martedì 10 novembre 2015

Le bombe atomiche che lo Zio Sam ha affidato agli sguatteri italiani affinché le lustrino per bene

Risultati immagini per natoVincenzo Meleca: Il potere nucleare delle Forze Armate Italiane, Greco&Greco, pp. 270, euro 13

Risvolto
L’Italia negli ultimi 60 anni ha ospitato centinaia di ordigni nucleari. Ufficialmente questo arsenale non è esistito, anche se ciò ha comportato oneri a carico del Governo, con rischi e accordi tenuti segreti. La problematica delle armi nucleari, a partire dal Non Proliferation Treaty-NTP, firmato nel 1968, è stata al centro di numerose iniziative diplomatiche aventi lo scopo di limitarle o addirittura bandirle da certe aree geografiche.
Il lavoro dell’Autore tratta un aspetto particolare e classificato della Difesa, a volte poco noto anche agli stessi componenti delle Forze Armate, per via del carattere riservato di per sé o derivante dai vincoli contenuti in accordi bilaterali come i vari SOFA e BIA (Bilateral Infrastructure Agreement). Ne è un esempio l’Accordo dell’ottobre 1954, il cui testo è ancora oggi secretato, che stabilisce le condizioni di utilizzo delle basi USA in Italia.
Frutto di una meticolosa e attenta ricerca, il libro, arricchito dai molteplici dati tecnici, dagli aspetti operativi e dalle procedure di impiego, apre un’ampia finestra sulle problematiche inerenti il dispiegamento in Europa Occidentale e il possibile impiego del munizionamento nucleare che avevano la funzione primaria di controbilanciare la superiorità numerica delle forze del Patto di Varsavia.
E proprio nel nostro Paese in quegli anni furono stanziate alcune delle principali basi nucleari europee dell’Alleanza Atlantica…

Gli ordigni nucleari in mano (tuttora) alle nostre forze armate 
Missili, bombe e granate affidati dagli Usa ad esercito e aeronautica durante la Guerra Fredda. E la marina tentò addirittura di fare da sé con gli «Alfa»... 
10 nov 2015  Libero MIRKO MOLTENI 

Cinquant’anni fa Puglia e Basilicata se la videro brutta con ordigni atomici presenti sul territorio. E per una banale negligenza: la mancanza di parafulmini attorno alle basi. Almeno quattro volte, fra l’ottobre 1961 e l’agosto 1962, violenti temporali scaricarono fulmini su alcuni dei 30 missili Jupiter che l’aviazione americana, la US Air Force, aveva affidato a equipaggi italiani della 36˚ Aerobrigata da Interdizione Strategica, reparto dell’Aeronautica. I fulmini colpirono le ogive dei missili, ciascuna racchiudente una testata nucleare della potenza di un megatone e mezzo, cioè cento volte la forza che nell’agosto 1945 aveva spianato Hiroshima e Nagasaki. Il sovraccarico elettrico attivò i circuiti delle testate, non si sa con quali rischi di innesco. Per fortuna non accadde nulla e l’USAF si decise a installare i parafulmini. 
Precaria restò invece la collocazione dei razzi, che non stavano al riparo di un tipico pozzo di lancio sotterraneo con coperchio corazzato, bensì erano ritti all’aria aperta su piazzole in cemento ed esposti a pioggia e vento. I missili Jupiter, con gittata di 3.000 km, erano divisi in dieci basi da tre razzi cadauna, sparpagliate in un raggio di 60 km da Gioia del Colle (Bari). Senza elencarli tutti, citiamo i siti di Matera, Altamura e Gravina. Operativi dal maggio 1960, già nel luglio 1963 vennero rimossi in cambio della ritirata da Cuba dei missili russi che nel 1962 Krushev voleva dislocarvi. 
La breve esperienza dei Jupiter è solo un episodio dell’avventura italiana nell’atomo militare, raccontata da Vincenzo Meleca nel suo libro Il potere nucleare delle Forze Armate Italiane (Greco&Greco, pp. 270, euro 13). L’autore racconta verità taciute per anni, cioè l’operatività nelle forze italiane di armi nucleari di proprietà statunitense, ma che Washington ci assegnava col principio della «condivisione nucleare». Bombe atomiche da usarsi in caso di guerra fra la Nato e il blocco sovietico, ma solo sotto controllo e comando americano stando alle clausole ancora oggi segrete del trattato Bilateral Infrastructure Agreement, firmato il 20 ottobre 1954 dal primo ministro Mario Scelba e dall’ambasciatrice americana Clare Booth Luce per conto del presidente Eisenhower. Gli ordigni condivisi erano innescabili con un sistema di sicurezza a doppia chiave, da un ufficiale italiano insieme a un collega americano. La Nato impostava la sua deterrenza contro l’Urss minacciando di impiegare per prima l'atomica per arginare la superiorità numerica dei carri armati russi. 
Tra i primi reparti nucleari dell’esercito italiano spiccò la 3˚ Brigata Missili “Aquileia”, formata nel 1959 con 16 missili tattici Honest John lanciabili da autocarri. L’Honest John aveva gittata di soli 48 km e testata da 20 kilotoni. Si doveva usare sul territorio stesso di Friuli e Veneto per fermare un’eventuale invasione da Est, anche a costo di carbonizzare quelle regioni. Honest John inerti vennero collaudati in poligoni come Bibione o l’altipiano di Asiago, poi furono sostituiti nel 1975 con missili Lance, finché nel 1991 la brigata “Aquileia” fu sciolta. L’esercito ebbe anche granate atomiche d’artiglieria sparabili da cannoni semoventi cingolati. Più ampia la panoplia dell’aeronautica, che oltre ai Jupiter ebbe testate da applicare ai missili antiaerei Nike, per disintegrare i bombardieri sovietici con colossali palle di fuoco ad alta quota. La nostra aviazione ebbe dagli Stati Uniti vari aerei capaci di portare un’atomica, di cui il più famoso era il caccia Lockheed F-104 Starfighter. Dal 1964 almeno quattro Starfighter italiani erano sempre pronti al decollo, 24 ore su 24, dalle basi di Rimini e Ghedi (Brescia) con già agganciata una bomba di potenza fra 70 kilotoni e un megatone. In guerra, un pilota italiano si sarebbe alzato con l’F-104 volando verso il bersaglio e innescando in volo l’atomica digitando i codici “chiave” consegnatigli in buste chiuse da un connazionale e da un americano. Dal 1982 è entrato in servizio il cacciabombardiere Tornado IDS. Fino all’arrivo del nuovo F-35, è al Tornado che gli Usa affiderebbero le armi nucleari ancora stanziate a Ghedi. Nel 1991 la fine della Guerra Fredda ha fatto perdere all’Italia quasi ogni capacità nucleare, con l’eccezione, stando a un rapporto del 2005, di 44 bombe B61 (forza da 70 a 340 kilotoni) nei magazzini di Ghedi. Altre 72 stanno ad Aviano (Pordenone), ma queste sono totalmente americane, assegnate a uno stormo di F-16 dell’USAF annidato nella base friulana. È possibile che entro il 2013 il numero di queste atomiche sia però sceso a 50-90 totali, fra Ghedi e Aviano. 
 Capitolo a parte la marina, che diversamente da esercito e aeronautica non ebbe atomiche fornite dagli Usa, ma cercò di procurarsele da sola finanziando il reattore RTS-1 attivo dal 1963 nel centro ricerche CAMEN di San Piero a Grado (Pisa), poi sviluppando il missile Alfa, con raggio d’azione di 1.600 km. Gli Alfa dovevano essere lanciati da pozzi predisposti sugli incrociatori “Garibaldi” e “Vittorio Veneto”. Alcuni Alfa vennero provati nel 1975 in Sardegna, a Salto di Quirra, ma il programma del missile atomico della marina fu subito dopo interrotto, avendo l’Italia ratificato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare.

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