martedì 10 novembre 2015

L'architettura nella ricostruzione italiana del secondo dopoguerra

Architetture nell’Italia della ricostruzione
Carlo Melograni: Architetture nell’Italia della ricostruzione. Modernità versus modernizzazione 1945-1960, Quodlibet pagg. 438, euro 28

Risvolto
Il quindicennio della ricostruzione postbellica è stato segnato, tra i tanti avvenimenti, dalla rinascita dell’architettura e urbanistica italiane che, sebbene avessero prosperato anche tra i due conflitti mondiali, si arricchirono ulteriormente di nuove componenti e varianti grazie a un più libero confronto con le esperienze internazionali. Il testo di Carlo Melograni, testimone diretto di quegli avvenimenti, è quanto di più distante da uno stile manualistico o storicistico: è infatti un saggio, forse l’unica forma letteraria in grado di restituire quel singolare crogiuolo di esperienze architettoniche senza precedenti, probabilmente irripetibili, del dopoguerra italiano che ha prodotto modelli fondamentali per l’edilizia sociale e industriale, la museografia,
le infrastrutture e il restauro. Nel novero di tali esperienze vanno infatti ricordate anche le corpose riflessioni critiche e i commenti sollecitati e pubblicati dalle riviste di settore («Urbanistica» di Adriano Olivetti e Giovanni Astengo, «Metron» e «L’architettura. Cronache e storia» di Bruno Zevi, «La casa», «Zodiac» o la «Domus» di Gio Ponti e la «Casabella» di Ernesto Nathan Rogers), nonché le polemiche culturali e politiche comparse sulla stampa generalista.
Inoltre l’autore, nelle pieghe del suo discorso, periodicamente porta in primo piano alcune figure – che ha avuto modo di conoscere di persona grazie anche alle numerosissime occasioni di confronto pubblico, oggi ridottesi drasticamente –, donando così una serie di ritratti dal vero dei principali architetti protagonisti di quegli anni, da Franco Albini a Marco Zanuso. Il volume si chiude con una riflessione sulla condizione attuale, distinguendo nettamente il concetto di modernizzazione da quello di modernità che è «l’unità nella diversità a cui esortava Gropius; unità di obiettivi comuni da raggiungere, diversità di soluzioni proposte da mettere a confronto. È la linea da seguire, anche se presenta l’inquietudine delle incertezze, mentre la modernizzazione ostenta sicurezza di sé. Dal confronto tra esperienze diverse, però ugualmente rivolte a perseguire obiettivi condivisi, si ricaveranno indicazioni che sarà possibile dare per scontate e sottintese, presupposti per formare una cultura progettuale comune fra coloro che fanno il mestiere di costruire. Al contrario dell’esibizionismo individuale, il lavoro di paziente ricerca collettiva è tipico della modernità».


GIUSEPPE MATARAZZO Avvenire 18 dicembre 2015

“La mia filosofia anti-archistar” 
Parla Carlo Melograni, storico progettista, militante contro la speculazione “Oggi non si aspira alla modernità ma all’ultima moda, tralasciando le città”

FRANCESCO ERBANI
Per essere autenticamente moderna, l’architettura deve comunque concorrere a rendere migliori le condizioni dell’abitare ». Aggiunto che l’abitare non è relativo solo alla casa, ma a come ci si arriva, alle scuole, alle biblioteche, agli spazi verdi, ai servizi collettivi che le stanno intorno, è in poche parole che si racchiude la filosofia anti-archistar di Carlo Melograni. 91 anni, a lungo professore, poi preside


di facoltà, progettista e, negli anni Cinquanta, militante contro la speculazione che fece di Roma una capitale corrotta rendendo infetta l’intera nazione, Melograni ha raccolto in un volume la testimonianza di ciò che accadde fra la fine della guerra e il 1960 ( Architetture nell’Italia della ricostruzione, Quodlibet). Ma non è la sua solo una ricostruzione storica. La storia c’è, però, come recita il sottotitolo, il filo che tiene insieme tante vicende e che poi si allunga oltre il 1960, arrivando a noi e affacciandosi oltre, è il conflitto modernità versus modernizzazione. Un conflitto che investe l’architettura, ma non solo.
La modernizzazione «è agguerrita e aggressiva». Si fa forte dell’idea che la velocità delle trasformazioni è tale da rendere difficoltoso se non impossibile regolare queste ultime. Per cui non ci sarebbe altro da fare se non «interventi episodici, esageratamente appariscenti e spettacolari, malamente componibili in un disegno urbano, stupefacenti molto più che contrassegnati dalla loro utilità». La modernità, invece, «è portatrice di un modello sociale avanzato», usa le innovazioni tecnologiche per rendere «sempre meno disuguali le opportunità e le condizioni di vita».
Melograni è seduto davanti a una libreria componibile di fabbricazione svedese. È importante per i suoi ragionamenti, e infatti è da qui che muove questa chiacchierata. «Nel dopoguerra », esordisce, «il design industriale procedeva in maniera spedita producendo oggetti fatti di elementi componibili. Erano economici e accessibili. L’arredo si semplificava, mettendo ai margini l’imitazione dell’antico».
Le librerie svedesi, appunto.
Ma l’architettura?
«Il sistema coinvolgeva anche l’architettura. Si potevano progettare edifici partendo da elementi che si combinavano. Però anche la città si poteva costruire in questo modo».
La città? E come?
«Le Corbusier inventò modelli di tipi edilizi che potevano essere combinati fra loro adattandosi ogni volta alle diverse situazioni. Se alloggi e complessi edilizi sono composti di pezzi da montare, anche l’aggregato urbano diventa una machine à habiter, spiegava Le Corbusier. O, per usare un’espressione derivata dal Bauhaus, occorreva progettare seguendo un unico criterio “dal cucchiaio alla città”».
Ma così non si rischiava una noiosa uniformità?
«La varietà si ottiene con le tante combinazioni di elementi uniformi».
Questo sistema fu applicato anche in Italia?
«Molto meno che altrove in Europa. Tuttavia da noi ci s’impegnò per costruire case e quartieri per i ceti più deboli».
In Italia quali furono le soluzioni migliori?
«Il QT8, il quartiere realizzato a Milano dal gruppo di Piero Bottoni, con al centro il Monte Stella, una collina artificiale formata dalle macerie di edifici bombardati… ».
Il Monte Stella che, secondo la denuncia di molti, rischia ora di essere stravolto. E poi?
«L’intervento dell’Ina-Casa di via Harrar, sempre a Milano, progettato da Gio Ponti, Luigi Figini e Gino Pollini, e il complesso di via Feltre; a Genova, ancora dell’Ina-Casa, il quartiere Bernabò- Brea; a Roma l’unità d’abitazione orizzontale al Tuscolano e il Villaggio Olimpico. Purtroppo è rimasto un disegno sulla carta il progetto per i dipendenti dell’Anic a Gela. Poi, negli anni Sessanta, il quartiere Matteotti a Terni, progettato da Giancarlo De Carlo».
Lei cita il Tuscolano, ma non il Tiburtino, dove pure lavorò come progettista. Perché? «Lavorai in un gruppo coordinato da Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Ma non rimasi soddisfatto. Lo stesso Quaroni disse che “nella spinta verso la città, ci si è fermati al paese”».
Lei avanza molte critiche ai quartieri Ina-Casa, dove pure si realizzarono 350 mila alloggi, uno sforzo gigantesco per l’Italia del 1949. Quartieri che, oggi, sommersi da edifici di speculazione, conservano una spiccata personalità. Che cosa non le piaceva?
«Mentre già nell’Europa fra le due guerre i quartieri operai furono concepiti come elementi di una moderna organizzazione urbana, da noi si sono riprendevano forme simili a quelle di borghi e paesi. Si credeva di renderli più accoglienti per coloro che arrivavano in città dalle campagne. Si badò più alla loro cultura d’origine che a integrarli nell’ambiente urbano. E invece un progetto deve sempre guardare al futuro».
Complessivamente, però, quella stagione dell’architettura fu segnata da una forte tensione sociale. O no?
«Certamente. Quella tensione durò fino alla metà degli anni Cinquanta, per allentarsi nel decennio successivo».
Che cosa cambiò?
«Il miracolo economico modificò la committenza, che diventò prevalentemente privata. Venne meno il lavoro di gruppo e ci si concentrò sulle individualità. Il critico inglese Reyner Banham, contestando questo rinnovato protagonismo, ammonì che la ritirata dal moderno avrebbe portato il genere umano a liberarsi degli architetti come un tempo si liberò di stregoni e di fabbricanti di pioggia».
Anni fa lei scrisse un libro intitolato “Progettare per chi va in tram”. Che bilancio traccia di quell’architettura così aderente ai bisogni dei più deboli?
«Positivo, soprattutto se si guarda all’oggi. Oggi si è smarrita ogni idea sulla città. I partiti non sanno neanche che cosa sia».
Eppure il disagio abitativo è tornato a essere drammatico.
«Prevale la bizzarria competitiva, come l’ha definita Vittorio Gregotti. E invece, “essere architetto vuol dire pensare la città come fine di ogni fatto progettuale”, sosteneva Giovanni Michelucci. Siamo un paese che non aspira alla modernità, ma all’ultima moda».
E quindi prevalgono i modernizzatori.
«Sì, quelli per i quali le regole da abolire non sono mai troppe. E che si concentrano sulle Grandi Opere. Tutto questo accade mentre nelle nostre città si sono costruite e si costruiscono periferie tra le peggiori d’Europa e la forbice tra le poche opere d’eccezione e l’invadente, scorretta edilizia corrente non si è ristretta, semmai si è allargata».
E allora?
«Credo che per la cultura architettonica italiana uscire da una tale contraddizione sia la questione centrale e più urgente».

Abitare in un pastiche 
Incroci di città. In «Architetture nell’Italia della ricostruzione», uscito per Quodlibet, Carlo Melograni indaga la frattura endemica tra urbanistica e luoghi del vivere comune. La sperimentazione dei modelli dell’edilizia sociale e industriale del dopoguerra è stata, in sostanza, un’occasione perduta
Maurizio Giufrè Manifesto 8.4.2016, 0:03 
Sulla storia dell’architettura italiana del secondo Novecento si sono concentrati negli ultimi anni gli interessi di molti studiosi che hanno approfondito e riordinato sotto una diversa prospettiva, vicende e figure trascurate dalle precedenti narrazioni. L’elenco sarebbe lungo ma pochi sono i casi di racconti scritti da chi è stato anche protagonista delle vicende narrate.
Tra questi c’è Carlo Melograni che nel suo ultimo saggio, Architetture nell’Italia della ricostruzione (Quodlibet, pp.438, euro 28) illustra il ruolo giocato dalla cultura progettuale, con i suoi «equivoci, difetti, errori», nel decennio che vede il paese «devastato e immiserito» risollevarsi con il miracolo economico. Si accennava, dunque, al suo ruolo da protagonista. Melograni si laurea nel 1950 e inizia a esercitare il mestiere di architetto proprio all’indomani della fine della guerra, mentre nel 1959 si avvia alla sua attività di docente universitario, un anno prima della conclusione della ricostruzione secondo il termine post quem da lui stesso indicato nel sottotitolo: «Modernità versus modernizzazione, 1945 -1960».
Nel mezzo di questo arco di tempo si verifica il segnale più rilevante del cambiamento: il passaggio da una «ricerca collettiva con obiettivi comuni» a una che vede «l’accrescersi dell’ambizione di caratterizzare le singole individualità». Della prima ne avevamo avuta un’onesta esposizione nel suo precedente saggio (Architettura italiana sotto il fascismo, Bollati Boringhieri, 2008) alla quale dobbiamo collegarci per comprendere la seconda. Per molti architetti, infatti, è durante la ricostruzione che matura la ricerca che si svolgerà individualmente rispetto a quella di gruppo intrapresa nel Ventennio fascista oppure, come accadde per i più anziani di loro, la conservazione delle rendite di posizione appena scalfite dopo la Liberazione. 
Memoria e propaganda
Il saggio inizia dalle architetture che tramandano «la memoria del martirio»: a Roma il Mausoleo alle Fosse Ardeatine di Perugini e a Milano, nel cimitero monumentale, il Memoriale dei morti nei campi di sterminio dei Bbpr. «L’urgenza del presente» coincide con la necessità di estendere e consolidare, nell’entusiasmo della riconquistata libertà democratica, i valori del Movimento Moderno. Le traduzioni degli scritti di Pevsner, Wright o Giedion, i saggi di Argan, De Carlo o Zevi servono a ristabilire quella «continuità» di cui si farà principale artefice Ernesto N. Rogers sulle pagine di Casabella ricollegandosi alle più qualificate esperienze della modernità in Europa soprattutto nell’ambito dell’abitazione e dell’urbanistica.
Per dare risposte convincenti sul piano tecnico, estetico e sociale si confrontano tra Milano e Roma due gruppi: il Movimento di Studi per l’Architettura (Msa) e l’Associazione per l’Architettura Organica (Apao). Il dibattito di quegli anni è ripercorso da Melograni con scrupolo. Coglie, con le dovute distinzioni, tra chi guarda ancora all’architettura del funzionalismo e chi ne ha contestato gli esiti formali. Per entrambi individua «più di un aspetto negativo»: i primi sono sedotti dal determinismo del Razionalismo mentre i secondi sono troppo «indulgenti» con il monumentalismo fascista. Purtroppo per rispondere ai bisogni della società di massa «né i principi dell’architettura organica né i modi di inserirsi bene in un contesto portavano un contributo di rilievo». Per Melograni la definizione delle «nuove regole» per la progettazione doveva scaturire da posizioni meno «elitarie». Inoltre, né la discussione sulle «preesistenze ambientali» né quella esaltante le «esigenze psicologiche» dell’architettura produssero risultati significativi. 
Il giudizio è severo ma per l’autore le cause in primis sono da individuare negli anni ’20 e ’30 quando l’interesse non fu quello di promuovere l’edilizia sociale ma interventi utili alla propaganda. Da qui l’incapacità di dare soluzioni convincenti, nella metà degli anni ’50, quando si dovettero pianificare i primi insediamenti di edilizia popolare: dai quartieri romani dell’Ina-Casa del Tiburtino (Quaroni, Ridolfi) e del Tuscolano (De Renzi, Muratori, Libera) fino a quelli milanesi (quartiere Harrar di Figini, Pollini, Ponti). 
Nella capitale apparvero «anacronistiche forme vernacolari», per una equivoca lettura della tradizione degli «stili minori» o spontanea, mentre nel capoluogo lombardo «approcci poco convinti a soluzioni influenzate dal neoempirismo scandinavo». In questo caso Melograni condivide il giudizio di Tafuri sul fatto che gli architetti «fallirono» in quegli anni il compito di fornire modelli per l’edilizia corrente non applicando «regole e criteri nuovi di metodo progettuale» con evidenti conseguenze sulla legislazione urbanistica. 
Il divario tra passato e presente
È però nel capitolo centrale, «la persistenza del passato», che è esposto il giudizio critico più convinto che risiede nel non avere distinto il nostro «passato remoto» – l’antico e la tradizione – dal «passato prossimo» con i suoi pastiche otto-novecenteschi. Nel compito di doversi misurare con i temi della ricostruzione per gli architetti sarebbe stato saggio riprendere ciò che «di più interessante si era fatto da noi durante i venti anni precedenti», ma così non è accaduto. Fedele sostenitore dei valori della modernità, e in particolare del Funzionalismo, così come radicalmente saranno espressi da Gropius o Le Corbusier, Melograni passa in rassegna i più significativi interventi nei centri storici delle nostre città, persuaso che rispetto alla rogersiana «continuità del passato» sarebbe stato meglio aderire a scelte più rigorose sia di metodo sia di linguaggio. Ora, se sul linguaggio le sue osservazioni sono tutte rivolte agli antimoderni – da Gabetti e Isola a Rossi – ma anche a dei moderni, come Luigi Moretti – su di lui «rivalutazioni eccessive e squilibrate» – sul metodo la questione è più complessa.
Negli ultimi capitoli, Melograni lamenta l’incapacità di perseguire quell’unità effettiva tra architettura e urbanistica relegandola alla sola teoria: in specie quella di Samonà e Quaroni. Del resto, il compito di regolare i fenomeni nuovi e disomogenei dell’evoluzione della città non è un compito facile se, come ha scritto Benevolo, la «fine della città» ha coinciso con la «fuga da essa». Tuttavia non si può rinunciare a pianificare la «dilagante città attuale» che dagli anni della ricostruzione attende soluzioni efficaci per qualificarla sul piano estetico e sociale. Gli esempi non mancano e Melograni cita a riguardo i Paesi Bassi. Dall’avveniristico e non attuato «Progetto Pampus» (1964) di Jakob Bakema e Johannes van den Broek alla realtà della città diffusa di «Randstad Holland», la cultura urbana olandese ha dimostrato cosa significhi «convertire invenzioni escogitate dallo sperimentalismo delle avanguardie in soluzioni da applicare in una pratica diffusa». 
Il progetto discontinuo
Da noi l’architettura non è solo con l’urbanistica che non ha saputo instaurare un scambio durevole e proficuo. Anche il disegno industriale – dove comunque il contributo italiano è e continua a essere «sostanzioso» – non è stato considerato disciplina strategica del rinnovamento urbano. Tranne qualche eccezione che per Melograni va all’opera di Scarpa, Albini, Valle, il «cosmopolita del nord-est», De Carlo e Piano, quest’ultimo «il più bravo tra gli architetti italiani attualmente operanti», non c’è stata adesione sincera verso i processi della serialità industriale, quelli colti nel principio lecorbusieriano, e per lui sempre valido, della machine à habiter. Per ottenere i migliori risultati nell’abitare, i valori della modernità per l’architetto romano non devono essere confusi con le ideologie della modernizzazione, ma compiersi nell’«interazione tra edilizia, oggetti e strutture urbane», soprattutto per misurarsi con le «questioni pratiche» più vicine ai bisogni dei cittadini, quelli che la nostra cultura progettuale troppo spesso dimentica.

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