E chi li tiene più, ora? [SGA].
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Quando i buddisti eravamo noi
La
scoperta dell’immagine del Gesù-Siddharta venerato per secoli da una
comunità manichea nel sud della Cina apre nuovi studi e riflessioni sul
rapporto tra filosofia orientale e occidentale
di Silvia Ronchey Repubblica 16.1.16
La
figura solitaria dal viso assorto, i capelli neri raccolti sulla nuca,
siede su un alto trono esagonale. La testa è circondata da un’aureola di
luce inscritta nel contorno di una più ampia mandorla che si intravede
sullo sfondo brunito del lungo rotolo di seta dipinta. Uno sfolgorio di
rosso e oro accomuna i petali dell’immenso fiore di loto dischiuso sotto
le sue gambe incrociate e il simbolo della croce che regge tra le dita
sottili della mano sinistra, all’altezza del cuore, mentre le dita della
destra compongono un esoterico gesto. È il Buddha, ed è insieme il
Cristo, e in entrambe le vesti è stato venerato per secoli dagli adepti
della comunità manichea del sud della Cina per cui la sua immagine,
conservata dall’inizio del Seicento nel tempio zen di Seiun-ji in
Giappone, fu prodotta fra il XII e il XIII secolo.
«O vasto e
gentile Gesù Buddha, ascolta le mie parole di dolore. Modesto e sempre
desto Re della Mente, Anticipatore del Pensiero, guidami fuori da questo
mare avvelenato, verso l’acqua fragrante dell’Emancipazione», si legge
nel Rotolo innologico manicheo della British Library, la più antica
attestazione liturgica del culto di Gesù in quanto Buddha tra i seguaci
di Mani della Cina medievale.
Quest’immagine e queste parole
provengono dalle pagine di un articolo pubblicato su una rivista
scientifica svizzera da una studiosa ugroamericana di arte religiosa
dell’Asia Centrale, Zsuzsanna Gulacsi, grande esperta di manicheismo. La
sua argomentazione e la sua tesi finale – nella raffigurazione del
“profeta” Gesù Buddha è in realtà esplicitata la dottrina della
religione dualistica e connaturatamente sincretistica di Mani, cui vanno
attribuiti sia il simbolo della Croce di Luce, materializzato nella
statuetta, sia il principio della separazione tra luce e tenebra,
simboleggiato dal gesto della mano destra – danno nuovo senso a dati già
acquisiti ma non ancora elaborati dagli eruditi. Al di là dello
specialismo, l’emergere dal passato orientale del Gesù-Buddha- Mani di
Seiun-ji, i suoi epiteti, la forza delle invocazioni parlano in modo
immediato al presente occidentale, dove sempre di più il buddismo si
radica nella prassi di una crescente élite di figli
dell’esistenzialismo, nell’utopia di una non-religione dall’etica
resistente alla secolarizzazione ma compatibile con gli approdi della
filosofia e con le conquiste della psicologia. A metà del Novecento il
Siddharta di Hesse aveva spontaneamente orientato il suo revival nella
cultura pop. Anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas
Merton, l’accoglienza del buddismo in occidente aveva prodotto
un’ibridazione confessionale in cui lo yoga e le tecniche ancestrali di
meditazione proprie dell’esicasmo cristiano e del sufismo islamico, come
già prima delle scuole platoniche e pitagoriche, erano sostanzialmente
tollerate se non promosse dai residui esponenti delle religioni
ufficiali.
«Perché non possiamo non dirci cristiani», si domandava
Benedetto Croce all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, riflettendo
sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta onestà dovremmo oggi
riflettere sul perché non possiamo non dirci buddisti. Più di una
filosofia, meno di una religione, mai una dogmatica, il buddismo è oggi
la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più
che dal cristianesimo, la filosofia moderna. In genere si fa risalire
il suo influsso nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire
occidentali allo slancio degli studi di orientalistica che influenzarono
il giovane Schopenhauer. Ma quella conoscenza era già ben diffusa tra
gli illuministi, per il tramite privilegiato delle missioni in Cina e in
Giappone, ma anche in Tibet e Sri Lanka, degli avventurosi gesuiti che
tra Cinque e Settecento avevano trasmesso accurati resoconti, in
particolare, sul buddismo tibetano. Di recente una studiosa americana,
Alison Gopnik, ha cercato di dimostrare l’influenza diretta delle
Notizie istoriche del Tibet del padre Desideri sulla composizione del
Trattato sulla natura umana di Hume, avvenuta a stretto contatto con
l’ambiente gesuita del Collège de La Flèche, nel nord della Francia. Ma
già il Seicento spagnolo era impregnato di buddismo. Il suo riflesso più
occidentale è ne
La vida es sueño di Calderón de la Barca,
attraverso cui la trama della vita del Tathagata si trasmetterà alla
letteratura otto e novecentesca.
Ancora molto prima il buddismo
era penetrato in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva, si
era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il
terreno alla definitiva svolta che non possiamo non considerare oggi
compiuta. La Controriforma aveva dovuto prendere atto che a Bisanzio fin
dall’XI secolo il Buddha era venerato dalla chiesa e nonostante lo
scetticismo di Bellarmino nel 1583 il cardinal Baronio lo aveva incluso
nel Martirologio Romano come santo «apud Indos Persis finitimos. Il
buddismo non aveva mai avuto una Scrittura.
Ma la forza
plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro, aveva trasformato la vita
del Buddha in libro: la cosiddetta Storia di Barlaam e Ioasaf, composta
nell’età di sincretismo e cosmopolitismo immediatamente successiva
all’espansione militare e culturale araba e al cosiddetto iconoclasmo. È
a partire da questo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo
greco per il tramite dell’islam che quel Siddharta ante litteram si
riprodurrà in progressione geometrica nella letteratura globale e Buddha
estenderà la sua predicazione nell’occidente ancora del tutto
cristiano.
Detti e fatti dell’interpretazione cristiana del
principe Siddharta risuoneranno in ogni lingua europea con una
diffusione non raggiunta da nessun’altra leggenda agiografica. Sedurrà
l’Italia più mistica, si trasfonderà nel Trecento senese di Caterina,
attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio e di
qui al teatro di Shakespeare. Aveva raggiunto, prima, la Provenza dei
catari e degli albigesi, attraverso il latino ma con l’influenza del
manicheismo orientale. È in effetti la pista manichea, desunta dai
frammenti in turco uiguro e in neo-persiano portati alla luce dalle
spedizioni archeologiche di inizio Novecento, quella che con più forza è
emersa nel rompicapo degli eruditi sull’origine del Buddha cristiano.
Ed ecco, il cerchio si chiude, riportandoci al rotolo di Seiun-ji.
Quest’immagine
di perfetto sincretismo a sua volta permette un ulteriore passo
indietro. Dal bacino del manicheismo emergeva, tra il IV e il V secolo,
il massimo cervello cristiano di tutti i tempi, Agostino. Quella che
aveva conosciuto in Mani era una dottrina gnostica già impregnata di
un’idea di salvezza propriamente religiosa. Ma in realtà, nel seno della
filosofia ellenistica in cui il flusso oriente-occidente era continuo,
lungo la rotta della conquista di Alessandro, nello splendore dei regni
indogreci, nelle predicazioni dei monaci greci buddisti che re Ashoka
inviò ai monarchi affacciati sul Mediterraneo, o degli asceti erranti
che giunsero fino alla corte di Augusto, lo stesso germoglio di ciò che
chiamiamo buddhismo dovette essere rinvigorito dallo scambio, prima che
con lagnosi, con il pensiero delle scuole elleniche. Anche se la prima
menzione del Buddha nella storia della letteratura europea si trova solo
alla fine del II secolo, negli Stromata, i “Tappeti” letterari di
Clemente di Alessandria, è congetturabile una coabitazione e
contaminazione tra le dottrine del Gautama Sakyamuni e quelle, ancora
recentemente evocate da Christopher Beckwith, dei filosofi scettici, o
dello stoicismo antico.
Se non possiamo non dirci buddisti, cos’è
allora che veramente noi occidentali chiamiamo buddismo? Non una
dottrina, non una religione, non una filosofia, piuttosto la prensile
erba di una conoscenza capace di allacciarsi e adattarsi e dare linfa a
diverse religioni, dottrine, filosofie.
Il germe radicato nel
nostro passato, ciclicamente reinterrato e rifiorito, di una verità
universalmente diffusa perché straordinariamente persuasiva,
indiscutibile e intuibile, in certi folgoranti attimi, anche a livello
prerazionale: la percezione, continuamente rimossa, delle “cose come
sono”, per usare l’espressione di Hervé Clerc; la stupefazione che sta
all’origine di ogni visione filosofica; dove il riconoscimento
dell’illusorietà dell’esistenza e dell’impermanenza dell’essere è in
realtà il nucleo stesso di ciò che gli antichi greci, poco dopo la morte
del Gautama storico, chiamarono per la prima volta filosofia.
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