lunedì 2 novembre 2015

Tradotta la biografia di Freud scritta da Elisabeth Roudinesco

Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro


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Élisabeth Roudinesco: Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, Einaudi

Risvolto
Dopo decenni di furori apologetici e violente condanne, fondato su rigorose ricerche d'archivio, impraticabili fino a qualche anno or sono, questo libro si propone come imprescindibile punto di riferimento storico e teorico per lo studio di uno dei massimi protagonisti dell'età contemporanea.
Vi è sicuramente qualcosa di paradossale nel dedicarsi a scrivere la biografia di qualcuno che aveva sottolineato l'inesorabile tendenza alla menzogna, alla dissimulazione, alla alterazione, al fraintendimento, all'incomprensione, propria di ogni impresa biografica - salvo il fatto di esservisi consacrato lui stesso in diverse circostanze, scrivendo addirittura la propria autobiografia e facendosi lo storico del movimento da lui fondato. Paradosso tanto piú severo, inoltre, in quanto Freud aveva costituito una disciplina e una dottrina che non si limitava a mostrare le aporie e le contraddizioni proprie del metodo biografico, ma problematizzava il carattere enigmatico del suo stesso oggetto: una soggettività divisa, costituita da istanze conflittuali, abitata da desideri e pulsioni oscuri a lei stessa, avvolta nelle spire di un sapere inconscio di cui nessuna presa di coscienza potrà mai assicurare fino in fondo la padronanza. Tutto ciò non ha impedito il proliferare di opere che, in tempi e modi diversi, con intenzionalità le piú disparate (l'apologia o la critica, la «monumentalizzazione» o la demolizione, la leggenda dorata o quella nera), hanno aspirato a dire la verità intorno alla vita, al pensiero e all'opera di un oscuro medico di Vienna destinato a rivoluzionare il nostro modo di guardare all'uomo, al suo essere, alle sue passioni, ai legami, illusioni, alla razionalità e alla sua altrettanto necessaria follia. Ma per riuscire nell'impresa di scrivere la storia veritiera e fedele delle venture e sventure di quel vero e proprio «fondatore» di un nuovo regime di discorso e di verità, destinato a cambiare per sempre il nostro modo di parlare della soggettività umana e della sua storia, occorreva tenere conto del fatto che l'invenzione freudiana ha cambiato anche il modo in cui viene scritta, e fatta, la Storia. Occorreva, insomma, collocare la scrittura della storia di Freud e della sua «creazione», nella Storia del secolo che ne ha visto l'apparizione e che, per molti versi, l'ha resa possibile. La biografia di Élisabeth Roudinesco riesce esattamente in questa impresa, rischiosa e difficile: raccontare l'avventura della psicoanalisi: la fondazione, gli sviluppi, le battaglie, i successi e i fallimenti, i protagonisti e i comprimari, le poste in gioco teoriche, le scuole e gli orientamenti, i pazienti, le vittime, ma soprattutto il suo inventore, con rigore e intelligenza profonda del fatto che, in virtú di tale avventura, la Storia, e le storie, di tutti e di ciascuno, non saranno piú le stesse.


Sigmund Freud Un drammaturgo erede di Shakespeare
La biografia di Freud di Élisabeth Roudinesco L’uso della cocaina, le sfide feroci con i colleghi, le lettere alla moglie Il mito dello psicoanalista oggi sopravvive ancora in talent e serie tvdi Giancarlo Dimaggio Corriere La Lettura 1.11.15
Leggo l’ultima biografia di Freud con una domanda che mi risuona nella testa: cosa ha permesso all’immagine di quest’uomo di sopravvivere con tanto successo alle sue stesse idee? Perché se a X-Factor Mika si improvvisa psicologo, neanche male, Fedez commenta: «Gli è stato infuso qualche gene di Freud durante la notte da qualche alieno»? Lo osservo agire.
Freud che scrive lettere alla futura moglie Martha, protestando perché non sente il suo amore casto ricambiato con la stessa intensità. Freud che sperimenta la cocaina confidando di stare per compiere una scoperta scientifica rilevante. Freud e l’avversario, il nemico-amico di cui sempre avrà bisogno, un doppio nel quale specchiarsi e un traditore dal quale difendersi. Lo stampo: il nipote John, compagno di giochi dell’infanzia. L’esempio più compiuto: Jung. Quasi li vedo a Brema, nel 1909, pronti ad imbarcarsi alla conquista dell’America. Al ristorante, Jung interrompe l’astinenza dal vino dopo anni. Freud lo interpreta come un atto di fedeltà a lui. A cena Jung racconta di leggende: corpi mummificati di uomini preistorici. Freud per tutta risposta ha una sincope. Al risveglio, spiega a Jung e Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti — la psicoanalisi di oggi gli somiglia — che il racconto indica come in Jung alberghi il desiderio di un figlio di uccidere il padre. Jung reagisce rabbiosamente: accusa Freud di delirare. Sulla nave continuano un gioco che mille volte ho visto fare nei primi anni della mia formazione: l’interpretazione reciproca. Non richiesta. Un modo raffinato di insultarsi. Jung racconta un sogno: due crani umani sul suolo di una grotta. Freud insiste: desideri la mia morte. Jung dissentiva. Si delineava la rottura. Freud che in quello stesso viaggio si diverte all’idea di come le sue idee sulla sessualità umana avrebbero scandalizzato gli americani, ai suoi occhi anime semplici e puritane. A Central Park Freud ha un problema urinario, cose che in viaggio succedono. Jung rintuzza e interpreta: desiderio di attirare l’attenzione.

Nella biografia scritta, con troppi dettagli, da Élisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro , scene come queste si susseguono senza pause. La costruzione della «Società psicologica del mercoledì». Le battaglie intellettuali contro gli eretici: Adler, Reich. Il senso perenne della scoperta, il piacere della costruzione di un sistema di pensiero. La hybris del non volerla ricondurre ad altro: non psicologia, non neurologia, non semplice filosofia. Psicoanalisi. Aveva l’intelligenza e l’ambizione sufficienti, e il carattere testardo e tirannico lo aiutavano. La curiosità febbrile della scoperta di un mondo nascosto nei meandri dei lapsus e dei sogni delle sue pazienti isteriche. La convinzione di offrire una cura efficace, potente, inaudita.
Il ruolo di Freud nella psicoterapia moderna è diventato marginale. Molte correnti di psicoanalisi seguono pratiche lontane dal maestro. Le psicoterapie dinamiche, di matrice psicoanalitica, hanno riferimenti più freschi. Ero a Montreal il mese scorso, per il congresso sui disturbi di personalità — la diagnosi che riceverebbero oggi tanti dei pazienti da lui trattati. Nessun collega lo ha citato, neanche quelli che lavorano all’Anna Freud Centre. Per capire come curare l’animo si pesca in laghi diversi. La psicoanalisi è in crisi tremenda, di praticanti e di pazienti. Leggiamo i fenomeni clinici inforcando lenti differenti. Roudinesco riporta una delle osservazioni di Freud più studiate, il gioco «Fort-Da». Protagonista il nipotino Ernst, diciotto mesi. Quando la madre si assentava giocava col rocchetto legato alla cordicella. Lo lanciava emettendo un «ÔÔÔÔÔ» che significava «Fort», partito. Poi lo richiamava a sé con un «Da», ecco. Secondo Freud era un modo di padroneggiare il dolore, esprimere sentimenti ostili e vendicarsi della madre. Una spiegazione che ormai consideriamo contorta. Meglio leggerla nel linguaggio di John Bowlby, ideatore della teoria dell’attaccamento e psicoanalista mal tollerato dalla sua comunità quando emerse. Il bambino soffre, normalmente, per l’allontanamento della madre. Si arrabbia? Niente di strano se gli si toglie l’oggetto d’amore indispensabile. Il gioco del rocchetto simulava l’allontanamento della madre, la convinzione che la madre sarebbe tornata e la gioia anticipatoria. Poi la madre morirà. Il bambino ha bisogno di mantenere il legame simbolico. Allontana il rocchetto e lo recupera. Ha bisogno di farlo, il dolore della perdita è troppo intenso. E forse in famiglia non lo avevano aiutato a esprimerlo, ci chiederemmo con curiosità attuali.
Freud che si scontra con Pierre Janet, lo psicologo che prima di lui spiegò i sintomi isterici. Janet lo sfida nel 1913 a Londra: io ho formulato da anni i concetti di analisi psicologica e subconscio. E meglio. Janet è oscurato da Freud, diventa una nota a margine dei libri di psicologia per decenni. Bowlby faticò a restare nella società di psicoanalisi. Hanno avuto la loro rivalsa, la psicoterapia che pratichiamo è quella ispirata a Janet e Bowlby, molto più che a Freud.
A questo punto la domanda mi ritorna in mente. Come mai nessuno ha preso il suo posto nell’immaginario collettivo? Cosa ha permesso a Freud di sopravvivere alla messa in mora delle sue idee? Molte riposte possibili, nessuna decisiva. Una tra tante: Freud come erede di Sofocle e Shakespeare. La tragedia riscritta in forma di sistema di pensiero. Per dire, in linea ereditaria, dopo di lui c’è Il padrino . Ma il mondo dell’arte inizia a guardare altrove, anche se Woody Allen è produttivo, Bertolucci indimenticabile e Dalì contrabbanda sogni perturbanti negli studi professionali. Freud sopravvive ne In treatment — versione americana, i consulenti italiani non sono all’altezza del compito — storie di uno psicoanalista aggiornato che riesegue alcuni canoni dell’analisi classica (la serie televisiva, con Sergio Castellitto, è trasmessa da Sky).
Gli sceneggiatori aprono altri libri. Inside out , splendido: un trattato di psicologia cognitiva delle emozioni reso narrazione. Lie to me : le espressioni facciali tradiscono la verità, le emozioni non mentono. La teoria di Paul Ekman — e Darwin — diventata strumento investigativo. Criminal minds: analisi del comportamento psicopatico basato sulle scienze della personalità.

Freud, erede legittimo della propria epoca
Psicoanalisi. «Sigmund Fued nel suo tempo e nel nostro»: Elisabeth Roudinesco inverte la «leggenda» costruita da Ernest Jones
Ivan Tassi Alias 15.11.2015, 6:00
È su questi presupposti che Élisabeth Roudinesco apre l’ambiziosa biografia Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi, pp. XII-489, 34), per dedicarsi a un’operazione di ripulitura e di demistificazione. Non si tratta soltanto di denunciare le «strampalate dicerie» dei predecessori, basandosi in primo luogo sui materiali emersi dopo la recente apertura dei Sigmund Freud Archives di Washington. L’obiettivo principale, per Roudinesco, consiste nel rovesciare la «leggenda» di cui sarebbe responsabile, assieme a Freud, anche la Vita redatta fra il 1953 e il 1957 dal suo primo biografo autorizzato, Ernest Jones.
Al contrario di quanto voleva farci credere Jones, Freud non coinciderebbe affatto con un «eroe della scienza», capace di voltare le spalle alla sua formazione positivista per poi «inventarsi tutto», dall’alto di uno «splendido isolamento» che nulla deve alla sua epoca. È stata invece quella stessa epoca a «costruire» e in qualche modo a guidare i passi di Freud; e per accorgersene basta imboccare il sentiero non battuto da Jones, inserendo «l’opera di Freud e la sua persona» nella «lunga durata della storia».

Non si può dire che l’applicazione di questa metodologia – ereditata dagli storici della scuola francese delle Annales, e già sperimentata da Henry Ellenberger fin dal 1970 – ci consegni risultati imprevedibili. Mentre ci invita a ripercorrere la carriera di Freud come una «saga» d’assalto, proiettata ad assoggettare le sfere della politica, della filosofia e della religione, Roudinesco ci restituisce l’immagine di un «conquistatore» refrattario ad ammettere i propri debiti intellettuali verso alcuni «nemici-amici» (come Josef Breuer e Wilhelm Fliess) e verso un «ambiente» che in definitiva avrebbe alimentato le scoperte della psicoanalisi, spesso accogliendole con benevolenza.
Ogni tappa della «rivoluzione terapeutica» freudiana si potrebbe per l’appunto giustificare, secondo Roudinesco, attraverso il ricorso al contesto storico. E se il pensiero di Freud, in questa prospettiva, troverebbe la propria matrice non nel più vicino positivismo, bensì nello spirito dei «lumi oscuri», dello Sturm und Drang e del «Romanticismo nero», l’origine della psicoanalisi andrebbe rintracciata nell’attenzione sociale rivolta fin dalla seconda metà del XIX secolo alla questione delle «donne isteriche» o della «masturbazione infantile»: persino l’invenzione dell’Edipo sarebbe da ancorare a un «ritorno ai tragici greci» che alla fine dell’Ottocento risultava «all’ordine del giorno».
Dal momento che simili connessioni sembrano in parte dettate dal desiderio di sabotare l’emblema di un Freud eroicamente isolato, e di imbrigliarlo a tutti i costi fra le maglie del suo tempo, conviene forse seguire il percorso biografico lungo le direttrici trascurate da Jones.
Autorizzata dalla tradizione delle Annales, che per bocca di March Bloch si raccomandava di coinvolgere nell’indagine storica ogni dettaglio della «vita quotidiana», Élisabeth Roudinesco si impegna sotto questo aspetto ad allargare a dismisura il campo d’analisi. Da una parte, la sua esplorazione ci introduce in casa Freud, per sfatare i pettegolezzi sull’entourage familiare, o per passare in rassegna la mobilia, le suppellettili e addirittura gli animali domestici che fecero da contorno alle grandi scoperte.
Dall’altra, l’itinerario si impegna ad aprire continue digressioni sull’inedito destino dei discepoli della psicoanalisi, dei suoi dissidenti e soprattutto dei pazienti che si sedettero sul divano di Freud, per registrare «i suicidi, gli errori, i resoconti delle cure» che Jones, nel tentativo di mettere in ombra gli «anti-eroi» dell’epopea freudiana, aveva passato sotto silenzio.
È in questo modo che il tragitto della biografia sembra andare incontro più alla dispersione che alla demistificazione. Sottoposta alla lunga durata della storia, e invasa dalla costante irruzione di personaggi gregari, l’avventura freudiana rischia di sfaldarsi ad ogni pagina in un reticolato policentrico di connessioni meccaniche, punti di fuga e percorsi paralleli. Non solo. Se da un lato il proposito di offrirci una immagine «meno aggrovigliata» porta Roudinesco ad allestire una biografia dove Freud, per la prima volta, viene spogliato del suo protagonismo, dall’altro quella stessa immagine, volta a sostituire la «leggenda eroica» fabbricata da Jones, non arriva ad appianare né a gettare sotto una luce davvero nuova le contraddizioni di cui continua a nutrirsi la «saga» del fondatore della psicoanalisi.
Restano infatti da sciogliere, sotto questo versante, soprattutto alcuni nodi cruciali del cammino di Freud, come il suo rapporto ambiguo e tormentato con l’ideologia della classe borghese, oppure la radice positivistica della sua formazione, qui neutralizzata a vantaggio di una componente più «faustiana» e romantica.
Al termine della ricognizione, vengono allora in mente le parole di Freud, che nel 1885, subito dopo aver distrutto la sua corrispondenza e i suoi manoscritti privati, proclamava alla fidanzata: «Che i biografi si arrovellino pure, noi non renderemo facile la loro fatica. Lascia pure che ciascuno di loro pensi che la sua ‘Concezione dell’Evoluzione dell’Eroe’ è quella giusta: già adesso mi diverto al pensiero di come se ne andranno tutti fuori strada».

Per ricostruire l’ambiente storico del fondatore della psicoanalisi mi ispirai a Le Goff
Intervista. "Insieme a Derrida organizzai nel 2000 gli Stati Generali della psicoanalisi: l’eco fu enorme, ma si spense presto" Alias 15.11.2015, 6:00
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi. Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
Lei racconta di aver seguito le lezioni tenute da Gilles Deleuze, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, poco prima dell’uscita dell’Anti-Edipo nel 1972: come lo ricorda?
Sì, sono stata un’allieva di Deleuze all’università di Vincennes: era un insegnante straordinario, che riusciva a far saltare ogni forma di dogmatismo. Non ero d’accordo con lui su molte cose e, in particolare, sulla sua proposta di interpretare l’inconscio come fabbrica e non come tragedia. Le tesi dell’Anti-Edipo, ferma restando la grandezza del libro e il valore della sua scrittura, sono secondo me piuttosto insostenibili.
La ricerca storica sul passato recente si avvale dell’analisi dei documenti ma anche della voce dei testimoni diretti. Quanto hanno contato per lei le fonti, e quanto i testimoni? E come pensa si potrà andare avanti nella ricostruzione storica, per esempio della Shoah, ma non solo, ora che la generazione dei testimoni si va estinguendo?
Oggi, in tutto il mondo, sono rimaste poche le persone che hanno potuto conoscere Freud nella loro infanzia. Nella mia biografia, le testimonianze dirette hanno contato pochissimo anche se mi sono avvalsa del grande lavoro fatto da Kurt Eissler che ne ha trascritte tante. Al contrario, nel lavoro che ho dedicato a Lacan, ho potuto contare su duecento testimonianze di persone che l’avevano conosciuto. Si teme che la scomparsa degli ultimi sopravvissuti alla Shoah possa provocare un indebolimento della memoria collettiva di questa immane tragedia. Credo si tratti di una paura infondata perché i testimoni hanno già raccontato le loro dolorose vicende, che sono state trascritte. Non credo assolutamente che la morte degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio potrà agevolare l’antisemitismo.
Lei torna sulla sua avversione a ogni forma di discriminazione e, in particolare, all’antisemitismo, anche nel capitolo della sua biografia dedicata a Freud intitolato «Di fronte a Hitler». La recente pubblicazione dei «Quaderni neri» di Heidegger ha ridimensionato la sua considerazione del filosofo tedesco?
Sono serena di fronte a questa questione, forse perché non sono mai stata heideggeriana. Il nazismo di Heidegger era già conosciuto fin dal 1933 e questo ha provocato un dramma imponendo subito a Karl Jaspers, Hannah Arendt e ai contemporanei di Heidegger un’inquietante domanda: in che modo l’autore di Essere e tempo ha potuto trovare nel nazismo una consonanza con il suo pensiero? Nel secondo dopoguerra tentò di presentarsi come una vittima mentendo sul suo passato nazista, ciò che ne fa ai miei occhi una persona esecrabile: si atteggiava a vittima senza aver mai speso una sola parola sullo sterminio degli ebrei. Ma è grottesco che in Francia si debba affrontare un affaire Heidegger, ogni dieci anni. Ciclicamente si sostiene che è stata nascosta la compromissione di Heidegger con il nazismo; ma è una mistificazione. Il brutto libro di Victor Farias, pubblicato nel 1987 e dedicato a questo problema, non deve essere letto solo come un attacco contro il filosofo tedesco ma anche contro Derrida, considerato come uno dei massimi esponenti dello heideggerismo francese. I Quaderni neri aggravano la posizione di Heidegger non solo per il loro contenuto antisemita ma per la loro collocazione nella successione dei volumi delle sue opere complete. Facendoli stampare nell’ultima parte delle Gesamtausgabe Heidegger stesso ha contribuito a nazificare per la posterità la sua opera che, invece, può essere letta in un’altra luce. Ho toccato questo problema in alcune pagine del mio libro riguardanti l’antisemitismo di Heidegger che, tra l’altro, detestava Freud, perché sosteneva fosse il fondatore di un modo di pensiero, incompatibile con quello dell’essere, che tendeva a spiegare ogni cosa in termini puramente istintuali. Non credo che la filosofia di Heidegger sia completamente indenne dalle sue scelte politiche, anche se, come ha detto Derrida, la si può leggere in un altro modo: a condizione farsi carico di questo problema spaventoso.
Sta per terminare il 2015, l’anno in cui il saggio freudiano sull’«inconscio» ha compiuto un secolo, segnando una svolta fondamentale nel sapere sull’uomo. A suo parere, esistono ancora, da un punto di vista teorico, margini di lavoro sul concetto di ‘inconscio’?
Sicuramente ce ne sono molti anche se non condivido alcuni di quelli al centro dell’attuale dibattito psicoanalitico. Penso, innanzitutto, alla questione dell’inconscio originario, un ‘oltre’ l’inconscio, che sarebbe all’origine della psicosi; è una prospettiva di ricerca che riconduce il dibattito sul trauma e la seduzione infantile a un’interpretazione giustamente abbandonata da Freud. Credo si tratti di una china pericolosa che ha condotto alcuni, come Jeffrey M. Masson negli Stati Uniti, a interpretare tutti i traumi infantili come effetti di abusi di tipo sessuale. Un altro tipo di ricerca sull’inconscio, molto attuale, lo interpreta in senso neurologico e cognitivo tentando di trovare nei neuroni la conferma di alcune ipotesi di Freud. Non credo sia una strada giusta perché si confrontano indebitamente oggetti di studio appartenenti a ambiti completamente diversi: di certo non è possibile trovare la sede dell’inconscio psicoanalitico nei neuroni.


Perché siamo tutti freudiani (anche i nemici) Intervista a Élisabeth Roudinesco, che ha pubblicato una biografia del padre della psicanalisi: “I suoi studi continuano a disturbare la nostra coscienza”FABIO GAMBARO Repubblica 31 12 2015
PARIGI «Occorreva fare un bilancio pacato dopo le polemiche infuocate degli ultimi anni». Élisabeth Roudinesco parla di Sigmund Freud, l’inventore della psicanalisi, contro il quale nell’ultimo decennio sono state mosse critiche violente che non hanno risparmiato la sua vita privata e le sue pratiche cliniche. Per questo, la studiosa francese, psicanalista e storica della psicanalisi, ha scritto una nuova accurata biografia dell’autore dell’ “Interpretazione
dei sogni”, la cui vita viene proiettata sul contesto storico-culturale in cui è nato il movimento psicanalitico: Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi). «A oltre settantacinque anni dalla sua scomparsa, Freud continua a disturbare la coscienza occidentale », spiega la studiosa. «Oggi però è diventato un classico del pensiero occidentale che non appartiene più né agli psicanalisti né agli antifreudiani. Freud appartiene alla cultura mondiale».
Come spiega la violenza delle accuse contro di lui?
«Le polemiche fanno parte della vita delle idee. Diventando importante, un movimento alimenta un’opposizione critica. Oltretutto la psicanalisi è diventata molto dogmatica. Per molti psicanalisti Freud è un mito intoccabile intessuto di leggende. Questo atteggiamento agiografico ha favorito le critiche, le quali talvolta hanno prodotto un antifreudismo viscerale. Basti pensare al Libro nero della psicanalisi o al recente volume di Michel Onfray. A Freud è stato rimproverato di tutto. Lo si è accusato di rimettere in discussione la morale sessuale e religiosa, ma anche di essere inefficace sul piano medico- scientifico».
È stato anche accusato di essere misogino...
«Non sono d’accordo. Certo era un uomo del XIX secolo per niente femminista, ma in fondo ha contribuito all’emancipazione delle donne. Era un conservatore illuminato, favorevole all’aborto e alla contraccezione. Pensava che le donne dovessero avere il diritto di lavorare e di sposarsi liberamente. Il vero rimprovero da muovere a Freud riguarda la neutralità della psicanalisi rispetto alla società e alla politica. Considerava la psicanalisi autosufficiente e ha quindi sostenuto che gli psicanalisti dovessero essere apolitici. Questa posizione spiega il suo iniziale tentativo di collaborare con il nazismo e il Göring Institut di Berlino per salvare la psicanalisi. Fu il suo grande errore.
Per spiegare questa posizione bisogna però tenere presente il suo radicale anticomunismo e ancor di più la sua opposizione a Wilhelm Reich».
Freud è stato anche accusato di essersi arricchito tramite i suoi pazienti. Fu così?
«Non è vero. Aveva un buon tenore di vita perché era un medico stimato, ma non era certo più ricco dei suoi colleghi. Non era ossessionato dal guadagno».
Eppure il ruolo del denaro nella psicanalisi ha alimentato molte polemiche...
«Non sono mancati gli psicanalisti disonesti. E soprattutto negli Stati Uniti operavano diversi ciarlatani. Anche Lacan e Verdiglione, sebbene in modi diversi, sono stati molto disinvolti e spregiudicati con il denaro».
La psicanalisi immaginata da Freud non rischia di essere una pratica riservata esclusivamente a persone colte, danarose e consapevoli di sé?
«Questa è una delle contraddizioni maggiori della pratica freudiana. Sembrerebbe quasi che la psicanalisi sia stata inventata per i personaggi di Proust, uomini e donne della belle époque. Però all’interno del movimento si è manifestata anche una dimensione filantropica che progettava cliniche aperte a tutti, sottolineando la dimensione sociale della psicanalisi».
Leggendo la sua biografia, si ha l’impressione che Freud non fosse del tutto consapevole della portata rivoluzionaria del suo pensiero. È così?
«È così. Non si rese conto che l’invenzione dell’inconscio e l’interesse per i sogni stavano trasformando le pratiche artistiche. D’altronde l’arte moderna non gli interessava. Freud non capì i surrealisti, non lesse Proust e si avvicinò a Thomas Mann solo dopo molte esitazioni. Aveva invece una grande cultura classica, che utilizzava per arricchire le sue teorie di richiami alla letteratura e all’arte. Freud è un mitografo che guarda alla letteratura e alla biologia. È un antropologo, ma non un filosofo, anche se può essere considerato un erede di Kant e nella sua riflessione non mancano tratti di Nietzsche e Schopenhauer ».
Un erede dell’illuminismo affascinato dalle forze oscure dell’irrazionale?
«È il suo tratto di fondo. Freud s’interessa a un mondo sfuggente quasi magico, ma al contempo vuole costruire un sistema di pensiero come una scienza. Il lato affascinate è proprio questo oscillare di continuo tra poli opposti. Era affascinato dalla lotta di Giacobbe con l’angelo. Animato da questa dialettica, è sempre intento a combattere contro l’ombra di se stesso. Insomma, era un uomo dell’illuminismo che s’interessava alle forze dell’irrazionale per portarle dalla parte dei Lumi».
Nella vita di Freud hanno molto contato due donne: Lou Andreas-Salomé e Marie Bonaparte.
«Sono due donne dalla personalità opposta. Lou Salomé era una donna affascinante, la cui vita è un’opera d’arte. Che una donna simile raggiungesse il movimento della psicanalisi, per Freud fu un fatto eccezionale. Lou fu il suo alter ego nel pensiero tedesco. Marie Bonaparte invece era una stravagante principessa che si annoiava. Fu salvata dall’analisi, perché avrebbe potuto suicidarsi. La sua adesione alla psicanalisi sarà fondamentale per il movimento in Francia».
Fu lei ad aiutare Freud a lasciare Vienna dopo l’Anschluss e l’arrivo dei nazisti?
«Grazie al denaro e all’energia di Marie Bonaparte, Freud partì da Vienna insieme a diciassette persone, tra amici e familiari. Fu costretto a lasciare le quattro sorelle, sperando di farle venire a Londra più tardi. Come tutti gli ebrei dell’epoca, pensava che i nazisti non avrebbero infierito su quelle donne anziane. Purtroppo le sorelle non riuscirono più a lasciare la capitale austriaca e morirono nei campi di sterminio. Ma accusare Freud di averle abbandonate condannandole a morte è un’accusa infamante e ingiusta. All’epoca nessuno poteva ancora immaginare la soluzione finale ».
In definitiva, come le appare oggi Freud?
«Un grande intellettuale che rappresenta il meglio della cultura mitteleuropea del suo tempo. Diversamente da quello agiografico degli psicanalisti, il mio Freud è un uomo torturato e in preda al dubbio, la sua è una personalità lacerata tra luce e ombra, un po’ come lo ha dipinto Sartre nella sceneggiatura che scrisse per John Huston. Il suo sistema di pensiero ha rinnovato l’interpretazione dell’uomo contemporaneo. Inoltre, al di là delle applicazioni cliniche, l’approccio psicanalitico è una scuola di lucidità per chiunque voglia conoscersi meglio».
Da psicanalista, come spiega le azioni dei terroristi che hanno insanguinato Parigi il 13 novembre?
«È difficile interpretare quei gesti terribili senza conoscere le storie individuali di chi li ha commessi. Quei giovani erano dominati da una pulsione di morte assoluta che li ha spinti al martirio e al suicidio in una logica nichilista che implica la negazione dell’altro da sé. Anche se in loro c’era forse una parte di follia, erano coscienti di quello che stavano facendo. Il loro gesto si spiega soprattutto con la conversione fanatica all’islamismo radicale. Nella società individualista e laica dove la religione non organizza più la società, la proposta del fanatismo religioso è una tentazione per persone deboli e incolte, paranoiche e incapaci d’integrarsi».

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