sabato 7 novembre 2015

René Girard

Daniele Zappalà Avvenire 4 novembre 2015

René Girard Avvenire 6 novembre 2015


Antropologo-filosofo, con la teoria del "desiderio mimetico" spiegava con i conflitti e gli eccessi del mondo. Amore compreso
Camillo Langone - Giornale Ven, 06/11/2015 

Il filosofo apocalittico diventato ottimista

6 nov 2015 Libero
Un altro grande maestro del pensiero se ne è andato. E, purtroppo, non se ne intravedono di nuovi all’orizzonte che possano prendere il suo posto. Il 4 novembre, annuncia l’Università americana di Stanford, si è spento a 91 anni René Girard, dopo un’estenuante malattia.
Non si può dire che Girard abbia cavalcato il pensiero mainstream. Fin dal suo sbarco in America l’antropologo francese ha infatti incrinato i dogmi del pensiero moderno. E in particolare la convinzione che l’uomo sia libero e indipendente e soprattutto un grande amante della pace. Già a partire da Menzogna romantica e verità romanzesca, pubblicato nel 1961 e in Italia tradotto da Bompiani, fa capolino la sua teoria del «desiderio mimetico». Grazie alla lettura di Dostoevskij, Proust, Shakespeare e Dante, Girard scopre che l’uomo non può pensarsi come un essere isolato dal resto del mondo e dagli altri, magari convinto di essere padrone della propria vita. Nel suo cammino di formazione l’uomo non intrattiene un rapporto diretto con gli oggetti che eccitano il suo desiderio. Egli si rapporta a essi grazie alla mediazione di un modello, che può essere un maestro, un professore, i genitori o magari una star dello schermo o del calcio. È questo modello che fornisce all’uomo lo stile con cui relazionarsi agli oggetti che incontra lungo il suo percorso di vita.
Eppure il modello non genera pace, ma rivalità. Cerchiamo di imitarlo perché sembra migliore di noi e perché possiede qualcosa che noi vogliamo e non abbiamo. Per cui finiamo col bramare quello che desidera lui diventando asserviti al suo stesso desiderio. In questa dinamica noi non siamo affatto liberi, ma anzi stabiliamo con il modello un rapporto conflittuale al fine di prendere il suo posto.
Tuttavia è proprio questo conflitto originario a costituire la fonte della società. Come scrive ne Il capro espiatorio e La violenza e il sacro, editi da Adelphi, ogni società organizza dei meccanismi per disinnescare l’efferatezza presente nella rivalità mimetica. E il sistema migliore è il sacrificio. Esso infatti scarica su un capro espiatorio tutta la violenza che attraversa i gruppi umani, liberando il gruppo dalla conflittualità nata dai meccanismi mimetici e proiettandola su una vittima rituale. E il cristianesimo incarna con la crocifissione del Messia l’apice di questo processo. Ma alla fine il risultato non è stato dei migliori tant’ è che reputa che «la storia sia un test per l’umanità. E l’umanità sta fallendo questo test».
Anche se, a dire il vero, il suo ultimo lavoro, Portando Clausewitz all’estremo, presenta dei tratti particolari. Prendendo in esame quanto accade dopo la fine della Guerra Fredda e dopo l’11 settembre, Girard sembra acconsentire a un roseo ottimismo pur se sullo sfondo pare condividere l’idea che oggi si contrappongano nel mondo due forme opposte di fondamentalismo: il jihad islamista e la «guerra giusta» dell’Occidente contro «l’asse del male». E non è detto che allontanino l’apocalisse, come Girard pensa.      

Addio a René Girard, denunciò l’origine violenta della società 

Antropologo e filosofo, accademico di Francia, ha insegnato negli Stati Uniti 
Massimiliano Panarari Stampa 6 11 2015

Ultranovantenne, si è spento René Girard, e con lui se ne va un’altra figura centrale delle scienze sociali del Secolo breve. Nonché uno di quegli intellettuali francesi che hanno dominato il dibattito culturale del secondo Novecento, portando nelle università statunitensi le teorie e le metodologie dello strutturalismo (e del post-strutturalismo), re-impacchettate Oltreoceano con l’etichetta di French Theory. Nato ad Avignone il giorno di Natale del 1923, fece – nemo propheta in patria – una carriera accademica quasi tutta a stelle strisce, tra Duke University, Johns Hopkins e Stanford, fino ad ascendere infine, nel 2005, al ristrettissimo «club» (un autentico Olimpo) degli «immortali» dell’Académie française. 
Girard, che aveva esordito come archivista-paleografo, è stato un pensatore eclettico ed estremamente influente, in grado di attraversare gli steccati disciplinari nello sforzo di fondare un’antropologia volta all’interpretazione generale e «razionalistica» dei comportamenti dell’umanità, mettendo insieme critica letteraria, psicologia, etnologia e studio delle religioni. Ed è proprio il fenomeno religioso, letto sulla scorta di Durkheim e di Freud (che tanto hanno pesato sulla sua formazione, ma dai quali poi si separò, diventando altresì l’antagonista di Claude Lévi-Strauss), a risultare al centro delle sue riflessioni, che muovono dall’intuizione del desiderio mimetico e «triangolare», esplicitata nel libro seminale del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca.
Il desiderio si rivela appunto «triangolare» dal momento che tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si colloca un mediatore – il modello – che indica gli oggetti verso cui indirizzarlo. Ma è anche, piuttosto di frequente, un rivale; e Girard approda così all’altra idea fondamentale, quella della rivalità mimetica, tra capro espiatorio e cristianesimo (al quale si converte) che fa saltare la struttura omicidiaria delle società antiche con il paradigma della vittima innocente (Gesù Cristo).
«Intellettualmente» cristiano (poiché il sacro e le istituzioni religiose assicurano la coesione della società) e, al tempo stesso, «Darwin delle scienze umane», come lo celebra la «sua» Università di Stanford; se difatti la teoria della selezione naturale delle specie costituisce il fondamento razionale per la comprensione della varietà delle forme di vita, col meccanismo vittimario lo studioso francese ha inteso offrire il principio esplicativo razionale e unitario della pluralissima diversità delle forme sociali e culturali dell’umanità. 
Il «girardismo» (ipotesi non suscettibile di verifica empirica a causa dei tempi lunghissimi, precisamente come il darwinismo) rappresenta dunque, per molti versi, un’estensione della biologia al dominio sociale, che ha peraltro trovato un insperato e insospettabile sostegno nella scoperta scientifica dei neuroni specchio. E Girard, per rimanere nel grande regno della natura (citando un suo editore italiano, Roberto Calasso, che citava a sua volta Isaiah Berlin), è stato uno degli ultimi «porcospini» che sanno, impareggiabilmente, «una sola grande cosa». A giorni uscirà Il tragico e la pietà (Edizioni Dehoniane, Bologna), il suo libro con un altro «grande di Francia», Michel Serres. 

@MPanarari 

Addio René Girard  l’ultimo degli umanisti

È morto a 91 anni lo studioso che rilesse i miti fondando la teoria del capro espiatorio
ROBERTO ESPOSITO Repubblica 7 11 2015

Che René Girard sia stato uno dei pensatori più profondi e originali del nostro tempo è un’evidenza innegabile. Spostatosi dalla Francia in America, insegnando a lungo nelle università John Hopkins e Stanford, dove è morto mercoledì a 91 anni, ha attraversato tutti campi del sapere umanistico, dalla critica letteraria all’antropologia, alla filosofia, influenzando anche gli studi di psicoanalisi e l’esegesi biblica. Si può dire che la sua possente energia ermeneutica scaturisca, come un fascio di luce intensa e penetrante, da una intuizione originaria, continuamente rielaborata attraverso l’analisi
dei testi più vari, capace di fornire una interpretazione unitaria dell’intera esperienza umana. Si tratta di qualcosa da sempre sotto gli occhi di tutti, ma, come spesso accade, proprio per questo rimasta a lungo celata, che Girard riconduce al carattere mimetico del desiderio. Come fin dalla sua prima grande opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani 1965), egli riconosce nei romanzi di Stendhal e di Flaubert, di Proust e di Dostoevskji, che il desiderio ha una struttura non binaria, ma triangolare. Diversamente da quanto pensava Freud – che pure, con Lévi-Strauss e a Durkheim, è stato forse l’autore che lo ha più influenzato – Girard ritiene che il desiderio umano non sia rivolto direttamente al proprio oggetto, ma passi per la mediazione di un terzo termine, costituto dal desiderio dell’altro. Come si desume anche dall’esperienza comune, tanto più nella società dei consumi, noi desideriamo quello che gli altri desiderano e precisamente per questo motivo.
Ciò significa che la società è naturalmente preda di una violenza insostenibile, la quale può essere fronteggiata solo da un potente dispositivo immunitario, che Girard individua nel sacrificio vittimario di un capro espiatorio. Tutti contro uno, uno al posto di tutti. La violenza, concentrata su un’unica vittima, mette in salvo l’intera comunità, proteggendola dalla sua naturale tendenza all’autodistruzione. Secondo quanto l’autore teorizza nel suo libro più conosciuto, La violenza e il sacro (Adelphi 1980), la vittima, scelta per le sue caratteristiche somatiche, e magari anche razziali, insieme catalizza la crisi e restaura la pace, acquisendo così uno statuto sacrale. Per millenni la civiltà si è riprodotta attraverso la ripetizione di quest’evento sacrificale, raccontato da tutti i grandi miti – naturalmente dal punto di vista dei persecutori. Come ancora nel cuore del Novecento hanno ripetuto i nazisti, assumendo a vittima sacrificale un intero popolo, solo la sua distruzione avrebbe sanato il mondo da una malattia mortale. Ma in questa storia di sangue Girard individua una svolta decisiva nel Cristianesimo. I Vangeli raccontano un mito sacrificale in apparenza non diverso dagli altri. Anche nel caso della Crocifissione, un uomo, che si proclama Dio, è circondato da una folla che lo colpisce a morte, ricostituendo il proprio equilibrio intorno al suo corpo deriso e violato. Ma con la differenza rilevante che questa volta il racconto è condotto dal punto di vista della vittima. Da quel momento, allorché sulle “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” – è il titolo di un altro libro di Girard (Adelphi 1983) – si squarcia il velo, tutto è destinato a cambiare. Ciò non significa che la violenza sia finita. Anzi, una volta crollato l’ordine sacrificale, la minaccia che pesa sugli uomini si è ancora più estesa. Ma con essa si è estesa anche la consapevolezza dell’incantesimo che ci tiene prigionieri e dunque anche la possibilità di poterlo, un giorno, spezzare. Quella che Girard ha costruito è un’ipotesi che non pretende di essere positivamente verificata secondo un metodo scientifico. Ma che ha dalla sua non solo un singolare fascino, ma anche una potenza esplicativa difficilmente contestabile. Oggi che il sapere va sempre più frantumandosi, la forza dell’opera di Girard è quella di una sintesi che riesce a conferire un significato unitario, anche se non tranquillizzan- te, all’intera storia umana. Più che contenerla, si può dire che questa sia contenuta dalla violenza di un desiderio mimetico che oppone fra loro gli uomini, tutti alla caccia delle medesime prede. L’unico modo per uscirne sarebbe quello di vincere quest’istinto, aprendoci alla logica cristiana dell’amore.
Certo, non sono poche le obiezioni che si possono rivolgere a questa straordinaria costruzione intellettuale. Da quella, di ordine storico, che la civiltà cristiana non ha certo prodotto un numero di vittime minore rispetto ad altre esperienze, a quella, di tipo teologico, che il sacrificio del Figlio resta da troppi punti di vista all’interno della logica del sacrificio. Il presupposto del pensiero di Girard è che una forma di reale demitizzazione sia impossibile. Ciò che si può fare è rovesciare il mito, rintracciando nel suo fondo oscuro una diversa luce. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, senza provare in qualche modo a dimenticarla o a negarla. Un’opera come quella di Girard ci ha costretto a confrontarci con i tratti più enigmatici della nostra condizione.



Un diffidente che preferiva Don Chisciotte ai filosofi 
ROBERTO CALASSO

Di René Girard si può dire che è stato l’ultimo dei grandi “ricci”, secondo la parola di Archiloco, su cui Isaiah Berlin ha intessuto una mirabile divagazione. Il “riccio”, a differenza della molteplice “volpe”, ha un’idea fondamentale, da cui trae un filo inesauribile di pensiero. Così Girard è stato capace di sviluppare un singolo pensiero – quello del “desiderio mimetico” – sino alle estreme conseguenze, coinvolgendo in successione alcuni grandi romanzieri dell’Ottocento, i Vangeli, Shakespeare, Clausewitz e toccando, fra l’uno e l’altro degli immani intervalli che separano questi continenti, una quantità di altri temi. Primo fra tutti quello che subito viene evocato dal suo nome: il capro espiatorio, su cui Girard ha scritto pagine che non si dimenticano.
Girard era un uomo roccioso, spigoloso, diffidente – con buone ragioni – sia della filosofia che dell’antropologia. Il vero terreno amato era per lui la letteratura, soprattutto quella dove l’intreccio è essenziale. Quindi il romanzo ottocentesco. Ma anche Shakespeare e Cervantes. Credo che Girard abbia detto, da qualche parte, che tutta la sua opera è nata da una copia del Don Chisciotte che leggeva da bambino.
Girard apparve sulla scena negli anni in cui fiorivano a Parigi, con eccessiva abbondanza, quelli che venivano definiti maîtres à penser. Fu un atto di alta saggezza, da parte sua, quello di fissare la sua base di vita negli Stati Uniti e non a Parigi. La sua fisiologia intellettuale lo rendeva piuttosto inadatto al clima ondivago degli ultimi decenni del secolo scorso. Così ebbe la fortuna di non essere mai veramente di moda. Eppure la sua opera, se confrontata con quella di altri maîtres à penser, e petits maîtres à penser, che sono stati in voga negli stessi anni, ha la certezza di rimanere viva, perché Girard è uno di quei rari scrittori che, anche contrastandoli, si dovrebbe esser sempre felici di incontrare.

 Il mistico perduto nella sua infanziaRENÉ GIRARD
Padre Ambroise-Marie Carré era così zelante nella predicazione che esercitava quest’arte persino nei teatri, nei casinò e nei cinema, dove l’accesso gli era facilitato dall’amicizia di numerosi artisti. Padre Carré non fece molto parlare di sé se non per le sue prediche e la sua intensa attività pastorale. Aveva altre cose in mente. E la più importante per lui era il dramma spirituale che ha accompagnato la sua vita. Le sue confidenze al riguardo sono poche, frammentarie, non sempre facili da interpretare. Il testo più importante conta solo una ventina di pagine. Si trova all’inizio di un libro intitolato Chaque jour je commence, pubblicato nel 1975: «[Questo ricordo] mi accompagna come una presenza al tempo stesso dolce ed emozionante. Mi accompagnerà fino all’ultima ora. Uno sguardo basta a rianimarlo, uno sguardo a quella finestra dell’edificio in cui, a Neuilly, abitava la mia famiglia. Quanti anni avevo? Quattordici, mi sembra. Una sera, nel piccolo vano che usavo come camera, sentivo, con una forza incredibile che non lascia spazio all’esitazione, di essere amato da Dio e che la vita, là, davanti a me, era un dono meraviglioso. Soffocato dalla felicità, sono caduto in ginocchio».
Ovviamente, il padre ha visto in Neuilly la più grande impresa della sua vita, un picco insormontabile. Tuttavia, con il passare del tempo, si è abituato alla sua felicità. E poco a poco l’ha ridotta a un semplice punto di partenza per una concezione dinamica del suo futuro religioso. Questo progetto riflette un’ambizione mistica tipicamente occidentale e moderna. Noi occidentali non siamo mai soddisfatti di ciò che il Cielo ci manda; sogniamo tutti conquiste originali e gesta incomparabili. Come molti altri aspiranti moderni alla santità, padre Carré ha preso per modelli quelli che la nostra società ammira, gli uomini d’azione, i «registi», gli «imprenditori» nel senso quasi americano della libera impresa. Con il passare degli anni, il padre era nell’attesa, sempre più impaziente, di nuove esperienze mistiche che non arrivavano mai.
Gli effetti di questa siccità spirituale si sono aggiunti ai disastri nel mondo e al disordine nella Chiesa per minare la fiducia di padre Carré nella bontà e talvolta anche nell’esistenza di Dio: «Signore se esisti, restituiscimi le mie certezze. E se tuttavia mi lasci nell’oscurità, concedimi la profonda convinzione che questo momento di angoscia ha la sua utilità». A che cosa padre Carré si è aggrappato per tutta la vita? All’«unico evento che abbia mai messo tanta evidenza nella fede». Invece di comportarsi come un bambino viziato e reclamare sempre di più, padre Carré comprese che avrebbe dovuto coltivare modestamente, devotamente, la grazia della sua giovinezza. Non è stato Dio a gettarlo nell’incertezza, ma la sua eccessiva ambizione. Dopo mezzo secolo di un’attesa sempre vana, padre Carré si decise finalmente a guardare le cose in faccia: per la prima volta, cercò davvero di far rivivere l’evento straordinario che, a volte negativamente, ma soprattutto in modo positivo, aveva dominato tutta la sua esistenza. E, improvvisamente, ecco che il miracolo dei giorni antichi si rinnovava. Sotto i suoi occhi, l’esperienza di Neuilly mutava e una bella addormentata nel bosco emergeva, radiosa, da una lunga notte oscura. Padre Carré cerca dei testimoni a lui vicini e ne trova; per esempio Julien Green, di cui cita una frase: «Il ricordo di una grazia passata, può essere una nuova grazia». Sembra che il testo maggiormente rivelatore sia anche il più tardivo di tutti. Si tratta di una nuova conclusione per la riedizione di un libro su La Sainteté.
Uscirà nel gennaio 2004, lo stesso mese della morte di padre Carré. È un mirabile bilancio di tutta la vita religiosa del suo autore: «Entro nel mio novantaseiesimo anno. Il Signore mi ha colmato di grazie giacché mi ha conservato così a lungo nel dolce regno della terra, probabilmente per esercitare il ministero della senilità, che consiste di preghiera e intercessione ». Lungi dal definire l’esistenza in questo mondo come una valle di lacrime, padre Carré celebra il «dolce regno della terra ». Nei suoi periodi di «concitazione», penso che si sia molto biasimato per il suo troppo amore per le cose di questo mondo. Ora, se lo perdona.

René Girard esploratore del sacro Si è spento lo studioso francese: dimostrò che il Vangelo smonta la logica del capro espiatorio 6 nov 2015  Corriere della Sera Di Alberto Melloni ©
Comprendere «nello stesso momento, perché i credenti dapprima, e sul loro esempio i non credenti poi, sono sempre passati vicino al segreto, peraltro così semplice, di ogni mitologia»: è stata questa l’ambizione e l’esito della ricerca del francese René Girard, che si è spento a Stanford, negli Stati Uniti. Una ricerca che era impossibile (lo dimostra l’intervista autobiografica del 1994 con Michel Treguer) incasellare nei riquadri angusti delle discipline accademiche.
All’inizio della sua carriera Girard è un paleografo dalla solida base di medievista, costruita nella Parigi della Liberazione dove si laurea, lui avignonese classe 1923, con una tesi sulla vita privata del XV secolo.
Negli Stati Uniti, dove trova cattedra e famiglia, è un docente di Letteratura francese, che spreme il testo in un modo che da cinquant’anni spinge filosofi, antropologi, psicoanalisti, teologi ad annettersi Girard o a ripudiarne le conclusioni costruite in un sistema complesso, al cui fondo sta la chiave del suo pensiero: cioè la scoperta del desiderio mimetico, che appare già in Menzogna romantica e verità romanzesca del 1961. Quel desiderio che porta a desiderare quel che l’altro desidera (per questo mimetico) e che — a differenza del desiderio «oggettuale» freudiano della libido, che ha bisogno di una filosofia della coscienza — genera un dinamismo triangolare fra oggetto del desiderio, l’altro desiderante e il soggetto desiderante.
Da questa ricerca iniziata con Dostoevskij arriva l’opera che ne fa un filosofo e un antropologo della religione: La violenza e il sacro del 1972 (Adelphi, 1980) elabora una teoria della genesi della religione. Nella mitologia e nella sua elaborazione filosofica e letteraria Girard ritrova l’atto iniziale di occultamento che «inganna la violenza»: il «sacro» che assorbe la violenza destinata fatalmente a nascere e la riversa su una entità non vendicabile e insieme in apparente continuità con coloro al posto dei quali viene sacrificato. Così il capro espiatorio placa e fonda la società in questa ombra religiosa che è «il sentimento che la collettività ispira ai suoi membri, ma proiettato fuori dalle coscienze che lo provano, e oggettivato».
La sfida alla antropologia e alla psicoanalisi (e dunque a Lévi Strauss e a Freud) implicita in questa opera capitale del Novecento prosegue nel testo forse più complesso e suggestivo di Girard, che è il dialogo-intervista con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort Sulle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, del 1978 (Adelphi 1983): una fitta disamina che apre al lungo corpo a corpo con il testo biblico, in una ricerca che non è «una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. È un’altra maniera di soddisfare quelle ambizioni».
Girard infatti scopre con una sua esegesi che la stratificazione ermeneutica si posa sul testo neotestamentario, in vista di una riconquista «vittimaria» del racconto: che invece, nella vicenda concreta del Gesù storiforza co, neutralizza il meccanismo del capro espiatorio. La potenza teologica di questa intuizione non sarà colta fino in fondo (solo Il vitello d’oro e L’estasi del profeta di Pier Cesare Bori andarono in quella linea e oltre): ma assumendo la «propria» religione l’ebreo Gesù ne libera la demistificatoria e smaschera la pretesa cristiana di universalizzarne il messaggio riducendolo a «dieci comandamenti» che, in nome di una etica per tutti, esalta la «unanimità della violenza».
Scoperta capitale, questa di Girard, anche per la storia: perché se la vittima diventa «Agnello di Dio» ed esce dalla sua passività regolatrice, l’uomo si vede riconsegnata la propria violenza, il religioso la propria immanenza e Dio la trascendenza sua. Gesù di Nazareth, la vittima «perfetta ed innocente» che sta dalla parte delle vittime e che come tale ingloba la fine ultima del tempo, consegna alla storia una «responsabilità» (per dirla con Emmanuel Lévinas).
In Portando Clausewitz all’estremo del 2007 (Adelphi, 2008), Girard osserva: «Il cristianesimo è la sola religione che abbia previsto il suo fallimento: questa prescienza è nata come apocalisse. Infatti è nei testi apocalittici che la parola di Dio è più energica, ripudiante quegli errori che sono interamente colpe umane che sono sempre meno inclini a riconoscere i meccanismi della loro violenza. Quanto più persistiamo nell’errore nostro, tanto più forte la voce di Dio emerge sulla devastazione. (...) Una volta nella nostra storia la verità sull’identità di tutti gli umani è stata pronunciata, e nessuno ha voluto udirla; invece ci siamo concentrati sempre più ossessivamente sulle nostre false differenze».
Le false differenze di cui, come spiega nella produzione degli ultimi anni, la violenza si ripresenta nella sua «forma di sacro corrotto»: l’immobilismo di quel «Satana» che è il nome comune di tutte le «escalation verso l’estremismo» deve essere sfidato alla radice o nel suo «inizio». Non con effusioni effimere fra «moderati», ma con l’intelligenza urticante che sa che «cercare conforto è sempre un modo di contribuire al peggio».      


Desiderio, un teatro dell’invidia
Ritratti. Filosofo, antropologo, storico delle religioni e critico letterario: addio allo studioso del desiderio mimetico, che nei suoi libri si congedò dallo strutturalismo di Lévi-Strauss e decostruì la psicoanalisi Alessandra Pigliaru Manifesto 6.11.2015
Filo­sofo, cri­tico let­te­ra­rio, sto­rico delle reli­gioni, socio­logo, antro­po­logo. Que­sto e molto altro è stato René Girard, straor­di­na­rio osser­va­tore delle rela­zioni umane. Scom­parso ieri all’età di 91 anni, lascia alle pro­prie spalle una tra le ere­dità più affa­sci­nanti e ori­gi­nali del Nove­cento. La morte, dopo una lunga malat­tia, è stata annun­ciata nel sito dell’università di Stan­ford — dove Girard ha inse­gnato fino al 1981 – gra­zie a Cyn­thia Haven che attual­mente sta ulti­mando la mono­gra­fia The Last Hed­ge­hog: René Girard, A Life.
La sua col­lo­ca­zione nel post-strutturalismo non resti­tui­sce la com­ples­sità del suo pen­siero, né dell’incessante volontà di tro­vare un varco che gli con­sen­tisse già dai primi anni Set­tanta di con­ge­darsi da Lévi-Strauss deto­nando infine la psi­coa­na­lisi freu­diana a cui, in realtà, non ha mai ade­rito inte­ra­mente se non con­cen­tran­dosi su alcuni nodi con­cet­tuali cari a chi è stato suo inter­lo­cu­tore, vicino e a tratti troppo lon­tano. Tra i tanti ricor­diamo Fou­cault, Deleuze, Bar­thes, Der­rida. Sta di fatto che la cir­co­la­zione e la rice­zione delle teo­rie di Girard sono state di rilievo mon­diale e gli hanno assi­cu­rato un posto tra gli intel­let­tuali più rap­pre­sen­ta­tivi della sua epoca. Già dal 1961, con il suo primo libro, Men­zo­gna roman­tica e verità roman­ze­sca (Bom­piani, 1965) affronta la sua teo­ria più nota, quella del desi­de­rio mime­tico. Attra­verso il romanzo moderno comin­cia a pro­fi­lare la teo­ria secondo cui il desi­de­rio è una trian­go­la­zione tra il sog­getto, l’oggetto e il media­tore (il modello) che suscita l’interesse della comu­nità scien­ti­fica inter­na­zio­nale. Che il primo nucleo della teo­ria del desi­de­rio mime­tico si inse­ri­sca in un volume di cri­tica let­te­ra­ria segnala il grande amore di Girard verso le scrit­ture, un amore con­sa­pe­vole della potenza che la let­te­ra­tura ha di spie­gare e rap­pre­sen­tare l’umana con­di­zione e ciò che la infe­li­cita, certo una signi­fi­ca­zione irrag­giun­gi­bile dalle scienze sociali. Scrive pagine den­sis­sime nel suo Dostoe­v­skij dal dop­pio all’unità (1963, poi SE 1987) e in Cri­ti­que dans un sou­ter­rain (1976), sem­pre dedi­cato al roman­ziere russo. Il pun­golo let­te­ra­rio non smette di inter­ro­garlo; fon­da­men­tale il suo Sha­ke­speare. Il tea­tro dell’invidia, del 1990 (Adel­phi, 1998) con suc­ces­sive incur­sioni nei testi di Sten­d­hal, Flau­bert, Proust e molti altri. Nella pri­ma­vera del 2008, per le edi­zioni della Stan­ford Uni­ver­sity, pub­blica il volume Mime­sis and Theory: Essays on Lite­ra­ture and Cri­ti­cism, 1953–2005 che descrive bene la for­ma­zione e il dipa­narsi del gri­mal­dello cri­tico della mime­sis all’interno della letteratura.
Il desi­de­rio non è una spon­ta­nea mani­fe­sta­zione dell’autonomia indi­vi­duale, ecco la men­zo­gna roman­tica e la con­se­guente verità roman­ze­sca che si evince da alcuni esempi che Girard, dai primi anni Ses­santa, non abban­dona. Uno tra tutti è ascri­vi­bile al capo­la­voro di Cer­van­tes là dove Don Chi­sciotte comin­cia la sua impresa imi­tando colui che con­si­dera un modello di cava­liere errante, Ama­digi di Gaula. Il mime­tico inter­viene a spie­gare che non si desi­dera mai un oggetto in maniera lineare, bensì solo in virtù di ciò che desi­dera l’altro che tut­ta­via da modello si tra­sforma pre­sto in rivale, soprat­tutto nei casi di «media­zione interna» quando cioè il sog­getto desi­de­rante e il modello si con­fron­tano reci­pro­ca­mente sull’impossibilità di desi­de­rare entrambi la stessa cosa. Il con­flitto che ne sca­tu­ri­sce può rag­giun­gere pic­chi esi­ziali dando luogo a odio, ven­detta e vio­lenza. Si desi­dera ciò che l’Altro pos­siede, certo, ma a ben guar­dare anche colui che ci fa acce­dere al desi­de­rio. E se i paraggi laca­niani a un risul­tato simile non potranno sfug­gire, la dif­fe­renza è sostan­ziale: ciò che per Lacan si trat­teg­gia nel sim­bo­lico per Girard accade su un piano antro­po­lo­gico, cul­tu­rale e sociale. Il sim­bo­lico laca­niano, per Girard, non tiene conto dell’aspetto mate­riale. Una mio­pia, la stessa che attri­bui­sce anche a Freud, verso l’esito della mimesi; quel che dav­vero dovrebbe inte­res­sare è, infatti, il momento della crisi sacri­fi­cale. È all’altezza del suo La vio­lenza e il sacro pub­bli­cato nel 1972 (Adel­phi 1980) che si con­geda dallo strut­tu­ra­li­smo e quindi da Lévi-Strauss e deco­strui­sce le posi­zioni freu­diane, defi­nendo meglio la scom­messa del mime­tico. Mostra il legame tra la teo­ria mime­tica e la vio­lenza attra­verso una rilet­tura ana­li­tica di miti e riti classici.
Se alla psi­coa­na­lisi manca l’aggancio con il reale, con la cul­tura mate­riale, che con­sen­ti­rebbe di inte­ra­gire diver­sa­mente con il mito clas­sico e con la tra­ge­dia greca, è appunto nella vio­lenza e nella sua reci­pro­cità che pog­gia il vin­colo sociale. È il sacri­fi­cio, inteso come «una vio­lenza senza rischio di ven­detta», che inter­rompe la sequela della ten­sione mime­tica con­du­cendo all’individuazione di una vit­tima espia­to­ria, un altro a cui poter attri­buire tutta la carica vio­lenta che man­de­rebbe in cor­to­cir­cuito l’intera comu­nità; un altro che possa essere espulso o ucciso e che fermi tem­po­ra­nea­mente il pro­pa­garsi della violenza.
L’innocenza è secon­da­ria. È invece inte­res­sante come il sacri­fi­cio, per essere tale, cor­ri­sponda a una resa pre­sta­bi­lita di pos­si­bili rea­zioni ven­di­ca­tive. La vit­tima è interna al sistema sociale, con­so­lida una somi­glianza con chi o cosa va a sosti­tuire, e ciò nono­stante resta un chiun­que la cui per­dita è dispo­sta come neces­sa­ria e ugual­mente tra­scu­ra­bile. Nella figura della sosti­tu­zione sta il carat­tere casuale del sacri­fi­cio rituale giac­ché se per un verso vi è una scelta rico­no­sci­bile, con­di­visa, d’altra parte è pre­sente la con­no­ta­zione del «capi­tare a tiro» di una vul­ne­ra­bi­lità. I carat­teri sacrali assunti dalla vit­tima il cui sacri­fi­cio pone fine al con­ta­gio della vio­lenza, sono della stessa inten­sità dell’attribuzione arbi­tra­ria di respon­sa­bi­lità non sue.
Tas­so­no­mie delle pas­sioni umane, i testi di Girard rac­con­tano di furore, ira, risen­ti­mento dis­se­mi­nati nei luo­ghi tra­gici più incan­de­scenti. È in que­sta dire­zione che si apre la rifles­sione su Edipo, il capro espia­to­rio di cui Freud non ha colto il tenore. Nel libro di inter­vi­ste del 1978, Quando que­ste cose comin­ce­ranno (Bul­zoni 2005) e in Il capro espia­to­rio (1982, poi Adel­phi 1987) det­ta­glia con altret­tanta chia­rezza il mec­ca­ni­smo vit­ti­ma­rio, spo­stan­dosi tut­ta­via alle cose ultime e alla parola biblica. Cat­to­lico raf­fi­na­tis­simo, viene eletto mem­bro dell’Académie fra­nçaise il 17 marzo del 2005 entrando nella cate­go­ria degli immortali.


Le due cose da ricordare su René Girarddi Armando Massarenti
René Girard è morto nei giorni scorsi all’età di 91 anni. Le sue opere più importanti sono Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani), del 1961, e La violenza e il sacro (Adelphi), del 1972. Nella prima Girard teorizza il «contagio delle passioni» e il «desiderio mimetico», di cui il cosiddetto “bovarismo” è l’esempio più chiaro.La giovane Emma Bovary non sa che cos’è l’amore e impara a desiderare solo attraverso le eroine di cui legge. Allo stesso modo Don Chisciotte rinunciava a desiderare in proprio affidandosi interamente al modello della letteratura cavalleresca. Il «desiderio mimetico» è dunque un «desiderio triangolare», presuppone l’esistenza di un mediatore. A partire da questo semplice schema Girard ha analizzato molte opere letterarie e svolto analisi assai sottili su concetti come risentimento, gelosia, invidia. L’unico modo di sottrarsi a questo modo falso di desiderare è la passione, indirizzata direttamente all’oggetto del proprio desiderio. La troviamo teorizzata nel saggio Dell’amore, di Stendhal, i cui romanzi comunque non sfuggono alla regola di Girard. Ma se pure i grandi romanzieri non si sottraggono a quella legge inesorabile, possono avere il pregio di palesarne il meccanismo. La passione potrà realizzarsi dopo aver superato il meccanismo grazie alla consapevolezza del suo funzionamento. E i romanzieri, se vogliono che la loro opera sopravviva alla transitorietà delle mode divenendo dei classici, devono scoprire questa sorgente essenziale del conflitto umano. Girard ci ha anche mostrato quanto essenziale sia, per il senso religioso, la nozione di vittima sacrificale, di «capro espiatorio». Come ha scritto ne Il sacrificio (Cortina), a lungo l’umanità ha consumato sacrifici umani. Aver pensato di sostituirli con animali, o di renderli del tutto simbolici, ha costituito un primo progresso per la religione e la civiltà. Ma il salto più grande, sostiene Girard, l’ha fatto colui che autoimmolandosi, e dichiarandosi l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ha voluto smascherare per sempre il meccanismo che spinge gli uomini – anche nella vita quotidiana – a sacrificare di quando in quando una vittima, convogliando su di lei una serie di colpe che non ha. La necessità di una vittima sacrificale è profondamente radicata nella psiche umana. Ma il progresso morale, religioso, civile, giuridico, consiste proprio nel saperla neutralizzare. Ce lo ha insegnato niente meno che il fondatore del cristianesimo. Che a non cogliere la centralità, e la carica rivoluzionaria, di questa idea siano spesso proprio i cristiani è stato uno dei crucci del pensatore francese, che avrebbe ben potuto riassumere il suo ideale di civiltà in un semplice slogan: «Mai più vittime innocenti!». 

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