lunedì 9 novembre 2015

Luciano Gallino



Per Repubblica Gallino era "riformista", come Veltroni e come Renzi. Fortuna l'intervento di Vattimo [SGA].

Luciano Gallino, dal modello Olivetti alle sfide neo-industriali 
La scomparsa del sociologo torinese. Era nato nel 1927
9 nov 2015  Corriere della Sera Di Maurizio Ferrera © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, conservo due bei ricordi personali. Il primo risale agli anni Sessanta. Gallino faceva parte del gruppo di intellettuali che aiutavano Adriano Olivetti a impostare nuove e lungimiranti politiche di gestione del lavoro e del territorio. A Ivrea, dove abitavo, il nome di Gallino ricorreva spesso, soprattutto in occasione di nuove iniziative culturali o sociali che l’azienda apriva alle famiglie dei dipendenti e all’intera città. 
Il sociologo lasciò la Olivetti nel 1971, ma rimase profondamente segnato da quella esperienza. La sociologia industriale e del lavoro rimase uno dei suoi principali interessi. E ancora nel 2001, in una lunga intervista con Paolo Ceri intitolata L’impresa responsabile (Edizioni di Comunità), Gallino tornò a riflettere sull’ingegner Adriano e sulle sue straordinarie realizzazioni. L’Olivetti degli anni Cinquanta fu la prima grande «impresa responsabile», caratterizzata da una strategia produttiva molto efficiente, ma anche capace di migliorare costantemente le condizioni di lavoro. Purtroppo, l’etica dell’impresa responsabile è oggi quasi scomparsa. Nel nuovo capitalismo neoliberista, sosteneva Gallino, l’imperativo è «fare buoni affari e basta» (la nota raccomandazione di Milton Friedman), massimizzare il valore per gli azionisti senza preoccuparsi di altro. 
Il mio secondo ricordo riguarda il Gallino professore. Verso la metà degli anni Settanta, all’Università di Torino m’iscrissi al suo corso di Sociologia. Mi trovai di fronte un docente austero, con uno stile molto tradizionale che strideva con il clima lassista e a volte sguaiato di «Palazzo Nuovo». Nelle sue lezioni non si stava seduti sui banchi a fumare e discutere di cospirazioni della borghesia. S’imparavano i classici, si leggeva Karl Marx, ma anche Max Weber e Talcott Parsons. Si guardavano i numeri, commentando le tabelle di Paolo Sylos Labini sulle classi sociali in Italia. Si facevano cose serie, insomma. Sotto la guida di un vero Maestro. 
La produzione scientifica di Gallino è vasta e articolata. Ha toccato temi importanti di teoria sociale, soprattutto nel Dizionario di Sociologia (Utet, 1978). Ha affrontato, fra i primi, i rapporti fra informatica, scienze umane, scienze della natura; fra nuove tecnologie e formazione. E ha approfondito in varie direzioni il tema del lavoro e delle sue trasformazioni nell’epoca neo-industriale (un aggettivo che preferiva, saggiamente, al troppo vago «post-industriale»). Gallino ha a lungo diretto la rivista «Quaderni di sociologia» e svolto un’intensa attività pubblicistica, prima sulla «Stampa» e poi sulla «Repubblica». 
Nell’ultimo decennio il sociologo torinese è diventato un pensatore sempre più «critico», nel senso filosofico del termine. Un intellettuale, cioè, impegnato nel decifrare pratiche e trasformazioni sociali alla ricerca del loro senso nascosto e delle loro contraddizioni. Attraverso lo strumento del saggio breve, Gallino ha puntato il dito contro diseguaglianze e precarietà, deterioramento ambientale e involuzione tecnocratica della politica. Per lui tutti questi fenomeni sono riconducibili a un macroscopico fattore: la finanziarizzazione del capitalismo, lo strapotere impersonale dei fondi d’investimento e delle istituzioni finanziarie internazionali e l’assoggettamento dei governi ai loro interessi.  
Come altri sociologi formatisi tra gli anni Sessanta e Settanta, nei suoi ultimi scritti il professore sembrava aver rivalutato le spiegazioni «strutturali» tipiche della scuola marxista: ciò che muove la società e la politica è, in ultima analisi, il modo di produzione. Rispetto ad altri autori (ad esempio Wolfgang Streeck), Gallino non ha però mai rinunciato alla ricerca di vie d’uscita, nella convinzione che la sconfitta dell’uguaglianza e, insieme, del pensiero critico non sia definitiva. E che dunque sia ancora possibile riorientare la logica del capitalismo globale verso il perseguimento di autentici «scopi umani».



Il riformista rigoroso che ci ha raccontato le metamorfosi d’Italia
PAOLO GRISERI Repubblica 9 11 2015

Di Luciano Gallino, scomparso ieri all’età di 88 anni, mancherà la testimonianza rigorosa e appassionata, la serietà d’analisi che consentiva a tutti coloro che si occupano della società italiana di avere uno sguardo non preconfezionato sui mutamenti dell’ultimo mezzo secolo. Soprattutto mancherà il suo essere punto di riferimento, quasi una cartina di tornasole del mutare delle posizioni altrui: il suo mite radicalismo d’indagine aveva finito per farlo passare, negli ultimi anni, come un intellettuale no global mentre era semplicemente il coerente sostenitore di un riformismo rigoroso e non cortigiano.
Dunque un riformismo autentico.
Dal capitalismo dal volto umano di Adriano Olivetti alla girandola impazzita della crisi dei mutui subprime, Luciano Gallino ha conosciuto e analizzato l’intera parabola del rapporto capitale-lavoro nella seconda parte del Novecento. Utilizzando come metro di valutazione le persone che in quei processi venivano rese protagoniste o schiacciate.
Non avrebbe potuto essere diversamente. Ivrea, negli anni Cinquanta e Sessanta, è stata uno dei principali laboratori di analisi sociale e anche scuola di formazione per intellettuali e futuri esponenti della classe dirigente italiana. Lo ha raccontato nell’intervista su Adriano Olivetti riproposta lo scorso anno da Einaudi con il titolo L’impresa responsabile. Quasi una provocazione se si pensa a certe società quotate in Borsa. Ma, all’epoca, una specie di parola d’ordine per gli intellettuali riuniti intorno dall’azienda di Ivrea. La Olivetti di Adriano e la Torino di Gianni Agnelli erano, all’epoca, i due poli possibili della via italiana al capitalismo. Olivetti chiama Gallino nel 1956 a fare da consulente e sembrava una bestemmia, una stravaganza per un capitano d’industria. Le due one company town sistemate a soli 40 chilometri di distanza, rivaleggiavano sul modello di capitalismo che proponevano.
Una competizione vera, a colpi di marketing sociale: ancora alla fine degli anni Settanta ci fu chi osservò che sull’autostrada i cartelli chilometrici verso Torino erano sponsorizzati dalla Fiat e quelli sulla carreggiata opposta, verso Ivrea, dalla Olivetti. Industria di massa che aveva sconvolto la geografia sociale di Torino quella degli Agnelli, città-comunità che realizzava prodotti d’avanguardia quella degli Olivetti. È in questo secondo campo che il giovane Gallino aveva cominciato a studiare il lavoro e le sue conseguenze sulla società, all’ufficio “Studi relazioni sociali”.
È all’Università di Torino che negli anni Settanta inizia il suo percorso di docente e di ricercatore. Arriva in un momento particolare per la storia sociale ma anche per gli studi sociologici. A Torino il punto di riferimento era per tutti Filippo Barbano, uno dei pionieri della sociologia italiana. Erano anni in cui era diventata una scelta quasi obbligata per un intellettuale coniugare studio e verifica sul campo in una città che era diventata inevitabilmente un gigantesco laboratorio sociale. Approfondire i saggi teorici e distribuire questionari davanti ai cancelli delle fabbriche erano le due principali attività dei sociologi.
Gallino non amava le mode intellettuali. Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e questo gli ha reso la vita non semplicissima sia negli anni Settanta del Novecento sia in questo primo scorcio del nuovo millennio. Non aveva nemmeno timore di schierarsi. La sua adesione al comitato promotore della lista Tsipras alle elezioni europee è la dimostrazione che il riformista Gallino non era un intellettuale timoroso di sporcarsi le mani. Era invece convinto della necessità di un cambio radicale di sistema, non solo economico ma anche culturale. E per arrivarci non vedeva altra strada se non quella dello studio e della comprensione dei meccanismi sociali. Non amava scorciatoie populiste: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tantivo di salvarsi — scriveva — ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata».
Lo studio ma anche la proposta. Il suo piano per creare lavoro e uscire dalla crisi negli anni difficili dello spread alle stelle è stata una delle rare proposte concrete. Quell’idea di prender- si cura dell’Italia, utilizzare gli investimenti pubblici per creare lavoro, ristrutturare scuole e riparare strade è forse il vero testamento del sociologo che sapeva guardare oltre lo stato di cose esistente.


Un intellettuale raro che alla pura analisi univa sempre l’empatia per i “vinti” 
GUIDO CRAINZ Repubblica 9 11 2015

Un intellettuale raro, Luciano Gallino. Raro per l’arco complessivo del suo percorso, da quel luogo magico che è stata la Olivetti degli anni Cinquanta e Sessanta sino al ruolo svolto nei grandi campi del sapere sociologico; dall’Università di una città- simbolo dell’Italia industriale come Torino alle esperienze internazionali, e sino ai puntuali interventi connessi all’attualità. Un intellettuale raro per l’intreccio stretto fra ricerca scientifica e impegno civile, nel suo rigoroso seguire il delinearsi di un mondo e il suo dissolversi: con un’attenzione costante sia alle nervature interne di esso che alle ricadute umane dei processi che lo attraversavano.
Si riflette infatti nelle sue ricerche il definirsi del mondo industriale in Italia, il suo tardivo ed intenso espandersi, il suo specifico profilo; e poi il suo progressivo rimodellarsi ( Il lavoro e il suo doppio) e incrinarsi ( La scomparsa dell’Italia industriale) sino al suo radicale trasformarsi nell’era della globalizzazione. Senza rimuovere i drammi umani e le lacerazioni che quella dissoluzione ha provocato e provoca; con un’intensa attenzione ai nessi fra Globalizzazione e diseguaglianze, a Il costo umano della flessibilità o ai profili de L’impresa irresponsabile. Con l’analisi attenta delle forme e delle modalità complesse del lavoro, delle trasformazioni tecniche e al tempo stesso delle dimensioni umane che entravano in gioco.
È sufficiente scorrere alcuni titoli dei suoi libri per cogliere la ricchezza di un percorso e questo rinvia ad un altro suo tratto: alieno dalle più rigide ideologie del marxismo di scuola quando esso sembrava imperante, e alieno dalle liquidazioni altrettanto ideologiche di patrimoni conoscitivi quando quelle liquidazioni sono dilagate. Si legge con passione un libro-intervista di tre anni fa, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Con la riflessione sull’attuale ridefinirsi delle classi sociali, in una puntuale contestazione di chi ne nega l’esistenza; e con la delineazione di una lotta di classe (economica, sociale, culturale) condotta oggi dalle classi dominanti contro le classi lavoratrici e le classi medie. Con l’analisi non dello scomparire ma del progressivo estendersi - oltre la fabbrica e anche oltre il lavoro - di forme molteplici di dominio quotidiano. Con l’analisi delle tragedie indotte non solo dai processi economici ma anche dal Dramma di una società disgregata, per citare un articolo pubblicato nel marzo del 2010 su questo giornale: una riflessione su quelle lacerazioni indotte dalla crisi di cui testimoniavano i drammi, e i suicidi, di imprenditori e di operai del Nord-Est. «Per resistere a un simile carico di rabbie e scoramento», scriveva, sarebbero necessarie coesioni sociali oggi quasi dissolte. Sarebbero necessari “gruppi di sostegno” che un tempo esistevano: «Certamente ne esistono ancora, ma forse non abbastanza». Era un’analisi e al tempo stesso un richiamo a responsabilità collettive: come tutti i suoi scritti.


Luciano Gallino il lavoro prima di tutto 
Morto a 88 anni. Tra i padri della sociologia in Italia, ha insegnato a lungo all’Università di Torino dopo essersi formato a Ivrea con Adriano Olivetti 

Massimiliano Panarari 9 11 2015

La sociologia italiana ha perduto uno dei suoi massimi esponenti. Si è spento ieri a Torino, a 88 anni, Luciano Gallino, professore emerito all’ateneo torinese, la cui opera ha rappresentato un contributo di notevole significato alla sociologia del lavoro e alla teoria sociale più in generale. Nonché intellettuale pubblico rilevante per le vicende della sinistra italiana.
Gallino era nato a Torino nel 1927 e la sua formazione (e forma mentis) si è intrecciata fortemente con l’esperienza dell’olivettismo, che ha rappresentato un modello unico (e specificamente italiano) di relazione tra l’impresa, la società e la cultura. Nel 1956 entrò nell’azienda di Adriano Olivetti, che fu l’incubatrice e il laboratorio di un modo originale di pensare e praticare le relazioni sindacali e il rapporto con il territorio, destinato a pesare profondamente sulla sua metodologia e sul suo pensiero sociologico.
Il giovane Gallino, chiamato dall’ingegner Olivetti, iniziò collaborando con l’Ufficio studi relazioni sociali (una struttura di ricerca che costituiva un unicum nel panorama delle imprese dell’epoca) per passare qualche anno dopo a dirigere il Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull’organizzazione, che dipendeva dalla Direzione del personale e dei servizi sociali capitanata a lungo da Paolo Volponi. La stagione olivettiana, per l’appunto, che tanto avrebbe segnato in quegli anni e in quelli immediatamente seguenti la cultura nazionale. 
Fu successivamente la volta della carriera accademica, che Gallino intraprese mediante la libera docenza e lo vide transitare per Stanford e diventare poi uno dei punti di riferimenti dell’ateneo torinese. Qui insegnò dal ’65 fino al 2002, e il suo magistero svolse una funzione importante - in un Paese in cui l’influenza crociana e una certa impronta antiscientista e antipositivista avevano condizionato a lungo la cultura mainstream - per l’istituzionalizzazione e la definizione dello statuto epistemologico delle scienze sociali. In particolare nel campo dei modelli di azione sociale e della sociologia economica e del lavoro, di cui ha accompagnato l’evoluzione e i cambiamenti sui piani del mercato, delle relazioni tra i fattori di produzione, della tecnologia e dell’informatica (nelle loro implicazioni sociali) e degli aspetti neurobiologici del comportamento umano. 
Gallino ha partecipato attivamente al dibattito pubblico, da editorialista di grandi quotidiani (prima Il Giorno, poi a lungo La Stampa e infine La Repubblica) e combattendo una battaglia delle idee nella quale le sue elaborazioni hanno avuto una vasta circolazione negli ambienti intellettuali progressisti. L’attenzione, negli ultimi anni, per il tema della precarietà lavorativa (come nel testo del 2007 Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità) ne ha fatto un critico implacabile del neoliberismo e della finanziarizzazione del capitalismo (al cui riguardo ha coniato il neologismo «finanzcapitalismo», che ha dato il titolo a uno dei suoi libri più recenti). 
Molto ricca la sua produzione editoriale e scientifica, della quale possiamo ricordare come «classici», tra i tanti volumi: Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti, 1946-1959 (1960), l’importante Dizionario di sociologia (1978), Informatica e qualità del lavoro (1983), Mente, comportamento e intelligenza artificiale (1984), Della ingovernabilità. La società italiana tra premoderno e neo-industriale (1987), L’attore sociale. Biologia, cultura e intelligenza artificiale (1987), Sociologia dell’economia e del lavoro (1989). Il suo ultimo libro, uscito da pochissimo, è Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti (Einaudi). Una sorta di testamento.

Fino all’ultimo, un “intellettuale di fabbrica” 
La battaglia contro il neoliberismo oggi predominante, dalla parte dell’economia reale 

Gianni Vattimo Stampa 9 11 2015
Luciano Gallino era uno degli intellettuali «di fabbrica» che accompagnarono l’avventura di Adriano Olivetti negli anni a cavallo della metà del secolo scorso, inaugurando e segnando in modo profondo una nuova stagione della cultura italiana. Quella stagione marcata da intellettuali come Paolo Volponi, poi come Furio Colombo, che ebbe una parte significativa nello «sbarco» di Olivetti negli Stati Uniti. Vicende dell’industria italiana degli anni del dopoguerra, ma più in generale vicende della nostra storia recente che ancora oggi valgono come esemplari di uno sforzo di ripensare in termini meno ottocenteschi il senso e i modi del lavoro industriale.
Proprio il lavoro è stato al centro dell’impegno - civile prima ancora che accademico e scientifico - di Gallino fino agli ultimi anni. Tra la superficialità di tanta retorica delle «relazioni umane» e l’ideologismo di molti approcci esclusivamente politici al tema, Gallino riuscì a mantenere una posizione originalmente equilibrata per cui resta ancora oggi un grande maestro sia della sociologia più legata agli studi sul campo (statistica, inchieste, indagini di mercato, analisi dei bilanci, politiche economiche aziendali: tutti temi che Gallino ha sempre avuto ben presenti nei suoi lavori), sia della sociologia più teoricamente impegnata, in ciò vicino agli esponenti della Scuola di Francoforte.
Non è indifferente ricordare che la sua formazione si svolse nella Torino industriale degli anni del dopoguerra. Idealmente legato a personaggi come Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio, Gallino è stato anche negli ultimi anni della sua vita un punto di riferimento sempre molto presente nel dibattito politico. 
Pur non essendo mai stato un sociologo «neutrale» rispetto ai suoi temi di studio, aveva assunto da ultimo una posizione molto critica nei confronti dell’economia neoliberista oggi predominante, sostenendo tra l’altro che un fattore determinante della crisi del capitalismo esplosa nel 2008 è stato l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia: il vertiginoso circolare dei capitali che prevale sulla «economia reale», sulla produzione e sul concreto lavoro umano, con catastrofiche conseguenze per il tessuto sociale delle nostre società. È come se fino all’ultimo Gallino avesse voluto rimanere fedele alle sue origini di intellettuale di fabbrica e di testimone partecipe delle trasformazioni del lavoro.

Luciano Gallino, intellettuale di fabbrica Addio. Formatosi in quella Camelot moderna che fu l’Ivrea di Olivetti, è stato un padre della sociologia. Le sue analisi hanno anticipato la grande crisi, il degrado dei tempi l’ha costretto a un impegno da militante Marco Revelli Manifesto 9.11.2015, 23:59
Perché sentiva l’importanza — forse anche l’angoscia — di ciò che aveva da dire. E cioè che il mondo non è «come ce lo raccontano». Che il meccanismo che le oligarchie finanziarie e politiche dominanti stanno costruendo e difendendo con ogni mezzo — quello che in un suo celebre libro ha definito il Finanz-capitalismo — è una follia, «insostenibile» dal punto di vista economico e da quello sociale. Che l’Europa stessa — l’Unione Europea, con la sua architettura arrogantemente imposta — è segnata da un’insostenibilità strutturale. E che il dovere di chi sa e vede — e lui sapeva e vedeva, per il culto dei dati e dell’analisi dei fatti e dei numeri che l’ha sempre caratterizzato -, è di dirlo. A tutti, ma in particolare ai giovani. A quelli che di quella rovina pagheranno il prezzo più amaro.

Non per niente il suo ultimo volume (Il denaro, il debito e la doppia crisi) è dedicato «ai nostri nipoti». E reca come exergo una frase di Rosa Luxemburg: «Dire ciò che è rimane l’atto più rivoluzionario».

Eppure Gallino non era stato, nella sua lunga vita di studio e di impegno, un rivoluzionario. E neppure quello che gramscianamente si potrebbe definire un «intellettuale organico».

La sua formazione primaria era avvenuta in quella Camelot moderna che era l’Ivrea di Adriano Olivetti, all’insegna di un «umanesimo industriale» che ovunque avrebbe costituito un ossimoro tranne che lì, dove in una finestra temporale eccezionale dovuta agli enormi vantaggi competitivi di quel prodotto e di quel modello produttivo, fu possibile sperimentare una sorta di «fordismo smart», intelligente e comunitario, in cui si provò a coniugare industria e cultura, produzione e arte, con l’obiettivo, neppur tanto utopico, di suturare la frattura tra persona e lavoro. E in cui poteva capitare che il capo del personale fosse il Paolo Volponi che poi scriverà Le mosche del capitale, e che alla pubblicità lavorasse uno come Franco Fortini, mentre a pensare la «città dell’uomo» c’erano uomini come Gallino, appunto, e Pizzorno, Rozzi, Novara… il fior fiore di una sociologia critica e di una psicologia del lavoro dal volto umano.

Intellettuale di fabbrica, dunque. E poi grande sociologo, uno dei «padri» della nostra sociologia, a cui si deve, fra l’altro, il fondamentale Dizionario di sociologia Utet. Straordinario studioso della società italiana, nella sua parabola dall’esplosione industrialista fino al declino attuale. E infine intellettuale impegnato — potremmo dire «intellettuale militante» — quando il degrado dei tempi l’ha costretto a un ruolo più diretto, e più esposto.

Gallino in realtà, negli ultimi decenni, ci ha camminato costantemente accanto, anzi davanti, anticipando di volta in volta, con i suoi libri, quello che poi avremmo dovuto constatare. È lui che ci ha ricordato, alla fine degli anni ’90, quando ancora frizzavano nell’aria le bollicine della Milano da bere, il dramma della disoccupazione con Se tre milioni vi sembran pochi, segnalandolo come la vera emergenza nazionale; e poco dopo, nel 2003 — cinque anni prima dell’esplodere della crisi! — ci ha aperto gli occhi sulla dissoluzione del nostro tessuto produttivo, con La scomparsa dell’Italia industriale, quando ancora si celebravano le magnifiche sorti e progressive della new economy e del «piccolo è bello».

È toccato ancora a lui, con un libro folgorante, ammonirci che Il lavoro non è una merce, per il semplice fatto che non è separabile dal corpo e dalla vita degli uomini e delle donne che lavorano, proprio mentre tra gli ex cultori delle teorie marxiane dell’alienazione faceva a gara per mettere a punto quelle riforme del mercato del lavoro che poi sarebbero sboccate nell’orrore del Jobs act, vero e proprio trionfo della mercificazione del lavoro.

Poi, la grande trilogia — Con i soldi degli altri, Finanzcapitalismo, Il colpo di Stato di banche e governi -, in cui Gallino ci ha spiegato, praticamente in tempo reale, con la sua argomentazione razionale e lineare, le ragioni e le dimensioni della crisi attuale: la doppia voragine della crisi economica e della crisi ecologica che affondano entrambi le radici nella smisurata dilatazione della ricchezza finanziaria da parte di banche e di privati, al di fuori di ogni limite o controllo, senza riguardo per le condizioni del lavoro, anzi «a prescindere» dal lavoro: produzione di denaro per mezzo di denaro, incuranti del paradosso che l’esigenza di crescita illimitata dei consumi da parte di questo capitalismo predatorio urta contro la riduzione del potere d’acquisto delle masse lavoratrici, mentre la spogliazione del pianeta da parte di una massa di capitale alla perenne ricerca d’impiego distrugge l’ambiente e le condizioni stesse della sopravvivenza.

E intanto, nelle stanze del potere, si mettono a punto «terapie» che sono veleno per le società malate, cancellando anche la traccia di quelle ricette che permisero l’uscita dalla Grande crisi del ’29.

È per questo che l’ultimo Gallino, quello del suo libro più recente, aggiunge ai caratteri più noti della crisi, anche un altro aspetto, persino più profondo, e «finale».

Rivolgendosi ai nipoti, accennando alla storia che vorrebbe «provare a raccontarvi», parla di una sconfitta, personale e collettiva. Una sconfitta — così scrive — «politica, sociale, morale». E aggiunge, poco oltre, che la misura di quella sconfitta sta nella scomparsa di due «idee» — e relative «pratiche» — che «ritenevamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico».

Con un’ultima parola, in più. Imprevista: «Stupidità». La denuncia della «vittoria della stupidità» — scrive proprio così — delle attuali classi dominanti.

Credo che sia questo scenario di estrema inquietudine scientifica e umana, il fattore nuovo che ha spinto Luciano Gallino a quella forma di militanza intellettuale (e anche politica) che ha segnato i suoi ultimi anni.

Lo ricordiamo come il più autorevole dei «garanti» della lista L’Altra Europa con Tsipras, presente agli appuntamenti più importanti, sempre rigoroso e insieme intransigente, darci lezione di fermezza e combattività. E ancora a luglio, e poi a settembre, continuammo a discutere — e lui a scrivere un testo — per un seminario, da tenere in autunno, o in inverno, sull’Europa e le sue contraddizioni, per dare battaglia. E non arrendersi a un esistente insostenibile…
L’addio a Torino

Sarà allestita martedì 10 novembre dalle 11 alle 19.30 nell’aula magna dell’Università di Torino la camera ardente di Luciano Gallino, professore emerito di Sociologia scomparso domenica scorsa a 88 anni. La cerimonia di commiato si terrà, sempre all’Università, mercoledì 11 novembre alle 10 dopodiché il feretro sarà trasferito al Cimitero monumentale per la cremazione.

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