domenica 31 gennaio 2016

Chi con l'accusa di antisemitismo ferisce, con l'accusa di antisemitismo perisce

Israele, la campagna dell’estrema destra contro gli intellettuali da Grossman a Oz
Manifesti contro le icone della cultura Finanziamenti negati a chi non esprime “lealtà” allo Stato
di Steven Erlanger Repubblica 31.1.16
GERUSALEMME BATTAGLIE per libri, musica, commedie, finanziamenti e onorificenze accademiche: quando avvengono in Israele, queste lotte diventano di natura esplosiva perché generano accanite e feroci discussioni su democrazia, fascismo e fanatismo, identità, destino degli ebrei. Qui, quasi ogni settimana si apre un nuovo fronte nei conflitti culturali e la società intera ne è profondamente scossa. L’ultima battaglia è di mercoledì scorso, con un attacco sferrato da un gruppo di estrema destra alle amate icone letterarie della sinistra.
TRA questi Amos Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman, scrittori considerati da anni la voce e la coscienza dello Stato israeliano. Il gruppo “Im Tirtzu” ha dato il via a una campagna a colpi di cartelloni nei quali definisce gli scrittori «talpe nella cultura», innescando accuse di maccartismo.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu e numerosi membri della sua coalizione conservatrice si sono uniti al coro di condanna nei confronti di chi denigra questi pilastri della culturali israeliana. Eppure, alcuni di questi stessi ministri hanno preso parte a molte altre battaglie di questo tipo: in particolare Miri Regev, ministra della Cultura e dello Sport, di negare gli aiuti statali alle istituzioni che non esprimono “lealtà” a Israele. Secondo un poeta molto noto, Meir Wieseltier, questa legge «ci avvicina all’ascesa del fascismo». Ma sul Jerusalem Post Isi Leibler ha detto che il governo «non è obbligato a offrire sussidi a chi demonizza la nazione».
L’incessante susseguirsi di conflitti di questo tipo è parte di una battaglia politica per cui i politici di nuova generazione vogliono conquistare la posizione di leader del campo nazionalista. Fra loro Miri Regev, 50 anni, potenza nascente nel Likud; Ayelet Shaked, 39 anni, donna senza peli sulla lingua di Jewish Home e Naftali Bennet, 43 anni, ministro dell’Istruzione e capo di Jewish Home.
L’Israele che tutti loro rappresentano è più religioso, meno ossequiente verso i valori e l’eredità della vecchia élite europeizzata, e soprattutto è sempre meno a sinistra. «Non siamo in presenza di un semplice conflitto culturale: qui sono in gioco l’aspetto politico, demografico e sociale di Israele» dice Nahum Barnera, uno dei giornalisti più influenti di Israele. Per Yossi Klein Halevi, esperto dello Shalom Harman Institute, le guerre culturali riflettono «la crescente sensazione di assedio » che Israele avverte. «Si sono innescati profondi timori nella psiche degli ebrei, paure da cui il sionismo aveva cercato di affrancarci» spiega. Secondo lui, invece di sentirsi come se vivessero «in una nazione normale tra altre nazioni», molti israeliani si starebbero dirigendo di nuovo verso «una versione statalista del vecchio ghetto ebraico, e sempre più spesso Israele reagisce considerando quanti tra i nostri concittadini sono ritenuti in combutta con questo processo di assedio, o di incoraggiarlo, alla stregua di collaboratori ». A gennaio il quotidiano di sinistra Haaretz ha portato alla ribalta i dibattiti interni al ministero su quali opere debbano essere considerate «indesiderate per motivi politici» e quindi proibite agli studenti delle superiori. Tra i vari criteri presi in considerazione, ha spiegato il quotidiano, c’è il fatto di capire se gli artisti si esibiscono negli insediamenti in Cisgiordania e se dichiarano lealtà allo »tato e all’inno naz, atteggiamenti particolarmente complicati per i cittadini arabi di Israele. La ministra della Cultura è sistematicamente derisa dalla sinistra per aver raccontato al quotidiano Israel Hayom di «non aver mai letto Céchov, e di non aver mai assistito da giovane alle sue commedie», ma di aver ascoltato «canzoni sefardite ».
Dal canto suo Bennett ha imposto agli esperti del ministero dell’Istruzione di togliere dall’elenco delle letture per i licei, e proibirne la diffusione, un romanzo che narra la storia d’amore tra una donna israeliana e un giovane palestinese. A quanto sembra, lo ha fatto nel timore che il libro possa promuovere l’assimilazione. La storia d’amore, in verità, si svolge all’estero: la coppia infatti si divide quanto torna a casa, lei in Israele e lui in Cisgiordania. Secondo Bennett, il romanzo Borderlife di Dorit Rabinyan infama l’esercito israeliano, e il capo della commissione ministeriale dice che «potrebbe istigare all’odio e scatenare tempeste sentimentali nelle classi».
(Copyright New York Times News Service - Traduzione di Anna Bissanti)

Gerusalemme Est, soldi a scuole che rinunciano al programma palestinese
Israele/Territori occupati. Li offre il ministero dell'istruzione israeliano, ha rivelato il quotidiano Haaretz. Diana Buttu: «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra». Sullo sfondo il sistema scolastico palestinese in condizioni critiche di Michele Giorgio  il manifesto 30.1.15
GERUSALEMME Nessuno può accusare di scarso impegno il ministro israeliano dell’istruzione Naftali Bennett. Un impegno che però sembra indirizzarsi più verso obiettivi politici che a favore dell’apprendimento degli studenti. Alla fine del 2015 Bennett aveva vietato gli interventi nelle scuole ai rappresentanti di “Breaking the Silence”, l’Ong dei soldati israeliani che rompono il silenzio su crimini commessi nei Territori occupati. A inizio del nuovo anno ha proibito l’uso nelle scuole superiori del romanzo di Dorit Rabinyan “Borderlife” che racconta la storia d’amore tra una ebrea e un palestinese. Ora, riferiva ieri in prima pagina il quotidiano Haaretz, il ministero dell’istruzione prepara un piano che prevede fondi extra solo per le scuole arabe di Gerusalemme Est che adotteranno il programma israeliano al posto di quello palestinese.
Quando nel 1995 furono firmati gli Accordi di Oslo II, ai palestinesi di Gerusalemme Est, che non sono (tranne una esigua minoranza) cittadini israeliani, fu riconosciuto il diritto di adottare il programma del ministero dell’istruzione della neonata Autorità nazionale palestinese al posto di quello della Giordania. Delle 180 scuole palestinesi soltanto otto hanno scelto, in questi ultimi venti anni, il programma israeliano e solo due di queste sono istituti pubblici. Un dato che conferma il rifiuto del controllo israeliano della zona araba di Gerusalemme, anche in materia di istruzione, da parte degli oltre 300mila palestinesi nella Città Santa. «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra» spiega al manifesto Diana Buttu, una esperta di diritto internazionale «i palestinesi però intendono rimanere quello che sono e continuare a far parte del mondo arabo». Per questa ragione, aggiunge Buttu, «anche questo tentativo è destinato a non avere successo». Allo stesso tempo la condizione delle scuole arabe a Gerusalemme Est è grave: il numero degli studenti aumenta con il passare degli anni e non ci sono aule sufficienti. Molte scuole pubbliche operano in edifici spesso fatiscenti che necessitano urgenti lavori di ristrutturazione, scarseggiano attrezzature, computer e materiali didattici. Qualche dirigente scolastico perciò potrebbe essere tentato ad adottare il programma israeliano in cambio dei fondi offerti dal ministero. «A mio avviso è un ricatto, soldi in cambio di una rinuncia» afferma Diana Buttu «i palestinesi sotto occupazione hanno diritto ai quei fondi senza dover rinunciare alla loro identità, alla loro cultura, al loro programma scolastico in linea con il resto del mondo arabo. Lo dice il diritto internazionale che Israele è chiamato a rispettare. Per questo mi auguro che questo passo del ministero dell’istruzione israeliano venga subito condannato dalle istituzioni internazionali». Lo sdegno è forte tra i palestinesi di Gerusalemme. Le scuole arabe, affermano, non accetteranno l’offerta del ministero israeliano. Anche perchè i genitori non lo permetterebbero, di fronte a libri di testo e a un programma scolastico che tendono a negare quasi del tutto storia e cultura palestinese.
Nel corso degli anni i governi israeliani si sono spesso lamentati del contenuto dei libri usati nelle scuole palestinesi che non riconoscebbero pienamente lo Stato ebraico e «istigherebbero alla violenza». A loro volta i testi inclusi nel programma israeliano offrono una narrazione totalmente anti-araba, che nega radici e storia dei palestinesi nella loro terra. Lo spiega bene la docente israeliana Nurit Peled Elhanann nel suo libro “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” (2012, edito in Italia dal Gruppo Abele). Gli arabi, scrive Peled Elhanann, sono rappresentati come profughi in strade e luoghi senza nome. «Nessuno dei libri», spiega la docente, «contiene fotografie di esseri umani palestinesi e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi». Raramente si parla di “Palestina” o “Palestinesi” piuttosto si fa riferimento a “non ebrei”, “arabi”, o al “problema palestinese” descritto il più delle volte come un problema demografico.
Secondo il ministero dell’istruzione israeliano i palestinesi da un lato protestano e dall’altro, in numero crescente, intenderebbero seguire il programma scolastico israeliano. Riferisce che l’anno scorso 1400 studenti arabi hanno scelto il “Te’udat Bagrut”, ossia il diploma di maturità israeliano e non quello palestinese (Tawjihi). Quest’anno se ne prevedono 2.200. Ma sono soltanto il 5% dell’intera popolazione scolastica palestinese. 

Cresce appoggio ad appello accademici italiani per boicottaggio Technion
Italia/Israele. Secondo i firmatari l'Istituto di Haifa riveste con le sue ricerche un ruolo importante nel riprodurre le politiche israeliane a danno della popolazione palestinese. Intanto il governo francese avverte che se non ci saranno progressi nelle trattative israelo-palestinesi, riconoscerà comunque lo Stato di Palestinadi Michele Giorgio il manifesto 31.1.16
GERUSALEMME Aumentano le adesioni all’appello lanciato venerdì da 168 docenti di università di tutta Italia a boicottare le istituzioni accademiche israeliane, in particolare il Technion di Haifa per via del ruolo che, spiegano i firmatari, questo istituto «riveste nel supportare e riprodurre le politiche israeliane di espropriazione e di violenza militare ai danni della popolazione palestinese». In poche ore il numero delle adesioni è salito a quasi 200 e altri accademici hanno chiesto informazioni segnalando di poter firmare anche loro il documento. L’iniziativa italiana, che arriva dopo quelle prese negli ultimi due-tre anni da colleghi britannici e di altri Paesi occidentali, è di particolare rilievo se si tiene conto dei legami che rendono l’Italia, uno dei principali partner militari e accademici di Israele in Europa. Non sorprende perciò che alcuni giornali e siti israeliani abbiano riferito dell’appello con particolare evidenza nonostante non siano ancora giunte reazioni ufficiali del governo Netanyahu e del mondo accademico israeliano.
L’Italia, dove agiscono gruppi che promuovono attivamente il Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) — la campagna globale di boicottaggio di Israele per la fine dell’occupazione e della colonizzazione dei Territori, per la piena uguaglianza in Israele dei cittadini palestinesi e per il rispetto per il diritto al ritorno dei profughi del 1948 e del 1967 — non aveva mai visto un’azione tanto diretta nei confronti degli atenei dello Stato ebraico. «Le università israeliane — si legge nella petizione italiana — collaborano alla ricerca e allo sviluppo di armi usate dall’esercito israeliano contro la popolazione palestinese, fornendo supporto innegabile per l’occupazione militare e la colonizzazione della Palestina». Il Technion, spiega il documento, «è coinvolto più di tutti nel complesso militare-industriale israeliano e un certo numero di atenei italiani ha stretto accordi di cooperazione» con l’istituto di Haifa.
«Questo appello, anche se non dovesse produrre effetti concreti, comunque dovrà circolare e raccogliere tante adesioni perchè occorre far riemergere la questione palestinese», dice al manifesto il professor Angelo D’Orsi, ordinario di storia del pensiero politico all’Università di Torino e uno dei firmatari più noti e impegnati nelle vicende mediorientali. «Si è abbassata la soglia di attenzione del mondo verso la questione palestinese», aggiunge D’Orsi «tutto viene dato per scontato, molti pensano che non si possa fare nulla (per i palestinesi, ndr) come non si può fare nulla per la pioggia che cade. C’è un generale venir meno del ruolo degli intellettuali. Il silenzio denunciato qualche anno fa da Asor Rosa è pienamente vigente. Gli intellettuali che parlano sono pochissimi e in più quando lo fanno si uniscono al coro dei potenti». Su una maggiore partecipazione di intellettuali ed accademici alla difesa dei diritti dei palestinesi e della legalità internazionale batte anche Angelo Stefanini, medico e docente dell’università di Bologna. «Tra i colleghi percepisco ancora indifferenza», ci dice «o forse timore di essere coinvolti nel solito ricatto di equiparare una legittima opposizione alle politiche israeliane (versi i palestinesi, ndr) con l’antisemitismo. Della ventina di colleghi amici a cui ho girato l’appello, soltanto un paio hanno sottoscritto».
Si attendono le reazioni dei vertici di Israele, impegnati in queste ore a fare i conti con un’altra sfida che arriva dall’Europa. La Francia due giorni fa ha fatto appello alla convocazione di una conferenza internazionale sulla questione palestinese, fondata sulla applicazione delle risoluzioni dell’Onu, che riunisca attorno alle due parti i loro partner — americani, europei, arabi — allo scopo di realizzare la soluzione dei due Stati.Allo stesso tempo il ministro degli esteri Laurent Fabius ha avvertito che «Se ci sarà un blocco (nelle trattative,ndr) ci assumeremo le nostre responsabilità con il riconoscimento dello Stato palestinese…E’ davvero ora per la comunità internazionale andare avanti e stavolta in modo decisivo, verso una soluzione definitiva». Fabius ha ricordato che la sicurezza di Israele rappresenta «un’esigenza assoluta sulla quale la Francia non transige» ma, ha aggiunto, «non c’è pace senza giustizia e la situazione attuale dei palestinesi, che non hanno uno Stato, è fondamentalmente ingiusta». Per Israele invece la posizione francese «Incoraggerà i palestinesi a non negoziare». Secondo una fonte governativa «Non c’è alcuna logica nel porre una scadenza per il riconoscimento della Palestina». Soddisfazione ai vertici palestinesi. Il Segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ha applaudito all’iniziativa francese assicurando piena collaborazione. 

Nessun commento: