvenire Anna Foa sabato 13 maggio 2017


Ecco il ghetto di Venezia. Oggi
Giuseppe Matarazzo Avvenire 17 settembre 2016

Venezia, libri usciti dal ghetto
Marco Roncalli Avvenire 6 aprile 2016

Il ghetto di Venezia sì bello e perduto 

Istituito 500 anni fa, è il più antico del mondo. Le storie e i luoghi di un universo a parte che al suo interno godeva di ampia autonomia e arrivò a ospitare fino a 5000 ebrei. Ma oggi ne sono rimasti pochi 

Maurizio Assalto Stampa 31 1 2016
Negli stipiti dei portoni, lungo le calli, si vede ancora, a destra, una fenditura rettangolare, lunga e stretta. È il vano dove veniva sistemata la 
mezuzah, il piccolo involucro contenente una pergamena arrotolata con alcuni passi della 
Shemà: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno…». Era usanza di chi varcava la soglia toccarla con le dita e poi baciarsele, in segno di rispetto verso la preghiera fondamentale della religione ebraica. Oggi nessun dito la sfiora più, perché la fenditura è vuota, in alcuni casi murata.
Siamo nel ghetto di Venezia, ma della composita popolazione che lo gremiva un tempo non affiorano che le tracce. Qualche insegna qua e là, una  menorah con stella di David che svetta da una facciata, un ristorante kosher, un fornaio che vende azzime e dolcetti tipici, una galleria d’arte che propone gioiosi quadretti di vita quotidiana degli anni andati. Qualche macilento Lubavitch di passaggio, anche, che si aggira con pastrano e cappellaccio neri. Ma gli ebrei che abitano questo piccolo mondo a parte sono rimasti pochi, non più di una quarantina sui circa 500 che ancora vivono in città. Lo visitiamo in compagnia di Riccardo Calimani, gran cultore di antichità giudaiche, che alla Storia del ghetto di Venezia ha dedicato un ricchissimo volume uscito trent’anni fa, ora ripubblicato in edizione accresciuta da Mondadori.
Il più antico ghetto del mondo celebra quest’anno il suo cinquecentenario. Venne istituito il 29 marzo 1516, in un periodo drammatico per la Serenissima, logorata dalla guerra contro la Lega di Cambrai, minacciata dall’avanzata degli austriaci e da quella temuta degli ottomani.
Dal tramonto all’alba
Nel clima di pessimismo della città invasa dai profughi, tra i quali molti ebrei, gli elementi «estranei», come spesso accade, erano finiti nel mirino, in seguito anche alle infiammate prediche dei frati francescani che alimentavano la diffidenza verso i «corruttori» dei costumi aviti. Si arrivò così al decreto che assegnava ai «giudei» una piccola area quasi trapezoidale di Cannaregio, vicina all’attuale stazione ferroviaria, dove un tempo si trovavano gli impianti della fonderia (in veneziano geto, il luogo dove venivano «gettati» gli scarti della lavorazione del rame, più tardi, per influsso degli abitanti di origine tedesca, pronunciato con la g dura).
Qui gli ebrei dovevano stare rinchiusi dal tramonto all’alba (e chatzer, in ebraico «recinto», è il nome con cui sempre lo designarono), pena sanzioni pecuniarie e nei casi recidivi la prigione. L’area era chiusa da alti muri, le vie di accesso presidiate da cancelli sorvegliati (ancora oggi si vedono nei muri di pietra i segni dei chiavistelli) e gli abitanti tenuti a pagare di tasca propria due barche che facevano la ronda nei canali circostanti, nonché a portare come contrassegno distintivo una berretta gialla quando giravano per la città. Per far loro posto vennero sfrattati i precedenti inquilini e le abitazioni, appartenenti alla nobiltà veneziana, affittate con un rincaro del 30% (agli ebrei erano vietato il possesso di immobili). Nasceva così il primo nucleo del ghetto, quello Todesco (in quanto abitato da genti ashkenazite, oltre che da italiani), in seguito designato anche come Novo (perché nell’area della fonderia nuova). E nasceva quel termine presto diffuso nelle realtà di tutta l’Europa, entrato sinistramente, con le sue varie declinazioni, nel nostro lessico e nella nostra memoria.
I banchi di pegno
Ma nel loro recinto veneziano, dove godevano di ampia libertà e di relativa autonomia giuridica, comprendente la possibilità di divorziare (negata nel resto della Repubblica), gli ebrei non se la passavano tanto male. Anzi, erano essi stessi a negoziare periodicamente con le autorità le «condotte» per ottenere la conferma del permesso di soggiorno, in cambio di tasse (le «gravezze») ogni volta più esose. Con grande pragmatismo, a metà tra tolleranza e cinismo, la Repubblica fin dal ’300 aveva individuato nell’attività degli ebrei prestatori di danaro un efficace ammortizzatore sociale, utile per fornire sussidio ai poveri allentando così le tensioni interne, ma anche un parafulmine su cui scaricare all’occorrenza il malcontento popolare.
Entrando nel campo del ghetto Novo dal ponte di Rio San Girolamo, si trovano subito, nel sottoportico a sinistra, i tre banchi di pegno dove esercitavano i reali modelli dello shakespeariano Shylock. Come quell’Asher Meshullam (italianizzato in Anselmo del Banco) che fu il primo capo della comunità, autorevole e rispettato. Non così il fratello Chaim, coinvolto in un celebre processo contro due medici ebrei che aveva falsamente accusato per la morte di un suo servo, comprando i testimoni; né suo figlio Jacob, gioielliere, che riuscì a evitare una condanna per ricettazione corrompendo i giudici e da ultimo si fece cristiano. 
Nel corso dei decenni la Serenissima, assillata dal bisogno di danaro, aumentò progressivamente le gravezze verso i prestatori ebrei, obbligandoli nel contempo a tassi di interesse sempre più bassi (dall’iniziale 15 al 5%) e così mettendoli nelle condizioni di dover ricorrere a loro volta a prestiti presso patrizi veneziani, e a lungo andare, a metà ’700, a lavorare in perdita. Ma tutto si poteva accettare, pur di rimanere nel sicuro recinto, consapevoli del resto, secondo un aforisma di Anselmo, che «quando il voler con il poder combatte, il poder sta sora».
Le cinque sinagoghe
Intanto ai primi abitanti della «Natione Todesca» si erano aggiunti i mercanti di origine sefardita, cacciati dalla penisola iberica tra il 1492 e il 1496, chiamati «Levantini» in quanto approdati in Laguna dopo un lungo giro in Oriente. Graditi alle autorità per l’intraprendenza commerciale e i contatti internazionali di cui erano depositari, in un periodo in cui i traffici per mare erano flagellati dalla pirateria, anch’essi ottennero nel 1541 il diritto a un loro spazio, il ghetto Vecchio (sorto dove c’era stata la fonderia più antica), intorno a una lunga calle intersecata da altre più piccole e collegata da un ponte al ghetto Novo. Con l’occupazione del ghetto Novissimo, contiguo agli altri due, in cui si insediò un gruppo di cinquanta ricche famiglie di mercanti provenienti dalla Spagna, la «Natione Ponentina», in parte marrani riconvertiti al giudaismo, si completò nel 1589 la cosiddetta Università degli ebrei veneziani.
Inizialmente divise per origini e status, differenti nei costumi, nei riti e nella lingua, le tre «Nationi» gradualmente si fusero, dando vita a un originale impasto vernacolare in cui l’ebraico si mescolava con lo yiddish, lo spagnolo e il veneziano. La popolazione crebbe fino a un massimo di 4-5 mila unità a metà del ’600, quando si è stimato che ogni abitante disponesse di uno spazio abitativo non superiore ai 9 metri quadrati. Di conseguenza gli edifici venivano sopraelevati, fino a sei-otto piani, mentre nel resto di Venezia non si superavano i tre-quattro, e gli spazi interni erano fittamente suddivisi con tramezzi di legno. 
Le sinagoghe (Schole) erano distinguibili dall’esterno soltanto per le grandi finestre allineate, cinque come i libri del Pentateuco. Alla Schola Cantón e alla Todesca - oggi collegate al Museo Ebraico, il primo in Italia, fondato nel 1954 - e all’Italiana, tutte nel ghetto Novo, si aggiunsero nel ghetto Vecchio la Spagnola - la più sontuosa, dove durante una preghiera di shabbat nell’agosto del 1849, ai tempi del governo provvisorio di Daniele Manin, una bomba degli assedianti austriaci si schiantò senza esplodere accanto all’armadio sacro della Torah - e la Levantina, tuttora in funzione alternativamente in estate e in inverno.
Medici e intellettuali
All’inizio del ’600 il ghetto era un centro di cultura scientifica - per la presenza di medici ricercatissimi dalla nobiltà e dell’alto clero - e un vivace polo intellettuale, grazie ai dotti ebrei convenuti da tutta Europa per approntare le prime edizioni a stampa dei testi sacri. È in questo periodo che si colloca l’attività di personaggi come rabbi Leone da Modena, raffinato pensatore e formidabile predicatore rovinosamente dedito al gioco, abituato a muoversi con disinvoltura negli ambienti più disparati, o della sua pupilla Sara Coppio Sullam, affascinante poetessa animatrice nel ghetto di un salotto frequentato dagli intellettuali più in vista dell’intera città, o ancora Mosè Zacuto, il «Dante ebreo», autore di un poema, l’Inferno preparato, in cui immaginava il viaggio ultraterreno di un peccatore.
Con alti e bassi nel rapporto con la Serenissima, si andò avanti fino al 1797, quando l’arrivo di Napoleone segnò la fine della segregazione e l’apertura del ghetto. Gli ebrei più ricchi si trasferirono a San Marco, mentre tra le antiche mura la loro presenza si assottigliava. Vi tornarono in circostanze tragiche, ai primi di dicembre del 1944: ne conserva la memoria una serie di bassorilievi bronzei dell’artista lituano Arbit Blatas, collocati nell’80 su un muro di fianco all’ottocentesca Casa di Riposo Israelitica, su un lato del campo del ghetto Novo, dove ancora oggi sono ospitate cinque anziane, tre delle quali ultracentenarie. Qui, in quei giorni, furono concentrati dalle SS gli ebrei veneziani destinati ai Lager. Oltre duecento furono deportati, soltanto sette tornarono indietro.
Nel corso dei decenni la Serenissima, assillata dal bisogno di danaro, aumentò progressivamente le gravezze verso i prestatori ebrei, obbligandoli nel contempo a tassi di interesse sempre più bassi (dall’iniziale 15 al 5%) e così mettendoli nelle condizioni di dover ricorrere a loro volta a prestiti presso patrizi veneziani, e a lungo andare, a metà ’700, a lavorare in perdita. Ma tutto si poteva accettare, pur di rimanere nel sicuro recinto, consapevoli del resto, secondo un aforisma di Anselmo, che «quando il voler con il poder combatte, il poder sta sora».
Le cinque sinagoghe
Intanto ai primi abitanti della «Natione Todesca» si erano aggiunti i mercanti di origine sefardita, cacciati dalla penisola iberica tra il 1492 e il 1496, chiamati «Levantini» in quanto approdati in Laguna dopo un lungo giro in Oriente. Graditi alle autorità per l’intraprendenza commerciale e i contatti internazionali di cui erano depositari, in un periodo in cui i traffici per mare erano flagellati dalla pirateria, anch’essi ottennero nel 1541 il diritto a un loro spazio, il ghetto Vecchio (sorto dove c’era stata la fonderia più antica), intorno a una lunga calle intersecata da altre più piccole e collegata da un ponte al ghetto Novo. Con l’occupazione del ghetto Novissimo, contiguo agli altri due, in cui si insediò un gruppo di cinquanta ricche famiglie di mercanti provenienti dalla Spagna, la «Natione Ponentina», in parte marrani riconvertiti al giudaismo, si completò nel 1589 la cosiddetta Università degli ebrei veneziani.
Inizialmente divise per origini e status, differenti nei costumi, nei riti e nella lingua, le tre «Nationi» gradualmente si fusero, dando vita a un originale impasto vernacolare in cui l’ebraico si mescolava con lo yiddish, lo spagnolo e il veneziano. La popolazione crebbe fino a un massimo di 4-5 mila unità a metà del ’600, quando si è stimato che ogni abitante disponesse di uno spazio abitativo non superiore ai 9 metri quadrati. Di conseguenza gli edifici venivano sopraelevati, fino a sei-otto piani, mentre nel resto di Venezia non si superavano i tre-quattro, e gli spazi interni erano fittamente suddivisi con tramezzi di legno. 
Le sinagoghe (Schole) erano distinguibili dall’esterno soltanto per le grandi finestre allineate, cinque come i libri del Pentateuco. Alla Schola Cantón e alla Todesca - oggi collegate al Museo Ebraico, il primo in Italia, fondato nel 1954 - e all’Italiana, tutte nel ghetto Novo, si aggiunsero nel ghetto Vecchio la Spagnola - la più sontuosa, dove durante una preghiera di shabbat nell’agosto del 1849, ai tempi del governo provvisorio di Daniele Manin, una bomba degli assedianti austriaci si schiantò senza esplodere accanto all’armadio sacro della Torah - e la Levantina, tuttora in funzione alternativamente in estate e in inverno.
Medici e intellettuali
All’inizio del ’600 il ghetto era un centro di cultura scientifica - per la presenza di medici ricercatissimi dalla nobiltà e dell’alto clero - e un vivace polo intellettuale, grazie ai dotti ebrei convenuti da tutta Europa per approntare le prime edizioni a stampa dei testi sacri. È in questo periodo che si colloca l’attività di personaggi come rabbi Leone da Modena, raffinato pensatore e formidabile predicatore rovinosamente dedito al gioco, abituato a muoversi con disinvoltura negli ambienti più disparati, o della sua pupilla Sara Coppio Sullam, affascinante poetessa animatrice nel ghetto di un salotto frequentato dagli intellettuali più in vista dell’intera città, o ancora Mosè Zacuto, il «Dante ebreo», autore di un poema, l’Inferno preparato, in cui immaginava il viaggio ultraterreno di un peccatore.
Con alti e bassi nel rapporto con la Serenissima, si andò avanti fino al 1797, quando l’arrivo di Napoleone segnò la fine della segregazione e l’apertura del ghetto. Gli ebrei più ricchi si trasferirono a San Marco, mentre tra le antiche mura la loro presenza si assottigliava. Vi tornarono in circostanze tragiche, ai primi di dicembre del 1944: ne conserva la memoria una serie di bassorilievi bronzei dell’artista lituano Arbit Blatas, collocati nell’80 su un muro di fianco all’ottocentesca Casa di Riposo Israelitica, su un lato del campo del ghetto Novo, dove ancora oggi sono ospitate cinque anziane, tre delle quali ultracentenarie. Qui, in quei giorni, furono concentrati dalle SS gli ebrei veneziani destinati ai Lager. Oltre duecento furono deportati, soltanto sette tornarono indietro.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Padova, un altro ghetto è stato possibile In un museo interattivo la secolare vicenda della comunità ebraica: una storia di integrazione che non significa assimilazione ma incontro di identità e di culture e dialogo con il mondo esterno Elena Loewenthal Busiarda 28 6 2016
Di che cosa è fatta una storia? Di luoghi, momenti irripetibili nel bene e nel male, persone e idee che le guidano. Nulla di tutto questo manca nella secolare vicenda della comunità ebraica di Padova, che oggi conta circa duecento anime, ma come in tanti altri casi non sono i numeri che valgono, è la sostanza di vita. Per raccontare questa storia, che è unica come ogni altra ma con qualcosa di speciale in più, non si può non partire da una data terribile: nella notte fra il 13 e il 14 maggio 1943 un incendio doloso - opera di fascisti - distrugge quasi interamente la sinagoga della città con i suoi archivi. Nessun giornale menziona l’evento, nessuno viene denunciato. La comunità viene «consigliata» di «dichiarare che si è trattato di un cortocircuito», racconta Ada Levi nelle sue memorie.
L’Università aperta
Le leggi razziali, la guerra, le deportazioni: tutto sembra andare nella direzione di un terribile finale della storia, ma non è così. A settant’anni dalla fine della guerra, Padova ebraica esiste ancora e di recente, grazie al presidente della comunità Davide Romanin Jacur, al rabbino Adolfo Locci e a una squadra di persone all’opera, Padova ebraica è anche un museo «interattivo» dove la storia della comunità si disegna nei volti e nelle parabole di vita di personaggi del passato, perché «una generazione va e una generazione viene» e così è la vita. E a dispetto di quel rogo doloso, a dispetto delle leggi razziali e di tutto quello che è stato appena settant’anni fa, la storia di questa piccola comunità ebraica è straordinariamente emblematica nella coerenza con cui per secoli ha portato avanti il principio di una integrazione che non significava assimilazione ma incontro di identità: italiana, ebraica, culturale, politica. Il terreno per questo dialogo tra mondo ebraico e mondo «esterno» era quanto mai fertile. Non per niente l’Università di Padova era praticamente l’unica in Europa che in passato accolse e laureò studenti «senza l’obbligo di dichiarazione di fede».

E così, tra i ritratti di ebrei padovani che accompagnano in video il visitatore del piccolo ma significativo museo, c’è anche Vittorio Polacco, nato a Padova il 10 maggio 1859, che tra il 1905 e il 1910 fu rettore dell’Università prima di trasferirsi a Roma dove insegnò diritto civile e partecipò a numerose commissioni governative.
Le battaglie dei rabbini
Mezza generazione prima di lui, Giacomo Levi Civita, vissuto tra il 1846 e il 1922, fu sindaco della città e successivamente senatore del Regno d’Italia. Le sue battaglie politiche hanno un che di avveniristico: interviene a favore del divorzio e del riconoscimento di paternità, in difesa della laicità della scuola e dell’istruzione femminile.
Basta scendere via via dentro il passato lungo i secoli per realizzare quanto sia unica e speciale questa storia. Yehuda Mintz vive a Padova nella seconda metà del XV secolo. È un rabbino eclettico, a lungo rettore della accademia di studi ebraici della città. Tra i suoi tanti pronunciamenti, ce n’è anche uno che permette agli uomini di vestirsi da donna per il Purim, il Carnevale ebraico.
Moshe Haiim Luzzatto è invece una delle grandi personalità dell’ebraismo europeo nella prima metà del XVIII secolo: rabbino, cabbalista e poeta, ha lasciato un ricco patrimonio di testi prima di partire per la Terra Promessa, guidato da una imperiosa voce interiore.
Nel 1800 nasce invece Samuel David Luzzatto, meglio noto con l’acronimo Shadal: studioso e scrittore prolifico, è stato un grandissimo personaggio ma soprattutto il simbolo di un illuminismo ebraico che concilia la tradizione con la necessità di aprirsi al mondo, e soprattutto con una inesausta curiosità intellettuale. E tra i tanti ritratti di questo ebraismo padovano così sorprendente e ora «visitabile» attraverso le installazioni del museo, nei volti e nelle voci e nelle vite di questi e altri personaggi, proprio Shadal esempla meglio di ogni altro la natura di una storia fatta di incontri. Di una integrazione sociale, politica e culturale avviata e costruita ben prima che nel resto d’Italia e del mondo si aprissero le porte dei ghetti.
«Imparare e insegnare»
Certo, anche a Padova c’era il ghetto. Ma le sue mura non impedivano la comunicazione e la possibilità per gli ebrei di avere un ruolo attivo nella società, nell’università, nel mondo che stava al di là di quelle mura. Senza per questo perdere se stessi, anzi rappresentando al tempo stesso un polo importante per la tradizione e gli studi ebraici. Non è una lezione da poco, questa. Non soltanto per l’ebraismo contemporaneo che sta affrontando in questo presente la sfida della conservazione attraverso l’integrazione, di continuare a essere sé stesso in una società aperta.
Questa capacità di conciliare più identità dentro la persona, come nella secolare storia degli ebrei che qui a Padova hanno saputo e potuto essere anche cittadini, protagonisti nella vita della città e del Paese, è in fondo la ricetta che il presente esige da ognuno di noi. Nessuno è soltanto «una cosa», ognuno di noi racchiude più identità e deve imparare a esprimerle ma soprattutto a conciliarle.
Come nel caso di Emilio Morpurgo (1836-1885), ad esempio: ebreo padovano, statista, politico, altro rettore dell’Università di Padova, socio di svariate accademie in Italia e Inghilterra, segretario generale del ministero dell’Agricoltura, cognato di un garibaldino. Una storia costantemente piccola nei numeri ma generosa di vicende uniche che, come direbbe Shadal, è stata capace di lilmod ulelammed, «imparare e (soprattutto) insegnare».
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