martedì 24 novembre 2015

Propaganda e psicologia di massa sulla stampa italiana nella preparazione della Prima guerra mondiale

Narrare il conflitto. Propaganda e cultura nella Grande guerra (1915-1918), a cura di Stefano Lucchini e Alessandro Santagata, pubblicato dalla Fondazione Corriere della Sera









 di Diego Gabutti Italia oggi

Ottobre 25, 2015 Mario Avagliano

Le trincee del Carso e quelle della stampaCorriere 23 11 2015
Si chiamava Servizio P. Una P che non significava solo «propaganda», puntualizza Mario Isnenghi, ma anche «psicologia». Si tratta dell’ufficio creato dall’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale, dopo la disfatta di Caporetto, per curare il morale delle truppe attraverso i giornali di trincea, gli spettacoli al fronte e altri simili strumenti. Parteciparono a quell’opera nomi illustri e di vario orientamento: futuri antifascisti come Piero Calamandrei e Gaetano Salvemini, ma anche l’ « afascista » Giuseppe Prezzolini, lo storico nazionalista Gioacchino Volpe, che avrebbe aderito al regime littorio, e il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, ex socialista vicino a Giovanni Gentile, con il quale avrebbe strettamente collaborato nell’opera di riforma della scuola.
Un libro ricco di belle e suggestive illustrazioni, che approfondisce la complessa questione di come la guerra venne presentata all’opinione pubblica. E si basa su due fonti di eccezionale importanza: la raccolta completa dei bollettini emessi dal Comando supremo; le annate e l’archivio del «Corriere della Sera».
Dei bollettini si occupa un saggio di Santagata, che ne sottolinea il carattere fortemente propagandistico. Durante il conflitto l’esercito cerca di fornire un’immagine ottimistica, per certi versi quasi trionfale, della lotta contro gli austroungarici. Quindi produce ogni giorno un racconto dei fatti ampiamente manipolato, «in cui i confini tra comunicazione ed esaltazione tendono a sovrapporsi a discapito della verità». Non a caso Benito Mussolini, già capo del governo, avrebbe scritto la prefazione all’unica pubblicazione contenente tutti i bollettini di guerra, edita da Alpes nel 1923: in quella prosa si ritrovavano già numerosi stereotipi che poi sarebbero stati ripresi dalla macchina del consenso attivata durante il ventennio nero.
Il versante del «Corriere» viene esplorato invece da Andrea Moroni, che mette in rilievo le contraddizioni nelle quali il direttore del quotidiano, Luigi Albertini, incappò sull’onda del suo risoluto impegno interventista. Paladino della libertà di stampa, che poi avrebbe difeso coraggiosamente contro il fascismo fino a dover lasciare via Solferino, Albertini accettò non solo di sottomettersi alla censura militare, ma di dare al giornale un tono spiccatamente retorico, agitando il mito della guerra rigeneratrice sin dal 1914. E così il direttore del «Corriere», conclude Moroni, «tradì una sostanziale sfiducia verso la sua opinione pubblica, considerata non ancora sufficientemente matura» per essere posta dinanzi alla cruda realtà dei fatti.

E la propaganda prevalse sull’informazione 11 dic 2015  Corriere della Sera Di Flavio Haver © RIPRODUZIONE RISERVATA
È durante la Grande guerra che la propaganda diventa un’attività sistematica. Ed è questo il tema del volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera intitolato Narrare il conflitto. Propaganda e cultura nella Grande guerra, a cura di Stefano Lucchini e Alessandro Santagata, presentato ieri a Roma presso la Biblioteca militare di Palazzo Esercito, presenti il presidente della Fondazione Corriere della Sera, Piergaetano Marchetti, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il capo di stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, il presidente di Rcs Libri, Paolo Mieli, e il direttore del «Corriere della Sera», Luciano Fontana.
«Un detto tedesco di fine Ottocento recitava: “Arriva la guerra nel paese e quindi ci sono bugie a iosa”. Se la censura è una strategia di tradizione secolare, è durante la Grande guerra che l’informazione subisce una delle sue sconfitte più clamorose». Inizia così il libro. E il dibattito è ruotato proprio attorno al ruolo dei giornali in quel periodo.
«Il comportamento interventista del “Corriere” non fu isolato: tutti gli organi di informazione andavano in quella direzione e, con loro, anche i teatri e tutti i mezzi di comunicazione», ha detto Lucchini, manager e giornalista, spiegando che il libro è nato dalla raccolta dei bollettini del comando supremo nella Prima guerra mondiale trovata in un mercatino. «È un libro importante, va letto», ha sottolineato Mieli. «L’Italia cambiò fronte quando la guerra era già in corso, nel maggio 1915, con un atto simile a un colpo di Stato. In questo contesto il comportamento propagandistico del “Corriere della Sera” fruttò un primato al quotidiano che, diretto da Luigi Albertini, aveva già pubblicato le poesie di d’Annunzio dicendo che la guerra sarebbe stata vinta in poco tempo. Oggi giudichiamo questa linea del quotidiano inappropriata. Pensiamo infatti che sarebbe stato meglio avere un comportamento più sobrio e non enfatico, come invece fu».
Sulla stessa linea si è collocato l’intervento di Fontana: «È un libro in grandissima parte sul “Corriere della Sera” e devo dire che c’è un certo disagio a parlare di un pezzo di storia del nostro quotidiano che vorremmo fosse stato diverso».

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