venerdì 18 dicembre 2015

Tocci, la scuola pubblica e l'inutilità della sinistra PD

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Cosa aspettano Renzi e Boschi? [SGA]

Walter Tocci: La scuola, le api e le formiche. Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative, Donzelli, pp.192, euro 19,50

Risvolto
«In natura ci sono due comunità operose: le formiche che curano la vita in comune e le api che scrutano nuovi paesaggi. Ecco una sorta di manuale per i riformatori dell’istituzione scolastica: formicai accoglienti per le domande dei giovani, per i migranti, per gli adulti che tornano a studiare. E favi sapienti, alimentati dalla curiosità per il nuovo mondo e dalla creatività della didattica. Sono questi i mondi vitali che salvano l’educazione dalle ossessioni normative. Così sono maturate le buone opere e i giorni migliori della scuola italiana. per editto è venuto ben poco».
La «Buona scuola» è una riforma mancata, ma una riforma mancata non è affatto innocua. Essa delude per la scarsità di proposte davvero innovative e va ad alimentare la sfiducia per gli insuccessi di tutte le leggi approvate nell’ultimo ventennio. Ha il difetto di complicare la vita delle scuole senza risolverne i problemi strutturali: la diseguaglianza nell’accesso e nell’esito dell’istruzione, soprattutto nel Mezzogiorno; la struttura dei cicli vecchia e ridondante, che costringe i giovani a rimanere a scuola un anno in più, perdendo nelle superiori i buoni risultati raggiunti dalle elementari; la regressione degli apprendimenti negli adulti che colloca l’Italia agli ultimi posti, altro che «superpotenza» culturale. Ci si poteva attendere una risposta coraggiosa a tali questioni da una classe politica giovane che ha mostrato una volontà di cambiamento. Invece, si è scelto di procedere lungo la strada già tracciata dai governi precedenti. All’enfasi comunicativa sulle riforme epocali sono seguite sempre alluvioni normative che hanno ostacolato le migliori esperienze didattiche. Nei venti anni di tentativi si sono sedimentati luoghi comuni e vincoli ideologici che hanno frenato fino a oggi una vera azione riformatrice. Se ne discute in queste pagine suggerendo una via d’uscita difficile e ancora incerta, ma alla ricerca di un diverso discorso di riforma, che coinvolga le energie e le intelligenze migliori di cui il nostro sistema dell’istruzione dispone. una spinta creativa che ha sempre portato frutti, mentre la decisione tranciante dall’alto ha finora portato ben poco. La domanda di fondo è come mettere in grado il sistema educativo di assolvere nell’Italia di oggi ai compiti repubblicani: rimuovere le diseguaglianze, rielaborare la didattica di fronte alle sfide del nuovo mondo, accordare il tempo della scuola e il tempo della vita, ripensare la scuola come istituzione.

Agli ultimi banchi

Educazione. «La scuola, le api e le formiche»: il libro di Walter Tocci, uscito per Donzelli, che passa al setaccio l'ossessione riformativa delle politiche per l'istruzione, tutte improntate alla società di mercato 
Piero Bevilacqua Manifesto 18.12.2015, 0:06 
Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. È questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative (Donzelli, pp.192, euro 19,50) che è molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L’autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l’Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.
La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell’intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta – ricorda Tocci – si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. È il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza».
È da tale visione — illusione, rielaborazione e insieme cascame ideologico della cultura neoliberista, che nasce la politica di intervento «riformatore» sulla scuola degli anni recenti. Una politica tutta orientata a piegare, attraverso dispostivi normativi, le strutture «antiquate» della formazione alla «modernità» rampante della società che avanza.«La scuola — sottolinea Tocci — è sempre in ritardo rispetto a una presunta paideia della modernizzazione. La sua resistenza al cambiamento diventa una colpa rispetto alla società. E può essere mondata solo con le riforme».
Senza che gran parte dei riformatori ne abbia piena consapevolezza, tale posizione assume la società plasmata dal cosiddetto libero mercato, le sue intime logiche competitive, come il principio di realtà a cui la formazione scolastica deve adattarsi per poterla più prontamente servire. Non è più la scuola, la comunità scientifica ed educativa dello Stato-nazione che progetta le linee di formazione delle nuove generazioni, sulla base della sua storia e dei bisogni conoscitivi e culturali dell’epoca, ma è la società di mercato che tenta di trascinare le istituzioni nel vortice delle sue imperiose dinamiche.
Da ciò discende l’emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l’insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro.
Questo spiega l’ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell’insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi «non eccelle», dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.
Indagini recenti – ricorda Tocci – mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante — che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche Ocse — composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.
Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno su i nostri media, figuriamoci nell’agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell’indagine Piaac-Ocse, di fronte all’enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà.
Inutile rammentare che il governo Renzi, l’ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come «Buona scuola»: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.
Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d’Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.
Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato – caso unico in Europa – che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all’Università degli ultimi anni.
Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l’intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?


Scuola, l’ultima beffa 30mila senza stipendio e tredicesime da 1 euro
I sindacati: supplenti in attesa della busta paga da settembre Il ministero: mancano i soldi, ma da gennaio tutto sarà risoltodi Corrado Zunino Repubblica 18.12.15
ROMA  L’ultima umiliazione è la tredicesima da un euro. La stanno ricevendo in queste ore diversi insegnanti precari, supplenti brevi e annuali ai quali lo Stato non riesce a pagare il dovuto e -- per autotutela legale -- consegna una busta paga bugiarda: 202,80 euro di competenze, 201,80 euro di trattenute, il totale netto fa un euro e zero centesimi. In attesa di conguaglio. Solo a Padova la Cgil ha contato undici tredicesime beffa e questo è l’avamposto plateale di un problema nazionale ormai fuori controllo: il ministero dell’Istruzione non riesce a pagare lo stipendio alla maggior parte dei supplenti in carica, soprattutto a quelli chiamati per malattie e maternità dei titolari di cattedra. I precari al verde -- alcuni attendono lo stipendio di settembre -- nel paese sono trentamila. Un disastro, alla vigilia delle ferie di Natale.
La prof Stefania Aceto, emigrata a Padova, racconta: «Ho lasciato un paese della provincia di Cosenza per poter insegnare e adesso il mio affitto lo pagano i miei genitori». Antonio Amoroso insegna a Piove di Sacco e dice: «Da settembre a oggi mi hanno pagato nove giorni, non ho neppure i soldi per fare l’abbonamento a BusItalia». Patrizia Buccinì, siciliana nel Nord-Est, di tremila euro dovuti ne ha ricevuti cinquecento. L’ingegner Vito Orazio C. racconta che la figlia, precaria a Torino da otto anni, dopo quattro mesi di stipendio zero «è andata in cura per esaurimento nervoso». A Biella l’avvocato Giovanni Rinaldi ha depositato il primo decreto ingiuntivo per una docente che non è più in grado di garantire un pasto a sé e al figlio di 4 anni. Il sindacato Anief assicura che diversi insegnanti si sono dovuti rivolgere alla Caritas.
Il problema non è nuovo, ma quest’anno è particolarmente ampio e profondo. È accaduto che, con la Buona scuola lontana dall’approvazione, all’inizio del 2015 il ministero dell’Istruzione abbia chiesto al ministero delle Finanze un plafond per le supplenze di 110 milioni. Mesi dopo, ne sono arrivati poco più di venti. Quindi, per superare il vecchio problema dei pagamenti fatti direttamente dalle scuole (che nel passato spesso non avevano fondi sufficienti), il Mef ha centralizzato le operazioni di calcolo dei giorni lavorati e l’elaborazione del cedolino. Il risultato ha fortemente peggiorato le performance sulla questione. Il nuovo sistema informatico ha paralizzato segreterie scolastiche spesso sotto organico e impreparate. Sul sistema sono stati caricati, per errore, diversi precari incardinati con supplenza annuale e dai primi giorni di ottobre gran parte degli stipendi dei sostituti si sono bloccati. A novembre, mese picco per le sostituzioni temporanee, la situazione è diventata da allarme rosso. Ad oggi ci sono casi di versamenti non fatti per ore d’insegnamento del giugno 2014.
La Cgil rivela: «Le segreterie sono oberate da un tourbillon di nuovi contratti, i ritardi della Buona scuola hanno appesantito la macchina. A settembre sono stati bloccati i pagamenti di 80 mila insegnanti per 80 compilazioni irregolari». L’Anief: «Se il 20 dicembre non saranno versati gli arretrati inonderemo i tribunali di ingiunzioni».
Il Mef addossa le colpe al Miur: «Non ha accreditato tempestivamente i fondi liberati ed esegue controlli elaborati che rallentano le operazioni di emissione». Il ministero dell’Istruzione contraccambia: «Non ha erogato il promesso». Con un decreto dell’11 dicembre, l’esecutivo ha messo a bilancio 64 milioni extra. Alcuni stipendi di settembre e ottobre -- non tutti-- sono stati pagati. Ora si lavora per risolvere novembre e dicembre: servono nuovi stanziamenti. Al Miur assicurano che a gennaio -- non prima -- le buste paga saranno riallineate. 

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