lunedì 16 novembre 2015

Luciano Canfora: il Cesare di Dante

Luciano Canfora: Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, , Salerno Editrice

Risvolto
Qual era il Cesare che Dante conosceva? Cosa vi ha aggiunto di suo? Come si concilia un tale impianto ideale incentrato sull'idea di impero con l'enfasi ammirativa riservata da Dante al nemico giurato di Cesare, Catone Uticense? Entrare in tale labirinto intellettuale e poetico è l'obiettivo di questo breve libro, che approda, non immotivatamente, ad una riconsiderazione del rapporto complesso e ammirativo di Dante nei confronti del mondo cosiddetto classico e soprattutto della grande cultura pagana. 





Ispirazione e tormento Gli autori latini (e pagani) della biblioteca di Dante 
Il libro di Luciano Canfora (Salerno Editrice) 

Livia Capponi Corriere 16 11 2015
L’ultimo libro di Luciano Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, si apre con il ritratto di Cesare «con li occhi grifagni» nella galleria dei grandi pagani che abitano il «nobile castello» posto da Dante all’interno del Limbo. Il particolare deriva da Svetonio, lettura colta per i medievali appassionati di storia romana. La ricostruzione della biblioteca latina di Dante è solo uno dei pregi del volumetto, che, attraverso un’erudita galoppata nei secoli, parte da Cesare e Alessandro, simboli della monarchia assoluta dall’antichità al Medioevo, per poi analizzare l’idea di impero e il rapporto Stato-Chiesa nella Monarchia dantesca.  
Per Dante, l’impero romano è la provvidenziale preparazione alla diffusione del Cristianesimo su scala mondiale. Cesare e il suo oppositore Catone Uticense, colui che per la libertà «vita rifiuta» (era morto suicida nel 46 a.C. pur di non assistere alla fine della Repubblica), sono due aspetti di un disegno più grande, da cui consegue Augusto, il «buon monarca» da accettare come garante della convivenza umana. Una monarchia universale come garanzia di pace è anche la risposta ai problemi dell’Italia di Dante. Lo spiega Giustiniano, protagonista del canto VI del Paradiso e incarnazione del cesaropapismo bizantino, dove è la Chiesa a essere subordinata all’imperatore, che, avendo ricevuto il potere direttamente da Dio, non ha bisogno di obbedire a un suo Vicario. L’errore, se mai, è stato la donazione di Costantino, il documento con cui si assegnava ufficialmente del territorio al Papa, legittimandone il potere temporale (fino al 1517, quando fu dimostrato falso dall’umanista Lorenzo Valla). Questo è il macigno che costa alla Monarchia la condanna all’Indice dei libri proibiti nel 1559, e suscita poi una serie di ritrattazioni papali, fino alla risoluzione del problema con la soppressione dell’Indice stesso nel 1966. È noto che nella storia gli elenchi di libri proibiti funzionarono sempre come pubblicità a rovescio. 
Nel Limbo i pagani sono condannati a desiderare, senza mai poterla conseguire, la «vera fede». Ma la desideravano davvero? Difficile per Dante (e per molti suoi lettori) accettare che gli «spiriti magni» dei classici, così grandi ed eticamente impeccabili, fossero esclusi da tutto solo perché nati prima di Cristo. 
Per Canfora, quando fa dire al pagano Virgilio che senza la fede «ben far non basta», Dante sta convincendo anzitutto se stesso. Perché «ben far» non dovrebbe bastare alla salvezza? E, infatti, è proprio Virgilio che salva Dante. Con Borges, Canfora vede in Omero, Orazio, Ovidio e Lucano nell’Inferno proiezioni o figurazioni di Dante. I classici non solo nutrono la poesia dantesca, ma ne stimolano i risvolti filosofici, fino a insidiarla con dubbi tormentosi sul rapporto ragione-fede. Lo prova il monumento che Dante innalza a Ulisse, eroe pagano dannato in eterno. Nella Monarchia, e nella Commedia, libertà non è arbitrario soddisfacimento delle proprie pulsioni (cioè il «viver come bruti»), ma libera obbedienza a leggi giuste, perché, anche a rischio di morire, «la semenza» degli uomini è fatta per «seguir virtute e canoscenza». 
L’indagine filologica, che si snoda in maniera più appassionante di un giallo, risveglia la curiositas sulle inedite sinapsi fra gli autori del nostro patrimonio comune. Mostra le continuità classico-cristiane e il riaffiorare quasi «carsico» dell’idea di un potere politico sovranazionale più potente della religione. Alla fine, il lettore si ritrova in mano due armi formidabili contro ogni forma di oscurantismo: i classici e Dante.

Cesare, eroe della Commedia
di Carlo Ossola Il Sole Domenica 17.1.16
Nel poema la storia di Roma è concepita unitariamente: la fase repubblicana prepara l'impero, completando il disegno divino. Uno studio di Luciano Canfora sulla biblioteca latina del poeta
«I’ vidi Eletra con molti compagni, / tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, / Cesare armato con li occhi grifagni» (Inf., IV, 121-123): occhi grifagni poiché - come vuole il Buti e ricorda Luciano Canfora - sono «alla guatatura spaventevole ad altrui». Non tanto dunque occhi «rossi come fuoco» (secondo il Tesoro di Brunetto Latini), ma piuttosto di «aspectus terribilis» (Bambaglioli). E qui Canfora convoca un altro scenario, non quello del «nobile castello» dei «savi» della classicità, bensì quello manzoniano dei bravi che attendono Renzo sulla soglia dell’osteria: «Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni» (I promessi sposi, cap. VII). Il ricordo dantesco in Manzoni, ricondotto dallo sguardo del grande stratega al ceffo della plebaglia del malaffare, potrebbe ricalcare l’intento di piegare i potenti tutti - come il Napoleone del Cinque maggio – al «disonor del Golgota»; ma è da notare, come è stato proposto, che allorquando egli deve mettere in scena il fulmineo agire di quel grande («Dall’Alpi alle Piramidi…»), altro non possa fare che ricorrere (e questa volta su un registro ben alto) al Cesare di Dante: «Maria corse con fretta a la montagna; / e Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna» (Purg., XVIII, 100-102).
Ben più di Manzoni, è Dante qui a collocare il modello di Cesare accanto a quello di Maria che s’affretta presso Elisabetta: come se quella “ansia di compimento” fosse propria della salvezza temporale e di quella eterna, congiunte ab origine in uno stesso disegno provvidenziale, secondo il testo del Convivio: «E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma» (IV, V, 4).
Il mito di Cesare, nella Commedia, è tutt’uno con l’unità armonica della venuta salvifica, che fu al tempo del Cristo e che ora non si può che compiangere: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Purg., VI, 112-114). L’interrogazione finale ricapitola del resto la visione politica che Dante enuncia nitidamente poche terzine sopra: «Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella, / se beni intendi ciò che Dio ti nota» (Purg., VI, 91-93). Qui Dante si riferisce certo a Matteo, 22, 21: «Reddite ergo quae sunt Caesaris, Caesari; et quae sunt Dei, Deo»; ma c’è di più: e cioè che la translatio fidei da Gerusalemme a Roma fu fatta per armonizzare e non per sovrapporre o perché la nuova Gerusalemme dovesse assorbire l’antica Roma. Ecco perché il modello e il mito di Cesare (eponimo ora di quello dell’Impero) attraversa tutta la Commedia e si suggella nei celebri versi del Paradiso: «Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle» (Par., VI, 55-57). È l’inizio dell’epico prorompere della storia e delle vittorie di Cesare (Par., VI, 55-81), ricapitolazione mirabile di molte imprese e di una vita che ancora sarà modello al Napoleone del Manzoni: «Da indi scese folgorando a Iuba». Il Buti, nel suo commento, insiste giustamente su quel momento, su quel «redur lo mondo a suo modo sereno»: «ma notantemente dice tutto ’l Cielo: imperò che, a mutare lo reggimento del tutto, conveniano correre tutte le cagioni insieme; e dice: a suo modo sereno, perchè lo cielo è retto e governato da uno signore, e così volse lo cielo redur lo mondo che in tutto ’l mondo fusse uno monarca. Cesari».
Per questo il libro di Luciano Canfora è importante: non tanto e non solo perché restituisce una fonte importante per il mito di Cesare nella Commedia , e cioè quella di Svetonio, ma perché riafferma la «Centralità di Cesare» (penultimo capitolo) nell’economia della visione dantesca, capace di sanare la contraddizione che pure esiste tra il trionfo di Cesare e l’elogio di Catone, pure da questi sconfitto sino a costringerlo, per coerenza di libertà, al suicidio: «Dante compone questo dissidio in una visione più alta. Nel superamento di questa contraddizione – scrive Canfora - si manifesta e prende corpo quello che potremmo definire il sincretismo storiografico di Dante alle prese con la storia di Roma: una storia da lui concepita unitariamente, in cui la fase repubblicana non solo precede cronologicamente ma prepara l’impero. L’impero è per lui parte essenziale di un disegno divino, e Cesare ne rappresenta il motore principale».
Resta un fascinoso tema che Canfora solleva in poche dense pagine: Se Dante ha letto Tacito. Lo studioso evoca la presenza a Montecassino del manoscritto (oggi alla Laurenziana) che contiene parte delle Historiae di Tacito (I –V), ricorda la perfetta descrizione dei luoghi stessi in Paradiso XXII, e sottolinea come nessuno, prima del Dante del Monarchia avesse ripreso l’attacco delle Historiae tacitiane: «Opus adgredior opimum casibus, …», così riscritto da Dante: «Arduum quidem opus et ultra vires aggredior…». Come per ogni novità esegetica intorno ai classici, si possono evocare intermediazioni patristiche (e c’è chi, Pieter Smulders, ha suggerito di convocare la prefazione dell’ Opus Historicum di Ilario di Poitiers); ma intanto resta questa conquista e ancora un lungo compito, sollecitato da Canfora: «La “biblioteca latina” di Dante non smette di riservare sorprese». Anche per questa preziosa tessera si conferma la tesi di Ernst Robert Curtius: che Dante sia stato il supremo suggello di tutta la tradizione latina, classica e medievale.

Livio, Lucano, Svetonio Viaggio nella biblioteca del ghibellino Dante 20 gen 2016  Libero MARIOBERNARDIGUARDI
Gli «spiriti magni» del Limbo dantesco sono, come è noto, personaggi di alto profilo etico e morale, civile e intellettuale, protagonisti del mito oppure dell’antichità precristiana. E, come tali, esclusi dai premi riservati alle anime elette, ma anche dalle pene che toccano ai dannati. Anzi, la loro eccellenza li segnala come figure provvidenziali, espressione di quella nobile tradizione classica che la rivelazione cristiana viene a compiere e non a cancellare. Tra costoro c’è Virgilio che, non a caso, è la prima guida di Dante alla conoscenza attraverso l’Inferno e il Purgatorio. Virgilio è anche il poeta dell’Impero, l’idea-forza al centro della visione politica di Dante.
Bene,come ricorda Luciano Canfora nel suo ultimo saggio (Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Salerno, pp. 98, euro 90), per il Sommo Poeta è con Giulio Cesare che ha inizio la lunga catena di figure imperiali. La fonte è Svetonio che, nel suo De vita Caesarum, dà anche una descrizione fisica del conquistatore delle Gallie.
Il volto di Cesare è caratterizzato da «nigris vegetisque oculis», ovvero da neri occhi lampeggianti, lucenti e fieri. Dante riprende questa immagine ritraendo, tra i sapienti e gli eroi del Limbo, «Cesare armato con occhi grifagni»: sguardo da sparviero, dunque, che denota astuzia, fierezza, capacità di decisione rapida e audace (Inferno IV, 123).
Da Cesare a Giustiniano, che nel canto VI del Paradiso evoca le vicende dell’aquila imperiale a partire da Enea, Dante celebra in Roma la città che riesce a ottenere la palma della vittoria in una gara che vede impegnati i più svariati popoli: quella per realizzare il disegno divino dell’impero universale, garanzia di ordine, giustizia e pace. Il disegno, che non riuscì ad Alessandro Magno, fu realizzato dai Cesari. E il ghibellino Dante salutò in Arrigo VII, «Caesaris et Augusti successor», l’erede della missione romana e imperiale.
Ecco: nella “Biblioteca” di Dante - che Canfora compulsa con zelo di storico e di filologo, scavando nei testi di Svetonio, Livio, Lucano, Orosio, Giustino, Fozio, in una rassegna di suggerimenti/suggestioni che vanno dal Boccaccio al Manzoni, fino a dantisti come Del Lungo, Casini e Barbi - c’è la materia che confluirà nel De Monarchia. Questo trattato, «l’opera di Dante più completa sul piano dottrinale», pubblicato per la prima volta a stampa nel 1559 a Basilea, capitale dell’editoria protestante, da Giovanni Oporino, fu inserito dal Sant’Uffizio nell’Indice dei libri proibiti. Una condanna mai cassata, anche se la durezza del verdetto si attenua da un pontefice all’altro.
Canfora, a questo proposito, si sofferma sulle prese di posizione di papi come Benedetto XV e Paolo VI, dimostrando, però, che nessun artifizio dialettico può cambiare la carte in tavola. Nel De Monarchia, insomma, è scritto a chiare lettere che la funzione imperiale discende direttamente da Dio, non «ab ipso Dei vicario», e cioè non dal Papa. E Dante è talmente infervorato dal suo culto dell’Impero che per lui tradire Cristo e tradire Cesare sono abomini da mettere sullo stesso piano. Tanto è vero che nel fondo più profondo dell’Inferno, Giuda, Bruto e Cassio sono tutti e tre stritolati dalle bocche di Lucifero.

Gli occhi di Giulio Cesare da Dante ai Promessi sposi 
Uno studio di Luciano Canfora indaga le fonti latine che hanno nutrito laDivina Commedia(e non solo) 
Gian Luigi Beccaria Stampa 14 2 2016
Frammezzo alla ricchezza di dati obiettivi e riferimenti, cosa dimostra il volumetto di Luciano Canfora che esce col titolo Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante (ed. Salerno, pp. 97, € 8,90)? Mostra che chi scrive non si rifugia al fresco sotto un pero a contemplare le stelle, o si lascia lambire dallo zefiro vivificante di primavera che gli insuffla l’ispirazione, ma inventa, innova, costruisce i propri libri usando altri libri: racconta, ma al cospetto di quanto hanno fatto altri prima di lui, seguendoli, magari rovesciandoli.
Perché «gli occhi di Cesare»? Dante ha posto Cesare tra «li spiriti magni» del limbo, dove lo fa comparire «armato con li occhi grifagni». Non è casuale l’aggettivo. Non è totalmente invenzione di Dante. L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45 di uno dei testi più diffusi nel Medioevo occidentale, il De vita Caesaris di Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: «nigris vegetisque oculis». Dante vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina insomma: occhi fieri, lampeggianti, come di animale sempre pronto a ghermire.
Una volta indicata la fonte certa, Canfora compie un secondo passo, e cita Manzoni, capitolo VII dei Promessi sposi: c’è un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo, Tonio e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio clandestino) appoggiato al vano della porta che fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero dei due occhi grifagni». Nello stesso capitolo affiorano anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di Bruto, quando parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno orribile, di incubo: quel passo è addirittura ripreso nel pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio.
Cesare-Svetonio-Dante-Shakespeare. Canfora è implacabile. Esamina ogni dettaglio, non molla la preda. Non molla difatti il nostro Manzoni, e va al Cinque maggio, dove si mettono insieme Cesare e il Giustiniano di Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo / che nol seguiteria lingua né penna». E Manzoni a sua volta scriverà di Napoleone: «di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno». E ancora Giustiniano, quando insisteva sulle fulminanti campagne di guerra di Cesare, prepara la via a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi / dal Manzanarre al Reno…», e poi «scoppiò da Scilla al Tanai / dall’uno all’altro mar».
Stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale vorticosa. In questi casi però Manzoni mette a confronto due grandi, Cesare-Napoleone. Nel capitolo VII dei Promessi sposi invece capovolgerà la prospettiva storica. Ormai pensa che la storia non è fatta dai grandi, tant’è vero che il Cesare dantesco dagli occhi grifagni ora è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera «stoccata anticesariana». A un bandito di strada sono attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: è un gioco dissacrante, come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a notarlo) quando paragona Don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae.
Siamo soltanto che alle prime venti pagine di questo denso volumetto. Nelle seguenti Canfora continuerà a parlare fittamente di Svetonio, e di Livio, di Orosio, di Lucano, di Sallustio, di Tacito, libri essenziali della biblioteca storica di Dante. Un piccolo libro, questo di Canfora, ma talmento ricco di riferimenti e di scaltrezza che non solo ci addottrina, ma dimostra compiutamente che forse la letteratura esiste - scriveva Zanzotto - «quasi come invito a entrare in un coro di citazioni». Ci vuole uno Sherlock Holmes della filologia come Canfora per scovarle, incrociarle, e interpretarle a fondo.

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