sabato 12 dicembre 2015

Robespierre: una vita rivoluzionaria

LocandinaPeter McPhee: Robespierre. Una vita rivoluzionaria,
il Saggiatore

Risvolto
Maximilien Robespierre: tiranno, fanatico, salvatore, ideologo. Considerato da alcuni il primo, sanguinario dittatore moderno, e da altri il grande martire della Rivoluzione, da tutti stimato come uomo di incredibile fermezza l'Incorruttibile -, il teorico del Terrore è una delle figure storiche più controverse della modernità, capace di polarizzare le reazioni degli studiosi e di alimentare intorno alla propria persona un mito che spesso scolora nella leggenda. Quella di un ragazzo gracile, concepito al di fuori del matrimonio e ai margini della buona società di provincia; di un giovane che legge clandestinamente Rousseau durante gli anni del collegio, e che agli ideali di fratellanza ed eguaglianza decide di consacrare tutta la propria vita; del "difensore del popolo" che nel 1789 arriva a Versailles come rappresentate del Terzo Stato; del politico che piega il proprio sentire alle contingenze caotiche della Rivoluzione. È da questi snodi cruciali che parte Peter McPhee - fra i più autorevoli storici della Francia e dell'ancien regime - per raccontare la vicenda, personale prima ancora che politica, di Robespierre, la cui ombra si staglia imponente sulle alterne vicende della Rivoluzione: passioni, limiti, desideri confluiscono in un profilo psicologico in cui, alla volontà d'acciaio e alla distaccata carica morale, si associa una purezza idealistica a cui l'inflessibilità conferisce un minaccioso ascendente, e alla quale l'inasprirsi del conflitto diede i tratti di una ferocia estrema.


di Roberto Persico il Foglio | 03 Novembre 2015

Il giacobino fedele a se stesso 
Maximilien Robespierre. Fu uno dei maggiori «becchini» dell’Ancien Régime. Coltivò e impose una intransigente morale pubblica, ma in molte occasioni contenne il Terrore contro l’aristocrazia, rimanendo però travolto dalle stesse dinamiche da lui avviate. «Robespierre. Una vita rivoluzionaria» dello storico Peter McPhee per il Saggiatore 
Claudio Vercelli Manifesto 12.12.2015, 0:25 
Una vita durata trentasei anni, la cui fine è ben conosciuta: nata all’insegna della modestia, agli immediati margini della buona società dell’Artois, cresciuta sotto gli auspici di una condotta informata all’impegno nello studio e alla piccola promozione sociale derivante dal divenire avvocato, peraltro non privo di talento, ed infine culminata nel turbinio rivoluzionario, quando divenne protagonista quasi assoluto dei cinque anni che avrebbero sconvolto il mondo. Questa è stata la parabola di Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, meglio conosciuto, all’epoca sua, come l’«Incorruttibile» e poi il «tiranno» o «despota». Non si sposò mai né ebbe figli. La sua esistenza era interamente proiettata verso la sfera pubblica, al punto di ritenere che potesse divenire, nel nome del «governo delle virtù», una materia da plasmare costantemente. Sulle donne pare esercitasse un discreto fascino ma non certo per il suo volto butterato quanto per quel rapporto di connubio tra potere e idealità che sembrava incarnare agli occhi di molte. La seduzione della forza e dell’intemperanza dialettica, che a lui piaceva invece pensare essere il prodotto di una morale profonda, rigorosa, imperturbabile, non poteva non attrarre una discreta schiera di astanti. Non di meno, facendo rifuggire molti altri da qualsiasi legame con la sua persona. 
La sua traiettoria esistenziale, e con essa quella culturale e politica, è sufficientemente nota, andando a ricalco delle passioni di un’epoca di profondi cambiamenti. Se fosse nato in tempi diversi, in tutta probabilità sarebbe stato un buon giurista di periferia, destinato ad una qualche ascesa sociale nel momento in cui fosse entrato in rapporto con gli inamovibili centri del potere francese. Ma gli toccò in sorte di celebrare il tumultuoso declino dell’Ancien Régime, del quale fu uno dei principali becchini. Non a caso, al vitalismo che lo accompagnava, contesogli da personaggi della sua stessa indole, come un George Jacques Danton, alleato prima e antagonista poi, si accompagnò, negli anni del «terrore», un’aura di morte che anticipò la sua stessa dipartita. 
L’onda tellurica degli eventi 
Così ce lo racconta, tra le infinite cose e la miriade di aneddoti che sono offerti al lettore, Peter McPhee, Fellow professor all’Università di Melbourne, tra i maggiori specialisti della storia rivoluzionaria francese. L’edizione italiana del suo Robespierre. Una vita rivoluzionaria (il Saggiatore, pp. 358, euro 26) ripercorre non solo un’esistenza ma il suo farsi culturale prima, ideologico poi e, infine, politico, fino alla morte dettata, notoriamente, da quelle stesse circostanze di cui era stato promotore. Si tratta di un soggetto problematico, non solo perché vivacemente biografato ma per via della sua indole fortemente polarizzante e divisiva. Il suo solido razionalismo si incontrava con una propensione comunicativa che, dinanzi al tumulto dei cambiamenti intervenuti in rapida successione dal 1789 in poi, divenne impetuosa foga oratoria, spesso innamorata di sé e della sua abilità dialettica. La caratterialità, in origine mite e pacata, seguì quindi l’onda tellurica degli eventi. In parte ne fu travolta, in parte si fece travolgente. 

La migliore definizione del capo giacobino è forse quella che diede di lui, a morte già avvenuta, tale Vilate, un giovane militante, a sua volta destinato alla ghigliottina, quando lo descriveva come «lucido, molto impegnato nel lavoro, irascibile, vendicativo e imperioso». In realtà Maximilien Robespierre incarnò dal 1789 in poi il permanente stato febbrile che una parte della società politica francese, emersa dalla disintegrazione del sistema di rappresentanza regale, aveva fatto proprio. Di questa condizione, dove il mutamento repentino e impetuoso costituiva l’indice più importante, raccoglieva tutti gli aspetti di contraddittorietà: contrario per principio alla pena di morte, da lui considerata «un delitto», ne autorizzò l’ampio ricorso per «salvare l’onore della Convenzione e della Montagna», ossia l’assemblea legislativa e la fazione politica di appartenenza; avverso alla guerra, patrocinò in tutti i modi il rafforzamento dell’esercito repubblicano; egualitario e contrario ad ogni forma di privilegio, si avventurò per una strada dove il livellamento politico si traduceva nella parziale disintegrazione delle strutture sociali del Paese; presentato e poi denigrato come dittatore, di fatto non andò mai oltre l’esercizio di un indiscutibile carisma morale e una robusta influenza politica nei confronti della componente giacobina, senza per questo arrivare a controllare completamente la complessa e convulsa struttura della politica nazionale nella stagione del Terrore, tra l’estate del 1793 e quella del 1794. A tale riguardo, non è un caso se a pagare pegno fu lui medesimo, divenendo il catalizzatore prima del malcontento e poi dell’avversione nei confronti del radicalismo assunto dalle istituzioni repubblicane, alla rincorsa, sempre più accelerata, di capri espiatori e, infine, di un lavacro collettivo dal quale illusoriamente rigenerare le fondamenta del patto sociale tra gruppi e ceti in forte tensione. Di qui a farlo vittima degli eventi, tuttavia, ne corre. 
L’ossessione del complotto 
Robespierre porta su di sé molte responsabilità nel deragliamento terroristico dei processi rivoluzionari. «Terreur jusqu’à la paix», si diceva allora. Cercò di mitigarne alcune estremizzazioni, soprattutto durante la prima guerra di Vandea, quando i massacri a danno dei civili compiuti dalla guardia nazionale repubblicana avviarono la lunga prassi di una politica di repressione indiscriminata contro gli insorgenti, la quale si sarebbe ripetuta nel corso del tempo, diventando una triste abitudine nel Novecento. Di tale condotta, peraltro, non se ne avvantaggiò mai, vedendo piuttosto crescere il capitale politico di credibilità dei suoi avversari che, nel mentre si davano alle violenze, ne riversavano la responsabilità su di lui, alternativamente accusandolo di debolezza e di inadeguatezza. Anche per tali ragioni, l’ossessione per la corruzione e il complotto, l’angoscia per la controrivoluzione incombente insieme all’esaltazione del governo dei virtuosi, espressione della volontà popolare, posero le basi per l’annichilimento delle potenzialità insite nel grande trapasso che la società francese stava vivendo in quegli anni. 
Robespierre, che pure non era tra i più estremisti, si fece coinvolgere in un brutale gioco al ribasso, arrivando a licenziare la legge contro i «nemici della Rivoluzione e del popolo» del 10 giugno 1794, che cancellava di fatto il diritto degli imputati alla difesa, il ricorso in appello, il giudizio alternativo alla piena assoluzione o alla totale condanna e stabilendo, infine, che il mero sospetto fosse di per se stesso elemento sufficientemente probante. Dirà Saint Just che «tutto ciò che sta succedendo è orribile, ma necessario», inconsapevole che lui e Robespierre si stessero in tale modo scavando la fossa. Entrambi, infatti, non avevano capito che la battaglia per ristabilire la legalità, minacciata dalle congiure degli aristocratici, dalla mobilitazione di una parte della società rurale, in rotta di collisione con i centri urbani e metropolitani, dalle pressioni internazionali, non potesse esulare dalla questione della liceità delle condotte assunte. Più che una questione di ordine etico era un punto di natura politica. 
Robespierre, come racconta in più passaggi McPhee, stava perdendo la capacità sia di fare coalizione che di raccogliere consenso, due peccati capitali per un politico. Mentre invece pesavano sempre di più la sua crescente incapacità di confrontarsi con i dati dell’oggettività, tanto più se sgradevoli e quindi ineludibili. Un fatto, questo, che ne segnò definitivamente l’isolamento. Mentre il Comitato di salute pubblica, controllato dallo stesso Robespierre con Saint Just e Couthon, andava configurandosi come un circuito di potere dai tratti dittatoriali, l’aggressività degli atteggiamenti contro i suoi stessi interlocutori, il solipsismo e la fuga intellettuale in una concezione puramente astratta degli obblighi della Repubblica, erosero velocemente il residuo capitale di credibilità. Ne derivò il formarsi di una coalizione eterogenea di avversari, accomunati dalla volontà di ribaltare il governo giacobino. 
I termidoriani, come sarebbero poi stati conosciuti, posero temine, il 28 luglio del 1794, all’esperienza politica di Robespierre così come alla sua stessa esistenza. Ghigliottinato nelle ore successive all’arresto, senza processo, tra il tripudio popolare, finiva la vita come l’aveva vissuta, in una sorta di accelerazione continua, fino alla perdita del controllo di se stesso e del suo destino. Per molto tempo la sua immagine, a quel punto dai più detestata, fu sottoposta ad una sorta di astiosa dannazione, attribuendo al personaggio politico più colpe di quante non gli appartenessero concretamente. 
Una categoria controversa 
Quello che era oramai divenuto un pregiudizio fu mitigato solo a più di cent’anni dalla morte quando una parte della storiografia, confrontandosi con il fenomeno del fascismo, ne recuperò l’intransigenza rivoluzionaria ma anche l’idea di democrazia dal basso. Così per autori come Albert Mathiez, Georges Lefebvre e Gerard Walter. Diverso è il richiamo che si è fatto in anni più recenti, dove la disinvolta equiparazione del passato francese ad alcune tragedie del Novecento ha portato ad accostare di nuovo il rivoluzionario alle peggiori vicende dello stalinismo, stabilendo un’arbitraria linea di continuità tra trascorsi differenti. 
Il dibattito, condensatosi intorno alla controversa categoria del totalitarismo, è sufficientemente noto per essere anche solo richiamato. Peter McPhee non se ne occupa, peraltro, impegnato com’è a consegnarci una biografia non necessariamente inedita ma del tutto estranea a qualsiasi clamore, molto attenta a cogliere gli innumerevoli fili di un’esistenza breve, intensa e contraddittoria. Di sé, non a caso, Robespierre diceva, a titolo di inconsapevole epitaffio: «sono popolo io stesso! Non sono mai stato nient’altro, e voglio essere soltanto questo!». Il popolo non è detto che gliene sia stato riconoscente.

Il paranoico Robespierre 
Ossessionato da congiure e complotti, non sapeva distinguere tra dissenso e tradimento Legato al Vangelo Aveva rispetto per la religione, si oppose a qualsiasi tentativo di «decristianizzazione» 
19 feb 2016  Corriere della Sera Di Pietro Citati 
Maximilien-Marie-Isidore Robespierre, nato ad Arras nel 1758, fu il più idolatrato ed esecrato uomo politico della Rivoluzione francese (Peter McPhee, Robespierre, traduzione di Luca Fontana, Il Saggiatore). A trentun anni, raggiunse Versailles e poi Parigi. Aveva una giacca nera di panno, un panciotto di seta, un panciotto di raso, tre paia di pantaloni, sei camicie, sei colletti, sei fazzoletti, tre paia di calze, un paio di scarpe consumate. Si occupava molto della propria apparenza e della propria parrucca. Non era attraente. Era piccolo, anche per i suoi tempi, con un viso pallido e butterato. Aveva la vista debole, e a volte portava due paia di occhiali. Un incontrollabile tic nervoso gli deturpava gli occhi e la bocca. 
Anche i giornali monarchici ammiravano la sua integrità morale: per i rivoluzionari, era l’Inflessibile, l’Incorruttibile, il Tesoro del popolo, l’incarnazione della Virtù nella storia del tempo. Gli avversari cercavano di spiare dietro questa apparenza virtuosa. Un oscuro rivale scriveva: «Il tuo fiato mefitizza l’aria pura che noi respiriamo. Il contrarsi delle palpebre esprime tuo malgrado la turpitudine della tua anima». Un altro nemico sosteneva che era un uomo truce, triste, bilioso, scontroso, geloso del successo dei suoi amici: aveva un’aria sgradevole, come quella di un gatto; e di continuo i suoi insidiosi occhi di felino dardeggiavano di qua e di là il terrore. «Guardatelo», disse un deputato. «Non gli basta essere il padrone. Vuol essere anche Dio». Qualcuno immaginava che fosse il Messia, a cui Dio aveva promesso di riformare ogni cosa. Qualcuno sosteneva che quell’aria di Messia fosse completamente fittizia. Per quasi tutti, amici e nemici, Robespierre era l’unico, vero Tiranno, tra le centinaia di mediocri membri della Convenzione, e sembrava uscito da una pagina di Tacito. 
Arras, la sua città natale, era chiamata «la città dalle cento guglie»: un bastione di fede, un centro di potere della cultura ecclesiastica. Nell’ottobre del 1769, a undici anni, Robespierre venne condotto per la prima volta a Parigi: entrando in città, vide le strette strade sporche e puzzolenti, brutte case nerastre, e respirò il fetore delle Halles. Entrò in un famoso Istituto: il collegio Louis-le-Grand, dove studiò con passione e pertinacia, senza perdersi mai d’animo, brillando tra i compagni. Gli studi erano il suo Dio. Parlava poco: parlava soltanto quando gli altri sembravano disposti ad ascoltarlo, e sempre in tono deciso e sicuro di sé. Sebbene disperatamente insaziabile di lodi, le riceveva con un’aria di fredda modestia. Lesse l’Etica di Aristotele: le Vite di Plutarco: Virgilio, Cicerone, Livio, Tacito; e soprattutto Rousseau, l’Émile, il Contratto sociale, La Nuova Eloisa. 
Da Rousseau apprese una parola, virtù, che nel resto della vita pronunciò e scrisse milioni di volte. Pensava di essere un «uomo virtuoso», chiamato a creare uno «Stato della virtù»: doveva rigenerare completamente il mondo, formando un nuovo popolo. «Noi — scriveva — vogliamo un ordine di cose in cui tutte le passioni basse e crudeli sono incatenate, e tutte le passioni generose e benefiche sono risvegliate dalle leggi. Noi vogliamo sostituire la morale all’egoismo, la probità all’onore, i princìpi agli usi, l’impero della ragione alla tirannide della moda, tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e al ridicolo della monarchia». 


Raggiungere la virtù era terribilmente arduo. Si poteva raggiungerla solo attraverso il terrore: condannando, torturando, soprattutto mandando a morte i nemici del popolo. «Durante la Rivoluzione», egli scriveva, «il movente principale del governo è a un tempo la virtù e il terrore: la virtù senza la quale il terrore è funesto; il terrore senza il quale la virtù è impotente; il terrore che è giustizia, pronta, severa, inflessibile giustizia». Noi — insisteva — possiamo essere buoni soltanto se dietro ogni nostra parola, ogni nostra azione, appare ed echeggia la realtà, l’ombra, la terribile musica della ghigliottina. 

La virtù aveva bisogno di un secondo soccorso: la religione. Robespierre aveva un profondo rispetto per la religione, che considerava come la stoffa squisita su cui ricamare la propria esistenza. Durante tutta la sua attività politica, anche quando parve più vicino alle idee radicali, si oppose con violenza a qualsiasi tentativo di «decristianizzazione». Esaltava la dottrina di Cristo, ed era convinto che il regno della superstizione fosse quasi alla fine. Per quanto possibile, evitava di attaccare la Chiesa. Quando, il 25 novembre 1793, la Comune decise di chiudere tutte le chiese di Parigi, pronunciò un discorso appassionato, insistendo che la Convenzione non avrebbe permesso di perseguitare i ministri del culto. «Se Dio non esistesse — diceva — bisognerebbe crearlo». Il culto dell’Essere Supremo, che egli proclamò nell’ultima parte della sua vita, si rivolgeva sia agli elementi popolari sia a quelli «illuminati» della Chiesa. 

Nel 1789, subito dopo la presa della Bastiglia, Robespierre esaltò la causa della Rivoluzione. «L’aristocrazia sta morendo», diceva, «ma la sua protratta agonia non è senza convulsioni». Diventò membro del Club dei giacobini, dove parlava di continuo, con freddezza e furore. Fu eletto vicepresidente e poi presidente della Convenzione: primo deputato del V arrondissement, davanti a Danton e a Desmoulins; entrò nel Comitato di Salute pubblica, che nella primavera del 1794 dominò completamente. Nel settembre 1792, aveva appoggiato l’abolizione della monarchia e la proclamazione della Repubblica. «Il regno dell’eguaglianza comincia», annunciò. 
A Parigi, iniziarono i massacri. Mentre gli eserciti stranieri varcavano le frontiere, tribunali popolari frettolosamente convocati condannarono a morte milleduecento persone: vennero uccise le guardie svizzere: sterminati i ribelli della Vandea; arrestati e poi ghigliottinati molti deputati girondini. Il 3 dicembre 1792, Robespierre disse: «Aborro la pena di morte. Non ho per Luigi XVI né amore né odio: odio soltanto i suoi misfatti. Luigi deve morire perché bisogna che la patria viva». Un mese dopo il re fu condannato a morte, e il 21 gennaio 1793 andò al patibolo, seguito da Maria Antonietta. 
I massacri si moltiplicarono: Hébert, Danton, Desmoulins e i loro seguaci. Nell’aprile 1794 seimila sospetti affollavano le prigioni di Parigi: otcomplotto».
Si ammalò: era sempre sull’orlo del collasso. Ci furono voci di avvelenamento. Quando compì i trentaquattro anni, era fisicamente, emotivamente, intellettualmente esausto. Paul Barras, che lo conosceva bene, scrisse: «Gli occhi spenti e miopi si fissarono su di noi. La faccia era di un pallore spettrale, con tinte verdastre. Stringeva a pugno e rilassava di continuo le mani, con un tic nervoso; e anche il collo e le spalle avevano spasmi convulsi». Nel luglio 1794 disse a un amico: «Sono il più infelice degli uomini». 
Il 26 luglio 1794 proclamò l’esistenza di una cospirazione definitiva contro di lui. Non sapeva distinguere tra dissenso e tradimento. In quel momento, anche i deputati giacobini — i suoi deputati — si persuasero che la sua morte era «necessaria». Quando salì sulla tribuna, fu zittito da grida: «Abbasso Robespierre! Abbasso!». Un deputato sostenne che le sue spie seguivano ogni istante i membri della Convenzione. Un altro richiese un decreto d’accusa contro di lui. Robespierre gridò: «Condannatemi a morte!». La Convenzione ordinò l’arresto di Robespierre, di Saint-Just e di altri robespierristi, che vennero chiusi in prigioni diverse. 
Il giorno dopo Robespierre tentò di uccidersi con una pistola. La pallottola gli fracassò i denti e la mascella. Era senza scorta, con le calze scivolate in basso, i pantaloni sbottonati, e tutta la camicia imbrattata di sangue. Quando venne condannato a morte, chiese carta e penna, per rivelare i suoi ultimi pensieri. Gli fu rifiutato. La ghigliottina fu portata a place de la Révolution, sul lato est delle Tuileries. Venti robespierristi vennero uccisi. Robespierre fu il ventunesimo. A malapena riuscì a salire i gradini del patibolo, con la testa avvolta in un panno sudicio ed insanguinato. Quando il boia gli strappò il bendaggio, la mascella inferiore di Robespierre si staccò del tutto e cadde al suolo. Fu sepolto in una fossa comune nel cimitero di Errances. Era il 10 termidoro: il 28 luglio 1794. Il Terrore era finito, divorando chi l’aveva immaginato.

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