sabato 28 novembre 2015

La guerra e la distruzione dell'arte: per l'ideologia occidentale i barbari sono sempre gli altri. Rimossa la cancellazione coloniale di intere civiltà



Dresda prima del bombardamento

Viviano Domenici: Contro la bellezza, Sperling&Kupfer, pp. 288, 19

Risvolto
L'imponente tempio di Bel a Palmira, la reggia di Nimrud, le statue dei re di Hatra e i capolavori conservati nel museo di Mosul: alcune delle più spettacolari testimonianze delle civiltà fiorite, due o tremila anni fa, fra la Siria e l'Iraq attuali sono state polverizzate nel 2015 dai miliziani dell'Isis, tra grida inneggianti ad Allah e prediche farneticanti contro gli «idoli». Anni prima, in Afghanistan, i monumentali Buddha di Bamiyan erano caduti sotto i colpi dei talebani, che depredarono e devastarono il museo di Kabul, uno dei più importanti al mondo. Perché i fanatici seguaci del Califfato e del mullah Omar si accaniscono contro quelle antiche pietre come se fossero pericolosi nemici? Perché non si limitano ai saccheggi con cui finanziano i loro crimini, ma fanno scempio delle meraviglie che custodiscono la memoria storica dell'umanità, inscenando uno spettacolo destinato a terrorizzare l'Occidente? Indagando le radici delle guerre iconoclaste, Viviano Domenici ricostruisce, con l'aiuto di numerose fotografie, le vicende dei capolavori perduti e di quelli recuperati e le avventure degli archeologi e dei conservatori dei musei che hanno messo in salvo migliaia di opere anche a costo della vita. Il suo racconto si inoltra nella Storia, fino ai genocidi culturali commessi in nome della Croce e all'uccisione simbolica in uso presso assiri e sumeri, che tagliavano la testa alle statue, oltre che agli uomini, proprio come fa l'Isis oggi. Una storia sconosciuta e affascinante, popolata di condottieri spietati e regine da Mille e una notte, che svela i segreti nascosti fra le rovine millenarie sparse nella regione dove è nata la nostra civiltà


I vandali non si arrendono mai 
Mesopotamia, Roma, Costantinopoli, l’Isis: le distruzioni d’opere d’arte sono una costante della storia 

28 nov 2015  Corriere della Sera Francesco Battistini © RIPRODUZIONE RISERVATA 
«Dannati barbari che hanno in odio la bellezza! » . Quando l’Isis eravamo noi, ed erano gli altri a custodire l’arte blasfema, non servivano i video su YouTu-be a mostrare quel che andavamo a devastare nel nome di Cristo. Bastava Niceta Coniata: un mite intellettuale bizantino che nel 1200 si trovava a Costantinopoli, il giorno in cui arrivò la soldataglia d’Innocenzo III, e ci lasciò il racconto atterrito di che cosa combinarono quei cristiani alla Quarta Crociata. Altro che le mura di Ninive trapanate da Al Baghdadi, o il tritolo talebano sui Buddha di Bamiyan. Fu dopo aver denudato i ricchi bizantini, violentate le donne, che i santi guerrieri del Papa passarono alle opere d’arte. E, veri odiatori della bellezza, abbatterono l’immagine di Bellerofonte in groppa a Pegaso, fusero l’Ercole di Lisippo all’Ippodromo, frantumarono l’aquila d’Apollonio di Tiana, fecero a pezzi il cavallo del Nilo con la coda a squame, si spartirono l’altare sacrificale di Santa Sofia, cancellarono per sempre i capolavori di Fidia e di Prassitele. «Hanno gli orecchi rossi dal riverbero del fuoco dell’ira — scrisse Niceta prima di scappare —, nessuna delle Grazie e delle Muse trova ricetto in loro…». Qui sopra: iconoclasti calvinisti bruciano statue di santi cattolici prelevate in una chiesa. A destra: in alto, il ritratto di un proconsole romano danneggiato dai cristiani; in basso, la nicchia nella parete rocciosa di Bamiyan, in Afghanistan, dove c’era una delle due grandi statue di Buddha distrutte dai talebani 

Vandalo a chi? Non crediate che sfregiare le statue sia una specialità solo dello Stato islamico. O che siano un crimine soltanto di questo millennio i diecimila siti archeologici danneggiati in Siria, l’esplosione dei templi di Palmira e le pitture rupestri scalpellate nel deserto libico, le offese di Ebla e Mosul. C’è un reporter della storia, Viviano Domenici, firma del «Corriere della Sera», che ha voluto guardare dentro questi anni bui. E indagare sui tesori spariti a Bagdad e a Kabul, ritornare dove scavarono anche Agatha Christie e Lawrence d’Arabia, raccontare i Monuments Men conosciuti in decine di spedizioni, intervistare soldati americani in Iraq e studiosi delle mutilazioni archeologiche, per scrivere alla fine Contro la bellezza (Sperling&Kupfer, pp. 288, 19): un viaggio negli scempi d’oggi che si riflettono nelle tragedie della storia. 
Conta poco, dare la colpa a una religione più che a un’altra. L’iconoclastia è una caratteristica di monoteisti e politeisti: Abramo che distruggeva gl’idoli e Mosè col vitello d’oro e Maometto che ripuliva la Ka’ba e gli assiri e i sumeri, indietro nei secoli, che decapitavano più statue dell’Isis. La distruzione delle immagini preislamiche che tanto infervora i nuovi califfi, anche se il Corano non vieta affatto le raffigurazioni («nessun iconoclasta ha mai rifiutato una banconota con l’immagine d’un essere umano — ironizza Domenici — e anche l’Isis non si fa scrupoli a usare immagini per propagandare la sua barbarie»), tutto ciò è casomai «figlio e complice» di lotte per il potere. 
Dalla Mesopotamia all’Egitto, da Roma all’Islam, dai conquistadores alla Rivoluzione francese, dai Saddam abbattuti in Iraq ai Lenin in Ucraina, s’è sempre fatto così. E Domenici spiega che in tutta la storia dell’umanità i vincitori hanno regolarmente cercato d’infliggere «un supplemento di morte» al vinto già ucciso. Prendendo l’immagine del nemico, più spesso della divinità che lo protegge, e umiliandola, ridicolizzandola, esorcizzandola: via il naso e la bocca, perché non respiri, non mangi e non parli più; niente mani, come si fa per i ladri; levate le coppe che brindano al cielo, per annullare il favore di Dio; staccate le teste, da seppellire dove la gente possa calpestarle… Le testimonianze sono migliaia: basta girare fra le chiese rupestri della Cappadodi cia, osservare la Sfinge di Giza e il ritratto di Nefertiti a Berlino, rileggere i dibattiti sinodali sulle icone, magari chiedersi perché il Pantheon a Roma, o Santa Maria sopra Minerva, poggino le fondamenta su resti di templi antichi. A Domenici, una prova di questa violenza politico-religiosa che «si è sempre espressa in forme e metodi che costituiscono un vero contro-linguaggio», apparve lampante quando l’archeologo svedese Nylander lo portò in piazza San Marco e gl’indicò il gruppo dei Tetrarchi sul fianco meridionale della basilica: quattro porfidi rossi ben conservati, ma tutt’e quattro accuratamente privati del naso e scalpellati sulle fibule del mantello, proprio là dov’erano i simboli del loro potere.
L’arte è la persona: se ne sbriciola la memoria per assassinare l’identità, la storia, tutto. E il vandalismo è solo un altro modo d’uccidere, un crimine di guerra che nessun tribunale internazionale processa mai. Per questo, preoccuparsi dei monumenti è come proteggere chi muore sgozzato: lo sapeva Khaled al-Asaad, l’archeologo rimasto a difendere Palmira e decapitato in piazza, musulmano come i suoi carnefici; lo capirono i tolleranti mullah medievali, che non volevano rovinare preziose miniature e, per punire l’idolatria, si limitavano a decapitazioni simboliche, tracciando una sottile linea nera sulla gola delle figure. O il califfo Omar ibn al-Khattab, conquistatore di Gerusalemme, che per prima cosa fece ripulire la sinagoga trasformata in una pattumiera. Alle immagini, nel bene e nel male, non si sottrae alcun potere. E a chi le impone o le distrugge, ci spiega Domenici, s’accompagna di regola «una forza oscura figlia di una visione magico-religiosa sempre pronta a spalancare voragini di orrore». Cambiano i cattivi maestri, non la lezione della storia: «E ora sono in cattedra quelli dell’Isis».

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