domenica 20 dicembre 2015

Salvadori, Salvati e gli altri: l'establishment intellettuale italico rinuncia volentieri alla democrazia per immenso amore di Matteo

Responsive imageMassimo L. Salvadori: Democrazia. Storia di  un’idea tra mito e realtà, Donzelli

Risvolto
La democrazia – il potere, il governo, la sovranità suprema del popolo – ha sempre costituito, dalla Grecia antica in poi, un problema: circa il modo di intenderla, le sue possibilità di attuazione, i suoi lati positivi o negativi, il suo essere soprattutto un mito o anche una realtà. Dal Settecento in avanti non sono mai venute meno le aspre divisioni che hanno contrapposto i fautori della democrazia diretta ai sostenitori della democrazia rappresentativa. In queste pagine, uno dei maggiori storici della politica ci consegna un’opera destinata a durare, con un duplice intento: da un lato ricostruire la storia del pensiero dei grandi filosofi politici classici – dall’età di Pericle a quella contemporanea – sul tema della democrazia e sui suoi dilemmi, dall’altro offrire una serie di riflessioni sui limiti e persino gli stravolgimenti che la sovranità popolare in quanto mito, potente ideologia, progetto astratto, ha conosciuto e non poteva non conoscere nelle sue molteplici attuazioni. A corollario di questo doppio livello di lettura, Salvadori mette a fuoco il processo di grave deterioramento che la democrazia liberale – proclamata trionfante dopo il crollo politico e morale del comunismo totalitario che aveva preteso di incarnare la «vera» democrazia – ha subito a partire dall’offensiva vittoriosa del neoliberismo iniziata alla fine degli anni settanta del secolo scorso, la quale ha spostato in maniera crescente il centro del potere decisionale dai singoli Stati alle grandi oligarchie finanziarie e industriali sovranazionali. Una situazione, questa, che induce a domandarsi quale possa essere il futuro della democrazia e quali le modalità della sua difficile, incerta rinascita.

L’utopia del popolo al potere legittima il governo delle élite 
20 dic 2015  Corriere della Sera di Michele Salvati © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Tra le strenne natalizie ogni tanto si infila un libro serio, un libro di studio, da conservare e a cui ritornare. Il libro di Massimo L. Salvadori Democrazia (Donzelli) si può leggere di seguito, capitolo dopo capitolo, come si legge una storia. Perché è una storia, la Storia di  un’idea tra mito e realtà, come dice il sottotitolo: l’idea di democrazia, «dall’antica Grecia al mondo globalizzato», specifica il frontespizio. O si può leggere il capitolo che interessa, quello su Machiavelli o Rousseau, sulla Rivoluzione francese o Tocqueville, su Schumpeter o la Democrazia cristiana, sul comunismo o sulla democrazia liberale. Dunque, insieme, un libro di storia e di consultazione, scritto in una prosa semplice, con tutti i riferimenti necessari ad approfondire l’autore o il momento storico che interessa. E reso avvincente dalla percezione, sempre più chiara mano a mano che si procede, che sotto la storia c’è una biografia, la biografia di un autore che sul problema della democrazia ha ruminato per decenni, che su questa forma di governo ha intrattenuto illusioni, che per un breve periodo l’ha vissuta come uomo politico, e che su di essa ha raggiunto una conclusione serena. 
«La democrazia, quando la si intende come il potere del popolo, continua a restare prigioniera di un dilemma irrisolto: da un lato si fonda sul principio che il potere debba appartenere all’insieme del popolo; dall’altro l’esperienza offerta da tutti i regimi definiti come democratico-liberali dice che questo insieme non può esprimersi e agire se non per mezzo delle élite che lo dirigono, lo rappresentano, e anche lo manovrano. (...) Ma tra la democrazia intesa in senso forte e la democrazia ridotta a mera formula (…) vi è uno stadio intermedio che ha già avuto una storia e che è possibile abbia ancora una storia: un sistema in cui il potere non risulti del tutto sbilanciato da una parte». Anche se è improprio definire questo sistema come democrazia (…in senso forte), «è stata la storia che chi scrive ritiene aver trovato la sua migliore espressione nel “compromesso socialdemocratico”». Con queste frasi si chiude il libro di Salvadori. 
Raramente è una buona strategia, per raccontare un libro, cominciare dalla fine. Ma questo è un libro singolare: è sì una storia, ma è soprattutto una raccolta — ordinata storicamente lungo i 2.500 anni presi in considerazione, dalla Grecia di Pericle alla globalizzazione di oggi — delle riflessioni che maggiormente hanno contribuito a farci comprendere che cosa sia stata e cosa sia oggi questa forma di governo. E delle circostanze politiche e sociali che a quelle riflessioni dettero origine. Dunque un insieme di quadri e di ritratti — di politici, di studiosi, di momenti storici di cambiamento intenso — staccati l’uno dall’altro nel tempo e nello spazio, anche se tutti radicati nella cultura occidentale: Salvadori è critico del tentativo di Amartya Sen di iscrivere altre culture nella storia della democrazia. Ho allora cominciato dalla fine — dalle concezioni disincantate, ma non totalmente prive di speranza, che oggi Salvadori condivide — perché queste fanno capire meglio il percorso politico e intellettuale dell’autore ed evitano di assimilare quest’insieme di ritratti e di quadri storici tra loro staccati a una antologia universitaria di dottrine politiche. 
Se si vuole, il libro può essere usato a questo scopo, anche se le scelte dell’autore non derivano tanto da un intento didattico, quanto da un percorso di ricerca individuale. I ritratti di singoli studiosi e politici e i quadri storici meglio riusciti sono quelli sui quali Salvadori si è interrogato più a lungo e da cui ha tratto le sue conclusioni politiche più forti: Tocqueville e gli studiosi e protagonisti della democrazia americana dell’Ottocento, Marx, Kautsky e le vicende del socialismo e del comunismo, Max Weber, John Stuart Mill. Ma tutti i medaglioni sono utili ed efficaci, anche quelli di autori e momenti che Salvadori non ha approfondito nei suoi studi. Rispetto agli studiosi che arrivano a queste opere di sintesi provenendo dalla filosofia o dalla scienza politica, Salvadori ha il grande vantaggio di provenire dalla storia: anche argomenti molto teorici e astratti sono inquadrati in un contesto descrittivo storicamente ricco, che ne rende la lettura agevole e la comprensione approfondita quanto basta a un non specialista: il resto lo fanno i rimandi bibliografici. 
Tutte luci, niente ombre? In una storia di questa ampiezza e ambizione di ombre ce ne sono ovviamente molte, anche se chi scrive fa fatica a vederle, perché proviene da un percorso intellettuale molto simile a quello dell’autore, suo coetaneo e compagno di esperienze politiche. E perché, più o meno, nei confronti della democrazia è arrivato alle stesse conclusioni, disincantate, ma non prive di speranza: quantomeno la speranza che in qualche forma politica futura, anche se non propriamente democratica, «il potere non risulti del tutto sbilanciato da una parte». In una presentazione che non si rivolge a specialisti, tralascio una elencazione di punti di dissenso o una segnalazione di lacune e mi limito a indicare l’«ombra» più evidente, quella che si stende sugli ultimi due capitoli del libro, dedicati all’evoluzione della democrazia negli ultimi trent’anni, nell’era del neoliberalismo e della globalizzazione. La riflessione in materia è ben lontana dall’essersi assestata e richiede competenze, soprattutto di natura economica e di relazioni internazionali, che l’autore non controlla direttamente. 
Tolti alcuni grandi nomi — Bobbio, Dahl, Sartori — egli è allora costretto ad affidarsi a una letteratura corrente di qualità eterogenea e ne fa buon uso: la definizione dell’attuale democrazia come «governo a legittimazione popolare passiva» è convincente. Ma, ed è inevitabile, la sua guida è meno sicura di quanto lo sia stata per i periodi precedenti, sui quali l’autore ha dato contributi importanti e per i quali i materiali storici sono più abbondanti e più solidi.

Il simulacro reale della sovranità popolare 
Saggi. «Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà» di Massimo L. Salvadori. La rappresentanza è stato uno dei capisaldi della politica moderna. Che è andato in frantmi sotto i colpi del mercato
Carlo Altini Manifesto 9.1.2016
La democrazia è un mito o è una realtà? Se finora è stata solo un mito, possono comunque darsi le condizioni per una sua realizzazione? E se invece è anche una realtà, quale rapporto esiste tra l’idea regolativa della sovranità popolare come forma di autogoverno e la sua realizzazione concreta? A queste e altre domande sulla storia e sulla teoria della democrazia cerca di rispondere il volume Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pp. 507, euro 35). 
Oggi è difficile individuare un concetto che goda di maggiore fortuna rispetto a quello di democrazia, diventato un ingrediente irrinunciabile per l’autodefinizione di qualsiasi movimento, tanto che nessun attore sulla scena politica può definirsi antidemocratico, pena la sua immediata cancellazione dal dibattito pubblico: «democrazia» non indica più solo una forma di governo o un insieme di regole procedurali e istituzionali, ma l’intero orizzonte assiomatico dei paesi occidentali. 
I nodi del problema 
Questa fortuna dell’idea di democrazia non è però priva di ambiguità, tanto da condurre a un suo uso ideologico e strumentale, attraverso cui essa viene trasformata in un passepartout utile a giustificare qualsiasi opzione politica. Proprio per fare chiarezza sulle ambiguità del principio democratico il volume di Salvadori fornisce strumenti di comprensione concettuale e presenta una prospettiva critica – sia storica che teorica – sull’idea di democrazia. 
Sul piano storico il volume ricostruisce il lungo viaggio della democrazia dalla Grecia classica a oggi, passando per le teorie liberali e le filosofie illuministiche (Spinoza, Locke, Montesquieu, Rousseau), le rivoluzioni americana e francese, il marxismo, il pensiero repubblicano (Mazzini), le lotte per il suffragio universale, la competizione tra i partiti per giungere al governo (Kautsky, Weber, Kelsen, Schumpeter) e l’affermazione dello Stato sociale. 
Il volume costituisce pertanto un compendio enciclopedico delle varie posizioni che sulla democrazia si sono venute consolidando in Occidente lungo venticinque secoli di storia. Ma l’aspirazione dell’autore non è puramente erudita o antiquaria. Sul piano teorico Salvadori analizza infatti numerose questioni connesse all’idea di democrazia (volontà popolare, costituzione, rappresentanza, diritti, partiti), alla luce di una piena consapevolezza delle patologie delle democrazie contemporanee. 
L’ideologia del potere 
Guardare alla sostanza dell’attuale democrazia liberale rappresentativa significa rendersi amaramente conto che essa è altra cosa rispetto al potere sovrano del popolo. Per certi aspetti, significa rendersi conto che la democrazia non ha trovato applicazione perché non può trovarla: «Nessuno meglio di Kelsen ha chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata soltanto quella diretta degli antichi, ma quest’ultima è incompatibile e inapplicabile nelle società complesse. L’unica forma realizzabile di democrazia è la rappresentativa, ma tale forma comporta di necessità il trasferimento della sovranità dal popolo ai suoi rappresentanti, titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia stessa». Il sistema rappresentativo moderno lascia dunque al popolo una quota di potere che nulla a che fare con l’ideale della piena sovranità popolare. 
Naturalmente Salvadori non nega l’importanza dei movimenti di emancipazione che, soprattutto nel XIX e XX secolo, hanno realizzato migliori condizioni di vita per le classi popolari. Al contrario, l’autore sottolinea come la giustificazione (e la sopravvivenza) dell’idea di democrazia sia interamente dovuta al successo di queste lotte per i diritti civili e per le riforme sociali. Ma tutto ciò non deve impedire di vedere che il principio della sovranità popolare non ha mai avuto un pieno riscontro effettivo nell’esercizio concreto del potere. Esso è stato affermato solo astrattamente e utilizzato come ideologia di legittimazione del potere, perché al popolo è stata lasciata l’illusione della sovranità (per esempio, grazie all’esercizio del voto nelle competizioni elettorali): la natura dei sistemi democratici è dunque riducibile alla combinazione delle istituzioni liberali con il suffragio universale. 
La democrazia moderna si colloca così a metà strada tra il mito e la realtà: se intesa come aspirazione all’autogoverno, essa è un mito; se intesa come strumento per l’emancipazione civile e sociale delle classi popolari, essa ha raggiunto alcuni importanti obiettivi (sistema pensionistico, scolastico, sanitario ecc.) probabilmente impensabili in altre forme di governo. 
Oggi però, sotto la spinta delle teorie neoliberali, anche questa interpretazione realistica della democrazia moderna sembra diventare utopistica, a causa dell’arretramento delle politiche sociali che comprime l’unico spazio di sovranità popolare davvero realizzato tra Ottocento e Novecento, quello del welfare state. Stiamo così assistendo a un progressivo scivolamento in forme di plutocrazia demagogica che, imponendo il dominio del «mercato», hanno ricreato rigide diseguaglianze sociali di «ceto» attraverso l’uso ideologico del lessico delle libertà, ma di fatto svuotando l’idea stessa di democrazia, ridotta a esistere solo nelle cabine elettorali. 
Derive paternaliste 
Questa deriva reazionaria della democrazia è oggi evidente proprio negli esiti patologici del consenso populistico-plebiscitario che innerva il dispotismo «morbido» tipico delle post-democrazie contemporanee, esito del declino della rappresentanza e della supremazia di oligarchie cosmopolitiche che si formano in modo non trasparente all’incrocio tra politica, economia e comunicazione. L’attuale crisi della democrazia riposa infatti su una crisi sociale e culturale che ha visto in Occidente la frantumazione delle identità collettive e l’affermazione di forme di passività che hanno tolto significato a parole quali partecipazione e autogoverno. Frenare questa deriva paternalistica della democrazia, segnalata già da Tocqueville, non è certo facile, secondo Salvadori, ma richiede almeno una consapevolezza: «Guardando allo stato delle cose non resta se non concludere che il demos ha perso la partita nei confronti delle oligarchie . Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno del demos oggi umiliato e offeso di dotarsi del necessario vigore e dalla sua capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere». Il destino della democrazia, come sempre, è nelle nostre mani.

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