martedì 3 novembre 2015

Torna "L'esausto" a 20 anni dalla morte di Deleuze

L'esaustoGilles Deleuze: L’esausto, Nottetempo pagg. 98 euro 7

Risvolto
A vent’anni dalla morte di Gilles Deleuze (4 novembre 1995), nottetempo rende omaggio al grande filosofo francese ripubblicando uno dei suoi ultimi saggi, L’esausto. Se il testo è dedicato fin dal titolo alle posture dei personaggi di Samuel Beckett, allude anche all’esperienza privata di Deleuze, a quell’epoca gravemente malato e costretto a passare seduto la maggior parte del suo tempo. “Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile”. E tuttavia, questo testo non è un saggio sulla fine, quanto su un altro, illuminante concetto deleuziano: il penultimo, la penultimità.

“Cambio,dunque sono” Il testamento di Deleuze 
Vent’anni fa il suicidio del filosofo che più di ogni altro ha incarnato lo spirito del ’68.E che ha vissuto come un personaggio di Beckett

ANTONIO GNOLI Repubblica 3 11 2015
Deleuze è morto vent’anni fa. Riverso su un marciapiede che lo accolse dopo un volo di trenta metri. Nessun biglietto per i posteri che ne giustificasse il senso. La fece finita con se stesso. Dopotutto, se l’Esserci era gettato nel mondo, secondo la celebre dicitura heideggeriana, Deleuze gettò se stesso dalla finestra. Non so quanto se ne possa ricavare dal confronto tra i due pensatori. Coglie perfettamente Giorgio Agamben, nel testo “L’esausto”: Heidegger fu una sua bestia nera. (“L’esausto” esce ora per Nottetempo con una bella introduzione di Ginevra Bompiani e un testo appunto di Agamben).
Capitava che Deleuze scrivesse commenti a testi letterari: Kafka, Melville, Proust, Carroll. Ne L’esausto riversa l’attenzione su Beckett. Colpisce questa frase enigmatica: «I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo, hanno troppo da fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere». Verrebbe da commentare che i personaggi di Beckett sono talmente impegnati sul nulla da restarne stremati. Si muovono entro geometrie rigorose e astruse (quelle di Riemann) con una feroce e bizzarra dissoluzione del loro repertorio umano.
Deleuze distingue tra esser stanco e esausto. La stanchezza può ancora trovare nuove energie. Essa non rinuncia ai bisogni, alle preferenze, agli scopi, ai significati, come invece fa l’esausto. Quest’ultimo mette fine al possibile. Si potrebbe in qualche modo riassumere così: la stanchezza è una categoria del tempo sociale che si rigenera. L’esausto è una categoria del tempo filosofico che muore.
Ma a quale filosofia si richiama Deleuze? Non c’è nulla, o quasi, nel suo pensiero che riconduca all’esperienza ordinaria (di qui la concettualità spesso paradossale ed enigmatica). Il compito dello storico della filosofia — ammesso che sia ancora una figura spendibile — non è di inanellare, come una narrazione ininterrotta, un’epoca dietro l’altra. «Lo storico — osserva opportunamente Rocco Ronchi (in Gilles Deleuze , Feltrinelli) — non racconta la filosofia, ma ne riattiva ogni volta la dimensione problematica e agonistica».
Si è sostenuto che il pensiero di Deleuze sia stato la più adeguata e interessante forma filosofica riconducibile al Sessantotto. Un testo come L’anti- Edipo — pubblicato nel 1972, in collaborazione con Felix Guattari — è stato, pur dentro i sofisticati intrecci psicoanalitici, il tentativo di cogliere la grandiosa empiria di quella stagione. L’impossibile che si rendeva possibile. Contro l’idea che l’assoluto si potesse porre solo all’esterno del reale, Deleuze immaginò un’assolutizzazione dell’esperienza. Ai suoi occhi, la metafisica non aveva mai creduto nella realtà. La divorò senza mai digerirla.
Deleuze, da empirista estremo, vide dunque nel reale (nel suo caos e disordine, nella sua vocazione anti-istituzionale) una via di uscita alle difficoltà della vecchia filosofia. Ma il reale non è una somma di fatti interpretabili che di volta in volta si isolano, o si mettono in relazione. Come ad esempio crede il pensiero scientifico. Il reale è un insieme di processi, di atti che compongono il tessuto stesso dell’esperienza. Noi, dice Deleuze, siamo dentro questa esperienza, ne prendiamo parte non già come soggetto che la costruisce, la orienta, la guida e infine ne ricava una sintesi conoscitiva. Esperienza è semplicemente divenire delle cose e di coloro che vi sono immersi. È un flusso (pensò lo stato liquido molto prima di Bauman) Il divenire ci precede e resiste a ogni tentativo di ingabbiamento o di codifica. È l’idea che Deleuze ebbe dell’immanenza.
Si potrà obiettare che in questa maniera Deleuze rinunciò alla condizione con cui l’Occidente ha guardato alla conoscenza. Ossia alla costruzione di un sapere che si serve dell’esperienza, ma in qualche modo la trascende. Ma se non potrò conoscere per quella via praticata da larga parte della filosofia, come posso dispormi di fronte al grande tema della verità? Chi sarò mai io rispetto al mondo? Deleuze avrebbe potuto replicare che non c’è una grande verità (non sarebbe il primo a dichiararlo). Ciò che questo filosofo complicato, difficile, sovente astruso ci dice è che la conoscenza non è il risultato di un superamento tra due opposte realtà. Non si nega la realtà per poi riassumerla in un contesto più nobile. La filosofia non procede per opposizione ma per variazione.
Mi pare anche qui utile il richiamo che Ronchi fa a Glenn Gould e alle Variazioni Goldberg .
Secondo il grande interprete di Bach le variazioni seguono un movimento radiale e non lineare, percorrono una circonferenza e non una retta. Non c’è una successione secondo un prima e un dopo, del tipo: accade un fatto e lo racconto. Il filosofo non è lo storico che parla dell’accaduto. Il filosofo è colui che è nell’accadere. Lo storico segue la linearità dell’accaduto ( causa ed effetto); il filosofo, per Deleuze, si colloca nell’evento. Non ha un inizio né una fine. Sta nel mezzo di qualcosa che è già stato detto e che si può solo ripetere.
Cos’è che si può ripetere? Conosciamo l’espressione: è stato detto tutto. Ma come si fa a essere originali su qualcosa che è già stato detto? L’interprete della vita, secondo Deleuze, non deve pensare secondo scansioni temporali (per fasi successive) ma come se si muovesse su dei piani. Il concetto di “piano” riveste un’importanza cruciale. Il piano non è una linea, non è una successione di fatti, ma una contemporaneità, un campo di forze, un’immanenza che coinvolge le più diverse esperienze vitali: dalla filosofia alla letteratura, dal cinema al teatro.
Deleuze ha letto il pensiero filosofico ad altezze spesso vertiginose. Ne ha imitato, più che interpretato, la voce. Platone, Spinoza, Leibnitz, Nietzsche, Bergson e Marx (al quale da ultimo stava lavorando) sono stati alcuni snodi del suo cammino.
Come pure appaiono fondamentali i confronti con Hyppolite, Blanchot, Foucault, Klossowski, Lacan. E sul piano teatrale quello con Artaud e poi Carmelo Bene. Se c’è un filo che tiene insieme questo orizzonte di pensiero è la rivendicazione di un punto di vista “minore”. Si potrebbe dire che una tale scelta operi in funzione della marginalizzazione di un pensiero che non offre mai un’ultima parola, bensì sempre la penultima. Per Deleuze tutte le lingue e i pensieri “maggiori” — i grandi sistemi filosofici per esempio — hanno cercato un approdo definitivo. Una parola ultima. Ma in realtà non c’è lingua o pensiero che non sia straniero (non a caso privilegiò il significante sul significato). È come se ogni volta il filosofo — che non è più la coscienza del mondo — debba nuovamente imparare a parlare una lingua che non conosce più. Balbetta. Borbotta. Bofonchia. Come i personaggi di Beckett. Creature “minori”. Sorprese a vivere sui bordi della Storia, quando la Storia è già tramontata.

Gilles Deleuze e la libertà sovrana di fare filosofia
Saggi. «L’esausto» di Gilles Deleuze per Nottempo. A venti anni dalla sua morte pubblicati, con i contributi di Ginevra Bompiani e Giorgio Agamben, i testi dedicati a Samuel BeckettAlessandra Pigliaru Manifesto 4.11.2015
«Troppo da dire, e oggi non ne ho la forza. Troppo da dire su quello che è suc­cesso, su quello che è suc­cesso pro­prio a me, con la morte di Gil­les Deleuze». A rac­con­tarlo, nelle pagine di Libé­ra­tion, è stato Jac­ques Der­rida il 7 novem­bre del 1995. Tre giorni prima e all’età di settant’anni scom­pa­riva Gil­les Deleuze, suo amico a cui rico­no­sceva «il mar­chio di un grande filo­sofo, di un grande pro­fes­sore». Nei ricordi che Der­rida ha dedi­cato a Roland Bar­thes, Edmond Jabès, Sarah Kof­man, Mau­rice Blan­chot e molti altri, rac­colti poi nel 2003 in un volume dal titolo Ogni volta unica, la fine del mondo, c’è il segno di una gene­ra­zione che fini­sce. È tut­ta­via Deleuze più di altri, pro­se­gue Der­rida, il «pen­sa­tore dell’avvenimento». Da quella dif­fe­renza sem­pre nomade, anar­chica e in eccesso, la fol­go­ra­zione pro­dotta dal nome di Deleuze apriva la pos­si­bi­lità di un nuovo pen­siero. Di que­sto era con­vinto Fou­cault che nel 1970, ragio­nando intorno a due dei testi più impor­tanti di Deleuze, Dif­fe­renza e ripe­ti­zione (1968) e Logica del senso (1969), com­po­neva il Thea­trum phi­lo­sphi­cum di un grande e paziente «genea­lo­gi­sta nietzschiano».
È piut­to­sto chiaro che quanto si augu­rava Fou­cault sul secolo deleu­ziano non sia imme­dia­ta­mente acca­duto, per le refrat­ta­rietà e dif­fi­denze spesso mostrate dalla filo­so­fia acca­de­mica, in par­ti­co­lare ita­liana, che invece di appro­fit­tare di quella «per­ver­sione del buon senso» inau­gu­rata da Deleuze ha pre­fe­rito in molti casi ado­pe­rarne la lezione come un qua­dro eccen­trico e dif­fi­cil­mente siste­ma­bile. Ciò detto, è altret­tanto vero che oggi, a venti anni dalla sua morte, la let­tura e la rilet­tura di ciò che hanno signi­fi­cato, poli­ti­ca­mente e filo­so­fi­ca­mente, opere come L’anti-Edipo (1972), Mille piani (1980) nel soda­li­zio con Félix Guat­tari, i con­tri­buti dis­se­mi­nati e inag­gi­ra­bili al pen­siero di Spi­noza, Leib­niz, Kant, Nie­tzsche, Freud, Berg­son, tra gli altri, cor­ri­spon­dono a una pra­tica da col­ti­vare ancora con con­vin­zione e gene­ro­sità. E non solo per quel che ebbe a dire di se stesso Gil­les Deleuze, rispon­dendo a Fou­cault, defi­nen­dosi il più inno­cente e il meno col­pe­vole per il fatto di fare filo­so­fia, ma per­ché lo spa­zio fre­quen­tato è stato della mas­sima ampiezza. Dalla scienza al cinema e la let­te­ra­tura, dalla psi­coa­na­lisi all’arte, la dirom­penza di Deleuze, sia insieme che senza Guat­tari, ha con­dotto a un ripen­sa­mento e a un’invenzione di alcune cate­go­rie cri­ti­che, un taglio nella sto­ria delle idee.
La mol­te­pli­cità sov­ver­siva negli anni feroci e vitali dei movi­menti, lo schizo e la mac­china desi­de­rante, e ancora il dive­nire stesso di «corpi senza organi», si pun­tel­lano di deter­ri­to­ria­liz­za­zioni e para­dossi — come la serie dei famosi tren­ta­quat­tro con­te­nuti in Logica del senso — guar­dano allo scar­di­na­mento stesso della dia­let­tica per assu­mere nuove cop­pie con­cet­tuali, radi­cali forme di rove­scia­mento simul­ta­neo del senso comune. Che nel 1991, sem­pre insieme all’amico Guat­tari, Deleuze scriva Che cos’è la filo­so­fia? non è un caso. La filo­so­fia infatti, come del resto si evince dal pro­getto poco pre­ce­dente dell’Abecedario, è «l’arte di for­mare, di inven­tare, di fab­bri­care con­cetti. Ma non bastava che la rispo­sta si limi­tasse ad acco­gliere la domanda; era neces­sa­rio anche che essa sta­bi­lisse un’ora, un’occasione, le cir­co­stanze, i pae­saggi e i per­so­naggi, le con­di­zioni e le inco­gnite della que­stione». Sem­bra forse un po’ stra­va­gante porsi un que­sito simile dopo anni di pra­tica filo­so­fica ma, come gli stessi autori sosten­gono nell’introduzione al volume, è una domanda che insieme a molte altre può essere pen­sata solo quando la vec­chiaia dona non un’eterna gio­vi­nezza ma al con­tra­rio «una libertà sovrana», quando cioè si mani­fe­sta lo stato di gra­zia tra la vita e la morte.
Forse è anche que­sto il con­cetto di «penul­timo» di cui parla Gine­vra Bom­piani nella splen­dida intro­du­zione a un testo di Deleuze da lei stessa tra­dotto e appena pub­bli­cato per Not­te­tempo. Il titolo è elo­quente: L’Épuisé (Minuit, 1992), ovvero L’esausto (pp. 98, euro 7) in cui l’occasione di accom­pa­gnare quat­tro piè­ces scritte e dirette da Samuel Bec­kett per la tele­vi­sione tra il 1975 e il 1982, offre una rifles­sione più ampia sull’esaurimento del possibile.
Le posture bec­ket­tiane – riprese anche nella post­fa­zione fir­mata da Gior­gio Agam­ben — sono infatti i modi in cui tempo e spa­zio si creano, si con­trag­gono e si ero­dono. Così «Lo stanco non può più rea­liz­zare, ma l’esausto non può più pos­si­bi­liz­zare». La figura dell’esausto è una ulte­riore trama, affet­tiva e di signi­fi­cati, con­se­gnata ai per­so­naggi con­cet­tuali di Bec­kett, gli stessi a cui si attri­bui­sce già ne L’anti-Edipo un’andatura simile a una minu­ziosa mac­china, quando peri­me­trano e disgiun­gono gli avve­ni­menti che capi­tano loro: «tutto si divide, ma in se stesso».
Il buco che inten­deva ope­rare Bec­kett nel lin­guag­gio, sia da scrit­tore che da regi­sta, è qual­cosa che Deleuze tiene pre­sente per scri­vere di Quad, Ghost Trio, …but the clouds…Night and dreams. Tenore e atten­zione con­se­gnati anche alla rac­colta di scritti Cri­tica e cli­nica (1993) sulla let­te­ra­tura e la scrit­tura in cui Bec­kett detiene ancora un posto pri­vi­le­giato. Eppure è nell’esausto, in que­sta forma in cui ad esau­rirsi non sono solo le forze ma il pos­si­bile, che si attra­versa la penul­tima sov­ver­sione, quella per cui le idee, le cose, le imma­gini, non smet­tono di este­nuarsi. Per arri­vare ai corpi, alla chiu­sura di ogni imma­gi­na­zione del pos­si­bile che è la pro­pria morte. Si è stati stan­chi di qual­cosa, oggi invece, direbbe Deleuze, è il pre­sente a rac­con­tarci che si è esau­sti di niente. Come durante una notte insonne, quando «le due mani e la testa fanno un muc­chietto» per dire che forse non va bene eppure si resta così, insop­por­ta­bil­mente seduti «a spiare il colpo che ci rad­driz­zerà per l’ultima volta e ci sten­derà per sempre».

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