mercoledì 18 novembre 2015

La quotidiana infornata di odio


La lezione di Oriana: il diritto di odiare 
18 nov 2015  Libero FRANCESCOBORGONOVO

Lo Stato islamico non aspetta provocazioni: per loro la nostra stessa esistenza è un insulto da lavare nel sangue La Fallaci lo diceva: il politicamente corretto è un suicidio. È necessario reagire per salvare la nostra civiltà 
Succede tutte le volte, dopo ogni attacco, dopo ogni strage. C'è sempre qualcuno di buon cuore che invita a non cedere alla fumante tentazione della rabbia. C'è sempre un bene intenzionato secondo cui all'odio bisogna rispondere con la tranquillità, proseguendo con la propria vita come se niente fosse, altrimenti si rischia di alimentare una spirale senza fine di violenza. 
Non dubitiamo delle oneste intenzioni di chi vuole raffreddare gli animi e si oppone al conflitto. Purtroppo, però, i ripetuti inviti alla prosecuzione della propria esistenza come se nulla fosse accaduto non permettono di vedere con chiarezza la minaccia che ci morde i calcagni. 
I fanatici musulmani responsabili dell'ecatombe di Parigi - e non solo loro - non stanno rispondendo a provocazioni. Non hanno bisogno di essere in qualche modo innescati. Da un certo punto di vista non sono nemmeno terroristi: perché un terrorista colpisce i civili inermi per raggiungere un obiettivo politico, per sovvertire un governo o piegarlo ai propri interessi. Quando al-Qaeda organizzò l'assalto ai treni spagnoli nel 2004, voleva costringere Madrid a ritirare le truppe dall’Iraq, e ci riuscì: fu eletto Zapatero. 
Adesso però abbiamo davanti un nemico diverso, il cui unico obiettivo è quello di sottometterci o di eliminarci fisicamente. La «provocazione», per lo Stato islamico, sta nel fatto che noi esistiamo in quanto europei. Vogliono cancellare la nostra civiltà, e sono disposti a tutto. 
Una reazione pacifica servirebbe soltanto a tramutarci in pecore da condurre al macello. 
Sarà scorretto, sarà sgradevole da dire, ma di fronte ai tagliagole noi dobbiamo rivendicare il nostro diritto all’odio. Vale la pena rileggere quanto scrisse sull'argomento Oriana Fallaci, le cui pagine vengono molto citate in questi giorni, spesso a sproposito. Basta sfogliare il libro Le radici dell'odio, pubblicato poco tempo fa da Rizzoli, per rendersi conto di quanto la grande toscana avesse ragione a proposito di certo islam. «È un nemico che trattiamo da amico», scriveva. «Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell’umanitarismo e dell'asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della “necessità” (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. “Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi”». 
Un nemico che ci odia, appunto. Che ci considera miscredenti da eliminare. A questo nemico non si può rispondere con l'indifferenza. 
Perché già l'indifferenza, agli occhi degli estremisti islamici, è un'offesa. Entrare in un locale per assistere a un concerto rock è un insulto. Cenare in un ristorante e bere vino è un insulto. La nostra vita quotidiana è un insulto. Che il Califfato vuole lavare nel sangue. 
Ecco perché abbiamo il dovere di difenderci, e pure il diritto a odiare i bastardi che ammazzano giovani indifesi al Bataclan. Abbiamo diritto a odiare anche se il politicamente corretto impone il contrario, anche se chi pronuncia parole dure viene denunciato, additato come un criminale. 
Scriveva ancora Oriana: «Può l'odio essere proibito per legge? L'odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d'animo. Non un crimine giuridico. Come l'amore, l'odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vita. È l'opposto dell'amore e quindi, come l'amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l'amore. Non nel giudizio d'un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio». 
Oriana subì un processo per istigazione all'odio. E in questi giorni c'è chi ha chiesto l'intervento della magistratura per sanzionare Libero, colpevole di aver fatto un titolo sgradito ai professionisti del buonismo. È anche a costoro che bisogna ribadire il nostro diritto a odiare gli assassini di Parigi, e tutti i loro predecessori e imitatori. 
«Se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio», scriveva la Fallaci. «Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio (…) i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. (...) E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d'accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell'Istigazione all'Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell'odio hanno costruito la loro ideologia. 
La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali». Già, sarebbe carino scoprire perché odiare i tagliagole non si può, mentre odiare Libero, o la Fallaci o chiunque la pensi diversamente è concesso. Forse perché odiandoci si fa bella figura in società?


Julia Kristeva «Ora è giusto combattere No ai riflessi della mia sinistra»
I giovani a rischio «All’ospedale Cochin vedo i ragazzi tentati dall’integralismo, vanno presi in tempo»intervista di Stefano Montefiori Corriere 18.11.15
«Bisogno di credere - Un punto di vista laico» è un’opera importante pubblicata quasi 10 anni fa (in Italia da Donzelli) da Julia Kristeva, grande personalità — «scrittrice, donna, madre di famiglia e analista, non mi chiami intellettuale» — della cultura europea.
Oggi che il «bisogno di credere» insopprimibile in tanti giovani prende la strada del delirio jihadista, il lavoro di Julia Kristeva resta in primo piano. La scrittrice nata in Bulgaria e francese da mezzo secolo lavora alla «casa degli adolescenti» dell’ospedale Cochin di Parigi per aiutare con i mezzi della cultura e della psicanalisi i ragazzi tentati dall’islamismo.
Intanto, signora Kristeva, come descriverebbe la reazione della società francese in queste ore?
«Posso parlare di quello che vedo, che sento dai miei pazienti, e dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono in questo Paese, e sono passati oltre cinquant’anni, le persone credono nell’unità nazionale. Non quella dei politici ma quella del popolo».
I politici sono divisi?
«Mi sembra che stia accadendo il contrario rispetto ai giorni di Charlie Hebdo. Allora la classe politica era compatta ma i cittadini in difficoltà, alcuni musulmani esitavano per la questione delle caricature del profeta. Oggi i politici continuano a litigare, ma la gente mi sembra più compatta, anche i musulmani si sentono attaccati nel loro essere francesi e reagiscono. Per la prima volta ho sentito dignitari musulmani condannare certi imam che magari non predicano la jihad, ma comunque criticano il modo di vita occidentale, la gioia di amare, cantare, bere. Trovo che sia un buon segno».
Che cosa pensa dell’affermazione di Hollande e del governo? La Francia è davvero in guerra?
«Sì, la guerra è arrivata in Francia, ed è giusto combatterla. Non voglio restare nei riflessi consueti della mia famiglia politica, la sinistra. La guerra non è una cosa da americani, bisogna farla quando è necessario, prendersi la responsabilità della più grande fermezza e anche andare oltre, chiedere conto a Stati come l’Arabia Saudita o il Qatar della ricchezza sospetta dell’Isis. E domandare di più all’Europa, la cui impotenza è scandalosa».
La società francese è pronta?
«Le persone si rendono conto della situazione e sono fiere di essere francesi. Le racconterò questa piccola storia. Io ho imparato la Marsigliese in Bulgaria, e piangevo quando la cantavo perché pensavo che non mi avrebbero mai lasciato andare a conoscere questo popolo. Poi sono venuta in Francia e in cinquant’anni non ho mai pianto cantando la Marsigliese. Adesso, anche davanti alla tv, canto e piango, e come me fanno in tanti. È una svolta nell’opinione pubblica. I politici continueranno pure a litigare, ma la popolazione è sconvolta e unita intorno ai simboli della Repubblica. Ognuno si darà da fare come può».
Quale compito si è data?
«Cercare di interpretare, da laica, il fenomeno spirituale, di non lasciarlo in mano ai pazzi che se ne servono per compiere queste atrocità. I terroristi si servono dell’Islam e bisogna contrastarli su questo terreno, senza reticenze e senza paura di essere accusati di islamofobia. Per sottrarre l’Islam alla strumentalizzazione del terrorismo anche noi occidentali possiamo fare qualcosa, per esempio cambiare l’atteggiamento dell’illuminismo che si è costruito in contrapposizione alla religione e rivalutare il patrimonio spirituale del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam, prenderlo sul serio e preparare i nostri giovani a fare fronte alla propaganda jihadista. Se neghiamo il “bisogno di credere”, la voglia di spiritualità dei ragazzi, li lasciamo in preda ai manipolatori di internet o delle moschee radicali. I giovani hanno bisogno di ideali, e quando sono fragili, senza lavoro e discriminati i loro ideali crollano, il desiderio di amore è inghiottito dal bisogno di vendetta, quel che Freud chiama la pulsione di morte. Dobbiamo rivalutare il patrimonio religioso, insegnarlo nelle scuole, non per inculcare la religione ma per interrogarla, interpretarla, problematizzarla, non lasciarla ai predicatori di morte».
Qual è la sua esperienza con gli adolescenti?
«Il mio insegnamento sul bisogno di credere l’ho trasferito all’ospedale Cochin, dove si curano gli adolescenti in preda all’anoressia, al vandalismo, alle tendenze suicide, e sempre più famiglie mandano ragazzi radicalizzati, tentati dall’islamismo integralista. Non sono ancora partiti per la jihad ma potrebbero farlo un giorno, bisogna prenderli finché siamo ancora in tempo».
Questi ragazzi tentati dall’islamismo radicale hanno una storia comune?
«Ognuno è diverso ma si tratta di famiglie spesso di immigrati di prima o seconda generazione, dove i genitori sono assenti, il padre di solito non c’è e la madre lavora. A scuola vanno abbastanza bene nelle materie scientifiche e male in francese e in generale nelle scienze umane, dove bisogna porsi qualche domanda su se stessi. Alcuni si drogano. Si attaccano a una ideologia mortifera ma che promette loro il paradiso, e risponde al loro bisogno di spiritualità, di ideali. Anche l’Occidente dei Lumi deve preoccuparsi di rispondere a questo bisogno, il nostro umanesimo deve rifondarsi. Io, da psicanalista, cerco di salvare i ragazzi dall’integralismo prima che sia troppo tardi. Gli intellettuali mediatici sono i clown dei politici, non voglio essere accomunata a loro. La guerra purtroppo va fatta. Ma io mi occupo di prevenzione». 

Amos Oz «Ci vuole un piano Marshall ma l’Islam moderato si muova»
Gaza. Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive sarebbe un colpo contro l’Isisintervista di Lorenzo Cremonesi Corriere 18.11.15
«Ho sempre rifiutato in cuor mio e apertamente le teorie del cosiddetto “scontro di civiltà” per il semplice fatto che anche nelle mie esperienze personali e pubbliche ho generalmente trovato che per ogni musulmano violento e fanatico ce ne sono migliaia, anzi, decine di migliaia che non lo sono. Magari sono arrabbiati, offesi, frustrati, ma non sono fanatici e rifiutano la violenza». Parla diretto Amos Oz. Negli ultimi tempi aveva preferito restare zitto. L’avevamo interpellato più volte per un’intervista. Ma lui preferiva declinare. «Sono troppo arrabbiato», diceva. Sta scrivendo un nuovo romanzo (intanto in Italia Feltrinelli a breve pubblicherà il suo primo, l’inedito Altrove, forse). Ma le cronache della strage di Parigi adesso lo stimolano a reagire.
Nel mondo occidentale crescono rabbia e paura, tornano in auge le tesi di Samuel Huntington sullo «scontro di civiltà», i libri di Oriana Fallaci, il romanzo «Sottomissione» di Michel Houellebecq. Domina una domanda: come rapportarci con l’Islam, come difenderci?
«Non sono un pacifista, non lo sono mai stato e certo non lo sono ora di fronte agli ultimi avvenimenti. Non sono mai stato contrario alla necessità che, quando serve, occorre utilizzare il bastone. Però sono profondamente convinto che l’unica forza al mondo davvero capace di combattere e sconfiggere i fanatici musulmani, oltreché aiutare l’Occidente a trovare le difese necessarie, siano i musulmani moderati. Sono loro, prima di tutti, che dovrebbero fare un passo avanti, alzare la voce, scoprire, denunciare i fanatici nei loro quartieri e impugnare il bastone quando necessario».
Anche contro questa ondata di integralismo che va dall’estremo Oriente, al mondo arabo, al cuore delle nostre città in Europa?
«Posso rispondere con una storia personale, la ritengo rilevante, anche se forse l’ho già raccontata?».
Certo.
«Circa un anno fa ero ricoverato all’ospedale per un’operazione. Una sera venne al mio letto un’infermiera, un’araba-palestinese di cittadinanza israeliana. Aveva appena terminato il suo turno di lavoro. Mi chiese se poteva parlarmi. Io le risposi che ne sarei stato ben felice e così lei raccontò qualche cosa che non dimenticherò mai. Mi disse: “Tutto il mondo quasi ogni giorno vede sugli schermi delle televisioni le manifestazioni delle masse arabe che inneggiano alla guerra santa, agitano i pugni lanciando slogan di sfida e violenza, glorificano i kamikaze contro gli infedeli negli Stati Uniti, Israele ed Europa. Vogliono essere gli unici rappresentanti dell’universo islamico. Ma, chiunque osservi con attenzione, noterà che sono praticamente solo uomini, per lo più giovani di età compresa tra i sedici e trent’anni. Sono solo una piccola parte della popolazione. Gli altri, la maggioranza, se ne restano chiusi in casa, passivi, impauriti, dietro le finestre serrate. Non li vedi mai per il semplice fatto che non sono visibili. Però, per favore, ricordati di loro, perché loro sono la vera maggioranza”. Così mi disse quell’infermiera. E da allora io spero che proprio loro scendano in piazza a manifestare contro gli altri».
Dove questa maggioranza silenziosa potrebbe essere più rilevante?
«Penso alla Turchia, alla Tunisia, alla Giordania, all’Egitto, al Pakistan, all’Indonesia. Ma in realtà esiste dovunque per il semplice fatto che va compreso che questa, prima che essere una guerra contro l’Europa e l’Occidente, è una guerra interna all’Islam, per il suo cuore, è un conflitto sul significato e l’identità musulmani. L’Europa, gli Stati Uniti e gli altri partner coinvolti possono aiutare gli elementi più aperti e moderati. Ma lo sforzo maggiore devono farlo loro, il loro futuro è nelle loro mani».
In termini pratici, cosa significa guerra per il cuore dell’Islam?
«La grande maggioranza dei musulmani non sono Isis. Come non sono neppure Hamas, o Hezbollah, o Al Qaeda, o Al Nusra. La maggioranza deve insistere sui suoi valori, sull’imporli nelle scuole, nelle moschee».
Resta il fatto che in Europa cresce la paura dell’Islam, specie dopo l’ultimo attentato. Che fare? Al momento tra Russia e America si discute se il presidente siriano Bashar Assad debba essere parte della soluzione o meno.
«La questione non è “che fare” contro l’Islam, ma contro i fanatici islamici, che non è la stessa cosa. Io non sono abbastanza esperto sulla Siria. Non so giudicare se Assad debba restare, almeno temporaneamente, oppure venire dimesso subito. Però in questi giorni pochi ricordano il caso di un piccolo Paese arabo del Nord Africa come la Tunisia. Sarebbe invece bene tenere a mente che in Tunisia la parte moderata religiosa e laica della popolazione in ben tre tornate elettorali ha sconfitto il fronte estremista islamico. Perché l’Europa non fa uno sforzo per aiutare economicamente, politicamente e in ogni altro modo a fare della Tunisia un grande modello? Perché non farne un esempio di Islam illuminato che sia ammirato e invidiato dai Paesi vicini? Lo stesso si potrebbe dire della Giordania, dove, lo so bene, la democrazia è meno avanzata, però resta un polo di moderazione».
Giordania e Tunisia modelli di cooperazione con l’Europa?
«È un inizio, mostra la strada. Mi lasci dire che non sono un seguace della filosofia del porgere l’altra guancia quando sei aggredito. In particolare, mai farlo con i fanatici. Non ci credo. Però sono anche convinto che il bastone da solo non funzioni. Non puoi curare una ferita a suon di bastonate. Se picchi soltanto, la ferita non fa che diventare più larga e profonda. Non ha senso bastonare tutto il mondo islamico in quanto tale. Penso per esempio alla striscia di Gaza. Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive sarebbe un colpo grosso contro Isis e gli altri fanatici che vorrebbero speculare sulla povertà e il malcontento».
Come?
«Quasi settant’anni fa un presidente americano poco carismatico e molto modesto quale era Harry Truman decise che sarebbe stato importante donare una cifra pari a circa il venti per cento del prodotto nazionale lordo del suo Paese per la ricostruzione dell’Europa devastata dalla guerra. Poi passò alla storia come “piano Marshall”, dal nome del suo segretario di Stato. Ma fu lui il motore primo. Truman fece il miglior investimento di tutti i tempi: la Guerra fredda è stata vinta dagli Usa grazie ad esso. Lui non visse tanto a lungo per vedere il suo trionfo. Però, garantì la democrazia, salvò l’Europa dai comunisti, dagli estremisti, ne fece un modello di sviluppo invidiato in tutto il mondo, creò un grande mercato utile anche all’industria americana. A noi oggi serve un gigante di generosità e capacità di guardare avanti come fu Truman. Ci vorrebbe un piano Truman-Marshall per il mondo islamico che dia forza e coraggio ai moderati. Solo così il bastone della guerra ai fanatici potrà avere prospettive di successo».
“Colpe dentro l’Islam” Il mondo musulmano supera il complottismo
Ma c’è chi continua ad accusare Stati Uniti e Israeledi Francesca Paci La Stampa 18.11.15
E i musulmani che dicono? La domanda che torna dopo ogni strage commessa in nome dell’islam è la chiave di volta di un rapporto che se a 14 anni dalle Torri Gemelle non è degenerato in scontro delle civiltà ha però visto ergersi montagne tra l’occidente e la umma. Le risposte sono mille, ogni Paese ha una storia: ma quasi ovunque alla dietrologia standard (l’islam non c’entra, il terrorismo è made in Usa o Israele) si è sostituito un dibattito (mentre in Occidente il complottismo pare in ascesa).
«No a chi uccide per l’Islam»
«Diversamente dal passato arabi e musulmani hanno preso chiaramente le distanze dagli attacchi di Parigi, molti hanno aggiunto i colori francesi ai loro profili web» dice da Amman l’editorialista di «al Monitor» Daoud Kuttab. Il suo Paese divide un confine esplosivo con la Siria: «I giordani sono perplessi ma non sentono di doversi difendere a riccio come dopo l’11 settembre. Oggi è tutto più chiaro, 2000 loro connazionali si sono arruolati con l’Isis».
La storia insegna, concorda Osama al Saghir, deputato di Ennahda, i Fratelli Musulmani tunisini: «Il terrorismo ci unisce, il Bardo, Sousse, Parigi. L’Occidente deve replicare militarmente ma non basta: serve un aiuto economico forte a chi come la Tunisia tenta la via democratica perché avallare la repressione stile Egitto fornisce nuove reclute all’Isis. Anche i musulmani hanno sbagliato cullandosi nel complottismo. Ora capiamo che sebbene il problema non sia l’islam ci sono musulmani che uccidono in quanto tali. Sì, qualcuno dirà ancora che sono pilotati, ma abbiamo meno paura di condannare chi ammazza in nostro nome».
In Egitto, dal 2011 alter ego della Tunisia, è più complesso: i filo Sisi e gli ex nasseriani sono alleati dell’Occidente (e di Putin) contro l’Isis ma su Parigi obiettano «Chi ha creato l’Isis se non gli Usa?»; i Fratelli della vecchia generazione condannano per accreditarsi come i veri democratici, i ragazzi di Tahrir esclusi dal duo generali-islamisti chiedono «boots on the ground» in Siria e piangono «senza ma» le vittime di Parigi tra cui due di loro, Salah el Gebali e Lamia Mondegeur.
«Vittime di serie A e B»
In Libia e Siria, dove la guerra è routine, l’umore è contrastato. «Molti libici giudicano ipocrita l’Occidente che da un lato tratta i terroristi per quel che sono e dall’altro vorrebbe che noi dialogassimo con Ansar al Sharia e altri jihadisti per la riconciliazione nazionale», osserva da Bengasi un attivista anti-Gheddafi. Un suo coetaneo siriano, Rifaie Tammas, è emigrato in Australia per evitare la morsa Assad-Isis: «È triste che di fronte ai morti di Parigi ci sia chi accusa l’islam per i crimini di un musulmano estremista e chi li “scusa” alla luce delle ingiustizie subite dai musulmani nel mondo. Io prego per le vittime di Parigi, Beirut, Turchia, Yemen e Siria». I siriani rifiutano «l’omaggio» dei terroristi alla loro causa ma, nota Sima Abbed Rabboh, si sentono soli: «Stringiamo Parigi ma certe vite contano più di altre. Le nostre sono state decimate da Assad che ora, causa Isis, è alleato dell’Occidente. Fin quando sosterrete i nostri dittatori per la vostra sicurezza?»
Poi ci sono i fronti critici e non solo allo stadio dove i tifosi bosniaci di Bosnia-Irlanda hanno fischiato il minuto di silenzio per le vittime di venerdì urlando ««Palestina». C’è il Libano che, spiega il capo degli esteri di «Assafir» Khalil Harb, non ha gradito il doppio standard sulle stragi di Parigi e di Beirut (nella zona di Hezbollah, filo Assad e in guerra contro l’Isis): «I libanesi, tranne i radicali, stanno con la Francia. Ma molti sono arrabbiati perché nessuno ha cambiato il profilo Facebook in sostegno di Beirut».
E c’è l’Arabia Saudita, pilastro americano (e occidentale) ma anche da trent’anni epicentro della versione più radicale dell’islam che predica oggi in Europa. Samar Fatany è una columnist del «Saudi Gazette», una paladina delle donne: «Dietro gli attentati di Parigi c’è un potere forte. È come l’11 settembre: ormai sappiamo che è stato fatto per colpire i musulmani». A cercare il burattinaio dell’Isis c’è anche l’Iran che ci vede Riad... «È folle. Ci sono video illuminanti su chi sia dietro il complotto che va oltre la Siria». E a corollario ne manda due che parlano di Cia e Mossad. 

Netanyahu prende la palla al balzo: colonie e pugno duro con gli islamisti
Israele/Territori occupati. Dopo gli attentati a Parigi il premier israeliano ha annunciato la messa fuori legge del braccio settentrionale del Movimento islamico e dato il via libera a nuove costruzioni in due colonie.di Michele Giorgio il manifesto 18.11.15
GERUSALEMME  Il governo Netanyahu spinge sull’acceleratore, sfruttando il clima di paura e ancora più islamofobo e anti-arabo che regna in Europa e in Occidente dopo i sanguinosi attentati di Daesh a Parigi. È stato immediato il rilancio della colonizzazione e del pugno di ferro contro i palestinesi, anche quelli con cittadinanza israeliana. Politiche non nuove che l’esecutivo di destra spiega come una risposta al terrorismo jihadista. Ieri il premier e i ministri della difesa Moshe Yaalon e della sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato la messa fuori legge del braccio settentrionale del Movimento islamico in Israele che, ha detto lo stesso Netanyahu, «incita alla violenza contro cittadini innocenti, mantiene legami con Hamas, mina alla base l’esistenza di Israele per sostituirlo con un Califfato islamico». Un “pericolo” che, a quanto pare, il primo ministro pensa di arginare procedendo a una ulteriore espansione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est. Due giorni fa, ha riferito il giornale Haaretz, ha autorizzato la commercializzazione di terreni per la costruzione di nuove case in due colonie ebraiche: 436 unità a Ramat Shlomo, 18 a Ramot.
Il ministro Erdan sostiene che gli islamisti hanno «fomentato violenze e atti di terrorismo». Accuse che al movimento islamico israeliano del Nord (più radicale, esiste anche una frazione meridionale più integrata nel Paese) sono rivolte da anni. Però non sono state provate dalla magistratura ordinaria. Tanto è vero che per proclamare la sua messa fuori legge il governo ha dovuto far ricorso ai poteri eccezionali del 1948 attribuiti al ministro della difesa. Erdan, che ama sempre dire ciò che pensa e programma, ha messo in collegamento il colpo sferrato agli islamisti israeliani con le stragi di Parigi. «Israele – ha commentato – ha scelto di essere in prima linea nella lotta contro l’Islam radicale i cui emissari hanno fatto strage di innocenti a New York, Parigi, Madrid e in Israele. Il Movimento Islamico, l’Isis, Hamas hanno la stessa ideologia che fomenta attentati ovunque e terrorismo in Israele… Per noi è giunto il momento di utilizzare i mezzi a nostra disposizione nella guerra contro il terrorismo».
In realtà il provvedimento è l’ultimo atto di un conflitto aperto che va avanti da tempo e che si è riacutizzato negli ultimi mesi, in particolare con il leader del movimento islamico Raed Salah, da anni attivo nel promuovere “comitati di difesa” della Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Per le autorità israeliane Salah – che tra qualche giorno andrà in carcere per scontare una pena inflittagli il mese scorso per “incitamento” — diffonderebbe menzogne su una presunta intenzione del governo di violare lo status quo sulla Spianata e spingerebbe alla sollevazione i fedeli musulmani. Già qualche mese fa, il governo aveva proclamato l’illegalità dei movimenti Murabitoun e Murabitat, uomini e donne che su incarico del movimento islamico organizzavano proteste nella città vecchia di Gerusalemme contro gli ultranazionalisti israeliani che andavano sulla Spianata. Le attività del movimento ora sono vietate e nella notte tra lunedì e martedì la polizia ha chiuso 17 sue istituzioni, ha congelato i suoi conti bancari, sequestrato file, computer e fondi in 13 uffici, in particolare nella città di Umm el Fahem, la roccaforte islamista dalla fine degli anni Ottanta. Il provvedimento permetterà al governo anche di confiscare terre e immobili del gruppo islamico.
La messa fuori legge del movimento di Raed Salah viene letta dai palestinesi d’Israele come un attacco a tutta la minoranza araba, dai comunisti fino agli islamisti. Una mossa che, affermano, potrebbe preludere a nuove misure contro i cittadini arabi e le loro istituzioni. Il governo Netanyahu ha oltrepassato una ”linea rossa” ha spiegato Mohammed Barake un dirigente politico della comunità palestinese in Israele, ricordando che il movimento islamico da decenni svolge una intensa attività sociale a sostegno dei più poveri ed emarginati. I palestinesi d’Israele hanno proclamato per domani uno sciopero generale di protesta in tutti i centri abitati arabi.
Intanto ieri sera un palestinese, Mohammed Saleh, è rimasto ucciso, pare in uno scontro a fuoco con soldati israeliani, vicino a Turmus Ayya (Ramallah). 

“A Parigi solo il primo atto di un piano per portare il caos e piegare l’Europa”
L’analista Schanzer: vogliono spingere la gente a rinchiudersi in casadi Maurizio Molinari La Stampa 18.11.15
«Lo Stato Islamico persegue il caos in Europa ma cambia tattica al fine di riuscire a sorprendere le forze di sicurezza»: così Jonathan Schanzer, ex analista di anti-terrorismo del Dipartimento del Tesoro Usa ed autore del libro «L’esercito di Al Qaeda», legge le notizie che arrivano da Hannover sullo stadio evacuato nel timore di un possibile attentato esplosivo.
Dopo Parigi ora Hannover, perché a suo avviso Isis punta a colpire gli stadi?
«Isis segue una strategia chiara nella guerra all’Europa ma modifica la tattica delle operazioni».
Quale è la strategia?
«Provocare il caos. L’intenzione è diffondere il panico nei Paesi dell’Unione Europea ed anche oltre. Per questo gli obiettivi sono luoghi civili molto affollati. Vogliono terrorizzare le persone fino al punto da obbligarle a rinchiudersi in casa. Come i jihadisti stessi affermano in un video recente, l’obiettivo è “mettergli paura perfino quando vanno al mercato”».
In cosa consistono i cambiamenti di tattica?
«A Parigi l’attacco allo stadio è avvenuto con un commandos di kamikaze che hanno tentato di entrare, l’arma erano i corpetti esplosivi, ad Hannover il sospetto è che abbiano tentato di adoperare un’autobomba. L’obiettivo resta lo stadio, ma lo strumento cambia. È un modo per evadere le contromisure, tentare di mantenere l’effetto sorpresa. La polizia si aspetta un kamikaze? Allora meglio adoperare un’auto imbottita di esplosivo».
Questo che cosa implica riguardo al metodo di operare delle diverse cellule dello Stato Islamico?
«Implica l’esistenza di una regia centrale solida, della distribuzione delle comunicazioni in maniera efficiente anche a grande distanza e della presenza sul territorio di cellule, locali o foreign fighters, che conoscono bene il territorio dell’attacco. Sono in grado di muoversi in fretta, realizzando piani di tipo molto diversi. Sotto tali aspetti, Isis sta dimostrando di essere un’organizzazione terroristica assai duttile».
A suo avviso, che tipo di campagna ha in mente Isis per l’Europa?
«Basta leggere cosa scrivono i suoi affiliati sugli account twitter come su altri social network per rendersene conto. Non nascondono nulla. L’intenzione è di condurre una campagna sanguinosa ma di lungo termine, realizzando altri attacchi in luoghi diversi, distanti, per esportare il caos. Isis ha iniziato l’attacco all’Europa con l’intenzione di dare seguito al massacro di Parigi. Siamo alla fase iniziale della “tempesta” che affermano di aver iniziato». 

La nuova «santa alleanza»
di Alberto Negri Il Sole 18.11.15
Come già avvenne a Parigi 200 anni fa, nel 1815, nasce una sorta di nuova “santa alleanza” contro il Califfato: russi e francesi bombardano insieme Raqqa e le postazioni dell’Isis. Kissinger sosteneva che in Medio Oriente non fosse possibile “fare la guerra senza l’Egitto e la pace senza la Siria”. Oggi si potrebbe dire che in Siria non si può fare la guerra al Califfato senza la Russia e l’Iran, due Paesi sotto sanzioni in attesa fremente di essere sdoganati. Ma di fronte all’emergenza di un conflitto in cui gli americani hanno ribadito che non vogliono mettere gli stivali sul terreno, così come del resto gli altri esitanti alleati europei della Francia, il presidente Hollande si è rivolto a Putin che incontrerà, due giorni dopo Obama, il 26 novembre a Mosca.
Il mondo improvvisamente cambia quando si devono impugnare le armi.Hollande ha avuto un colloquio telefonico anche con Hassan Rohani che aveva annullato la sua visita in Francia a seguito degli attentati di Parigi. «L’Iran è pronto ad assumere qualunque iniziativa, anche a una cooperazione di intelligence con la Francia, contro i terroristi», ha dichiarato il presidente iraniano.Teheran ha colto così al volo l’occasione di dare una mano al Paese occidentale che pur di concludere lucrosi contratti militari con l’Arabia Saudita (aerei e centrali atomiche) aveva posto i maggiori ostacoli alla firma dell’accordo sul nucleare con l’Iran, l’incubo di Riad e delle monarchie del Golfo. Ma gli iraniani, amanti veraci della realpolitik, non serbano inutili rancori: sono a un passo dalla cancellazione delle sanzioni, la guerra al Califfato pesa per le perdite umane e finanziarie e loro stanno per rientrare nel grande giro internazionale.
Un po’ meno flessibile è Assad che sulla cooperazione nell’intelligence ricatta la Francia, che alleandosi con la Turchia e i sauditi del resto lo voleva morto già nel 2011. Le petromonarchie del Golfo si mangiano le unghie: in Siria la loro guerra per procura contro Teheran, maggiore alleato di Damasco, rischia di naufragare come quasi tutti i tentativi ostili alla Repubblica islamica. Finanziando il raìs iracheno con 50 miliardi di dollari, pensavano di far fuori gli ayatollah in poche settimane, lo stesso calcolo sbagliato che hanno fatto con Assad: il risultato allora furono otto anni di stragi e un milione di morti.
Entrando direttamente in guerra in Siria, Putin ha fatto la mossa del cavallo spiazzando tutti. La presenza militare russa aveva provocato sconquassi nelle cancellerie occidentali, mentre sollevavano minori inquietudini le nefandezze dell’Isis e dei qaedisti di Jabhat Nusra. Mosca aveva tentato di coinvolgere Oba ma nella sua campagna anti-Califfato rilanciando l’idea di una coalizione internazionale anti-terrorismo. Respinta allora al mittente questa coalizione sta diventando una realtà. La Duma ha chiesto di formare un fronte anti-terrorismo simile a quello anti-Hitler: Raqqa, nei bollettini militari di Mosca, ormai è quasi come Stalingrado e Putin, bollato come il macellaio dell’Ucraina, è diventato l’alfiere di una guerra di civiltà. Come cambia il mondo 


Strategia del caos made in Usa
Guerra e media. La strategia è disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza
Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Ma qualcosa ormai è sfuggita di mano
di Carlo Freccero e Daniela Strumia il manifesto 18.11.15
Usciamo da una total immersion mediatica nei fatti di Parigi e la prima impressione non è buona: un misto tra retorica, buoni sentimenti, privato delle vittime, ma anche un appello ai nostri istinti peggiori. Hollande chiama l’Europa ad una guerra di religione. L’immagine del mussulmano sanguinario svolge oggi nell’immaginario collettivo europeo lo stesso ruolo che ai tempi del fascismo era interpretato dall’Ebreo. Dall’antisemitismo all’antislamismo in nome dei valori della cultura occidentale: democrazia, libertà, giustizia. Ed intanto questi stessi valori sono già sacrificati sull’altare della sicurezza.
Per la prima volta nella sua storia la Francia sospende per tre mesi libertà essenziali in nome di quello stato di eccezione che la guerra porta con sé. Siamo in guerra e ne siamo le vittime. Perché l’attacco di Parigi viene percepito da tutti come una provocazione dell’Islam nei nostri confronti, non come una risposta ai bombardamenti francesi in Siria? I media non fanno che rafforzare nell’opinione pubblica la sindrome della vittima innocente, perché ci hanno sistematicamente taciuto le premesse che ci hanno portato sin qui. Oppure se ne hanno parlato, sterilizzandone però le conseguenze reali.
La prima guerra del Golfo è stata un puro videogioco, con quei bombardamenti scientifici e coreografici capaci di schivare rigorosamente i civili per colpire unicamente i collaboratori del barbaro dittatore. I droni di Obama, sono oggi capaci di uccidere selettivamente i terroristi identificandoli all’interno della popolazione civile. Ed infine chi potrebbe condannare il bombardamento giusto e sacrosanto di quegli incivili dell’Isis che sgozzano il nemico, riducono in schiavitù le donne ed applicano la Sharia sfortunatamente grazie ai finanziamenti dell’Occidente e dei suoi alleati? La Fallaci aveva previsto tutto, finanziamenti occidentali a parte.
Comunque vogliamo valutare lo stato delle cose in atto, siamo di fronte ad una tragedia, un evento epocale come quell’11 settembre, che ha cambiato definitivamente la nostra percezione delle cose, traghettando il nostro immaginario dall’edonismo tardo reaganiano del consumismo, all’economia di guerra e di crisi di oggi. Una frattura profonda nella nostra percezione della realtà, il passaggio dall’ambiente amichevole dell’emporio alla paranoia dell’insicurezza permanente.
Un evento così meritava rispetto, inchieste rigorose, ricerche delle cause. Invece, almeno in televisione ha prevalso un genere consolidato di successo: la mozione degli affetti, la cronaca come spettacolo atto a colpire la pancia e non la testa degli spettatori. La cosa peggiore non sono stati i talk show, ma i telegiornali. Un talk show fa il suo mestiere per raccogliere audience. E poco importa se al delitto di Cogne si sostituisce la strage di Parigi. Dai telegiornali ci aspettiamo sobrietà ed informazione. Ed abbiamo assistito invece alla generale “talkshowzizzazione” dei telegiornali, tutti tesi a drammatizzare emotivamente gli eventi. I truci terroristi contro la vittima italiana, volontaria di Emergency, con alle spalle una storia esemplare di impegno personale. Tutto vero, ma marginale rispetto alla domanda fondamentale: perché è successo tutto questo? Pensavamo che i giornali potessero fare di più.
Leggiamo (ieri) sul manifesto un articolo di Balibar, che, per quelli della mia generazione rappresenta un punto di riferimento. Una testimonianza che non chiarisce. E’ un appello ai buoni sentimenti, non cedere all’odio, preservare la nostra libertà. Balibar sostiene che il male di oggi affonda le sue radici lontano, dagli imperi coloniali in poi. Non si coglie il punto inedito: la guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché affonda le sue radici nel caos.
Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. E’ una ben precisa strategia bellica. Pensiamo ai “teocon” e alle loro pretese di instaurare un secolo americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq, è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam.
Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos. Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella salvaguardia dei diritti umani.
Tutto questo era moralmente accettabile perché giustificato da ideali e da principi. E perché avveniva altrove. Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. E’ normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi.
Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: «l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano».
Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga? 

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