lunedì 14 dicembre 2015
L'Italia e la LIbia: Angelo Del Boca
Intervista. Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano ed esperto del paese
di Tommaso Di Francesco il manifesto 13.12.15
Abbiamo rivolto alcune domande sulla fase attuale della crisi libica ad
Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e esperto di Libia.
Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e
mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due
parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un
governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.
Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario?
Kobler dichiara che siamo in ritardo, che «il tempo è scaduto». Come a
dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco
perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che
erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti.
Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato
più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che
indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico
infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da
Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a
Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la
bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità.
Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due…
È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo
tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di
Tripoli e i «riconosciuti internazionalmente» filo-occidentali di
Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che
marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non
smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti
è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i
condizionamenti delle due «firmatarie» dell’intesa del 16 in Marocco.
Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di
Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire
egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime
militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall
contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli
sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella
delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani
super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso
Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da
difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo.
Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia
un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo
francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a
Derna e addirittura a Tobruk?
Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla
tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il
protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa
l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia
non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire
la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare
Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico.
Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico?
Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di
cautela «non vogliamo una Libia-bis» di Matteo Renzi è certo
apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e
dei governi occidentali alla «mancata ricostruzione». L’interesse
italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e
per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le
milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano
che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a
Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi «amici» in
Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato
in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i
santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud
nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre
responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando
gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in
Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in
un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato
ambasciatore degli Stati uniti in Libia. E’ una storia che rischia di
compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere.
Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella
destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 «perché Assad se
ne deve andare». Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che
hanno fatto in Libia.
Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al
Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di
Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per
Seif Al Islam?
Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di
«un Gheddafi». Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio
immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano
nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978
dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente
serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve
strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e
miseria, per dichiarare la «guerra agli scafisti» (dagli effetti
collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis. È fondamentale un
interlocutore — come facevamo con Gheddafi — che fermi anche in campi di
concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il
Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro
Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna
interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua
conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e
da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di
pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto:
formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del
fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di
Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo
condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che
ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di
Seif Al Islam.
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