martedì 26 gennaio 2016

Die totale Mobilmachung 2: il giorno della Memoria selettiva occidentocentrica sta per travolgerci




La frattura della Storia 
Giorno della memoria. Lutti famigliari e collettivi. Il 27 gennaio ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile. Un’esigenza «lenitiva» che ha puntato sul ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza 

Lia Tagliacozzo Manifesto 26.1.2016, 0:03 
Ragionare sulla Shoah e il progetto di distruzione industriale di massa in occasione del 27 gennaio è come cercare di contare i cerchi nell’acqua quando vi si getta un sasso: onde grandi e piccole che si rincorrono, si espandono, per poi sparire, fagocitate dalla vita che ricomincia a occuparsi delle solite cose. Concetti che cercano di trovare una loro sistemazione ma per i quali non basta un giorno, o una settimana, di ricordo. Anche l’impresa, apparentemente insensata, di contare cerchi nell’acqua ha bisogno di riflessione. 
Un cerchio, un’onda: se si digita su Google la dicitura «giorno della memoria 2016» si ottengono in questo periodo più di novecentomila risultati. L’evidenza — come qualsiasi lettore di giornali o frequentatore di televisioni e radio sa bene — è che il «giorno della memoria» è entrato nel calendario civile del nostro paese. È stato già scritto che la scelta del 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz — dove migliaia di cittadini italiani ebrei vennero assassinati — ha diluito la specificità dell’apporto italiano alla persecuzione. 
Processi assolutori 
Giovanni De Luna nel bel libro La Repubblica del dolore scrive: «Proprio perché più europea e meno italiana la scelta di quella data contribuì a disinnescare molte tensioni, attenuandone la portata emotiva ma anche ridimensionandone il significato simbolico». Se, infatti, «la memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato», il 27 gennaio, proprio perché non impegnativo, ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile, data fondante dell’Italia repubblicana. Ed è funzionale a questa esigenza lenitiva e assolutoria che nel discorso pubblico sia divenuto sempre più forte il ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza storica. 
Cerchi che si allargano: inizia, timidamente, ad affacciarsi la consapevolezza che il conflitto tra «storia» e «memoria» possa essere superato in direzione di una inevitabile integrazione di entrambe, ma il calendario degli eventi in programma anche quest’anno non sembra prenderne nota e il ricorso all’emozione ancora prevale. 
Sassi, cerchi, onde: per la collettività ebraica italiana l’imponente coinvolgimento istituzionale nelle celebrazioni del «giorno della memoria» è divenuto una grande occasione di riconoscimento e reintegrazione in quel «patto della memoria» da cui furono esclusi per decenni. L’Italia resta il paese dove il processo di abrogazione della legislazione antiebraica fascista del 1938 iniziò nel 1943 e si concluse alla fine degli anni ottanta, anni in cui il ricordo della specificità della persecuzione antiebraica stentava a farsi largo nella memoria pubblica. Anni in cui la Shoah rimane ancora un fatto sostanzialmente privato degli ebrei italiani e la misura della condivisione è data al massimo dal coinvolgimento delle amministrazioni cittadine negli anniversari che ricordano le vicende locali. Lo sterminio degli ebrei e il ruolo avuto dal fascismo infatti non furono tra gli eventi su cui è stato costruito l’albero genealogico della nazione. Ma poiché «i fondamenti di quel ’patto’ cambiano a seconda delle varie ’fasi’ che scandiscono i processi storici di una nazione — scrive ancora De Luna — ogni volta cambiano i suoi contraenti e il suo contenuto».  Holocaust Menorah di Aaron Morgan 
Così dal 2001, primo anno di celebrazione «del giorno della memoria», le cose sono cambiate. Adesso di Shoah — che in ebraico significa distruzione — si parla molto, forse troppo, spesso male.
Certo è che le celebrazioni vengono vissute dalla collettività ebraica italiana come occasione di riconoscimento in un contesto istituzionale che l’ha accolta e «digerita» solo nella discutibile accezione di «vittima». Oggi però l’imperativo «mai più» che contrassegna l’impegno in buona fede dei tanti che si mobilitano nel ricordare lo sterminio di milioni di vite viene reso impotente e diviene inefficace se il patto che costituisce lo spazio pubblico espelle il processo storico che ha prodotto il loro essere «vittime». D’altro canto è proprio rendere le sole emozioni protagoniste del racconto pubblico che azzera le responsabilità. La condivisione di valori si restringe così a un omaggio che spesso ignora le specificità della collettività che si è chiamati a ricordare. E nulla aggiunge il 27 gennaio alla conoscenza di chi siano stati realmente e storicamente gli ebrei negli anni della dittatura fascista e di chi siano oggi. 
Ancora un cerchio, e un’onda. La posizione della collettività ebraica italiana è che il suo apporto alle celebrazioni del 27 gennaio sia di sostegno alle iniziative pubbliche: non sono loro ad avere bisogno di «ricordarsi di ricordare». Eppure l’istituzione del giorno della memoria avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel riconoscimento non solo del loro ruolo di cittadini storicamente partecipi di una memoria pubblica condivisa ma nel trasformare il lutto privato di una minoranza in un ’lutto nazionale’. Ma a questa incertezze aggiunge forse un contributo specifico proprio l’approccio al lutto della cultura ebraica tradizionale. 
Altro cerchio, altra onda. Nella tradizione ebraica, il ricordo dei lutti collettivi tende a condensarsi intorno a poche date di celebrazione ma, per quel che attiene alla memoria specifica della Shoah, la pratica ebraica non si è ancora sedimentata in un’occasione unica e riconosciuta: per alcuni è il digiuno del 10 del mese di Tevet, che cade solitamente a dicembre, e ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme nel quinto secolo prima di Cristo. Per altri, soprattutto in Israele, è il primaverile Yom ha Shoah – il giorno della Shoah. In molte famiglie è invece uso recitare il rituale della Rimembranza che si celebra al termine della cena pasquale in ricordo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 che iniziò proprio il giorno di Pesach, la pasqua ebraica. L’incidenza delle tre date dipende dai paesi e dalle differenti abitudini delle tante comunità ebraiche.
Ma il cerchio si allarga e le onde si moltiplicano. È curiosamente diversa l’attenzione posta nell’ebraismo alla tempistica del lutto individuale: la normativa ebraica in questo caso è estremamente attenta al conteggio dei giorni che scandiscono la settimana, il mese e poi l’anniversario del decesso. Ma gli ebrei, quelli in carne e ossa, quelli «vivi», ancora oggi ricordano la morte nei campi dello sterminio nazista come fatto reale e concreto della perdita di una persona cara di cui spesso sono restate, e resteranno per sempre, ignote il luogo e data dell’uccisione. Per gli ebrei «vivi» si tratta di un singolo essere che è stato padre o madre, nonno o nonna, zio o zia. Esseri umani concreti di cui rimangano nella vita delle famiglie oggetti e racconti, fotografie e aneddoti. A volte, ricette di cucina. Per gli ebrei vivi è un lutto individuale, familiare oltre che collettivo. 
Diari intimi e luoghi pubblici 
Cerchi, e domande, che si allargano: come tenere insieme il lutto individuale con quello di una collettività di minoranza e inserirlo in una memoria nazionale? Come tessere continuità, restituire dignità e farsi carico della responsabilità di 6806 deportati dall’Italia di cui 5969 sono stati uccisi e solo 837 sono tornati? Come far incontrare il lutto degli ebrei italiani con quello degli italiani «altri»? 
Una risposta piccola ma illuminate viene da un’iniziativa giunta quest’ anno alla sua quinta edizione, si chiama Memorie di famiglia — i giovani tramandano le storie dei loro nonni organizzata presso il centro ebraico di Roma Pitigliani. Lì, il 27 gennaio – data di legge, parlamento e istituzioni — nello stesso momento in cui le scuole, la televisione e i giornali parlano della Shoah, giovani dai dodici ai venti anni leggono le storie delle proprie famiglie. Documenti tratti da diari privati, ricostruzioni successive, racconti, si alternano letti da un nipote o un pronipote. Giovani e bambini che prendono la parola e raccontano la propria storia. Altri ragazzi cantano e recano conforto e sollievo alla massa dei ricordi che i nonni in sala si sentono raccontare dai propri nipoti. Ricordi di internati militari, ebrei in fuga, uccisi o salvati trovano posto nella catena della generazioni che, come cerchi nell’acqua, si susseguono. 
Giorgio Caviglia e Maria Bove scrivono in L’eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future, edito in questi giorni da Giuntina: «Riflettere sulla trasmissione del trauma significa comprendere la portata di determinati eventi, comprenderne l’estensione, cercare di contare i cerchi nell’acqua che si propagano al lancio del sasso sulla superficie del mare, cercando di distinguere quello che dipende da quel sasso da quello che è il frutto del movimento di un mare che può essere più o meno agitato». Cerchi nell’acqua che tentano risposte.

shoah, l’incredulità dei bambini è più forte del male 
Gavriel Levi Stampa 26 1 2016
La memoria è un motore della individualità umana. Finché posso giocare con i miei ricordi, scomponendoli e ricomponendoli, sento di essere una persona.
La memoria condivisa è il collante di ogni relazione umana. Finché so che tu ti ricordi di me e finché tu sai che io mi ricordo di te, noi siamo noi. Siamo qualcosa in più. 
La memoria è il contenitore collettivo di ogni gruppo, piccolo o grande. Finché scambiamo e confrontiamo ricordi comuni, possiamo pensare ad una storia che sa usare i ricordi del passato per costruire un futuro comunque migliore.
La potenza di tutte queste memorie sta nel riuscire ad essere memorie aperte. Sempre innovative e mai celebrative.
Possiamo identificarci con le nostre foto di quando eravamo bambini, se sappiamo che stiamo guardando con gli occhi di adesso. Possiamo comprenderci meglio, se possiamo immaginare di guardarci adesso con gli occhi che avevamo allora. Questo doppio confronto è emozionante, perché in fondo in fondo è il confronto tra ricordare e progettare.
L’emozione del ricordo che si rinnova e si confronta con altri ricordi è la stessa emozione del sogno, che cerca sempre la strada per trasformare il passato in una nuova realtà.
In sintesi: la memoria può essere maestra di libertà soltanto se non è una memoria prigioniera, perché dolorosamente ripetitiva.
Questo discorso è particolarmente valido quando lavoriamo con la memoria traumatica, con la memoria etica e con la memoria educativa. 
Siamo davanti alla scommessa e alle domande che ci pone ogni anno la Giornata della Memoria.
Dopo la catastrofe universale della Shoah, causata volontariamente dalla mano dell’uomo, è possibile guardare dentro la malvagità umana? E cioè, senza fuggire dichiarandoci subito buoni?
Dopo un trauma subito quasi passivamente, è possibile usare la memoria attivamente? Per documentare il trauma e non per fissarlo, per combattere il trauma oggettivamente e non per riprodurlo soggettivamente.
Nel conflitto quotidiano che ogni persona ha, quando deve scegliere tra bene e male, è possibile costruire un patto educativo fra una generazione e l’altra?
Non penso che queste domande debbano e possano avere una risposta. Credo che queste domande debbano rimanere domande tanto inquietanti quanto fiduciose. I superstiti della Shoah tuttora viventi hanno guardato in faccia il male, allora, quando erano bambini. Con occhi di bambino. Adesso i superstiti della Shoah ragionano e soffrono con la forza e con lo sfinimento di una vita combattuta, per capire e contrastare l’esistenza del male assoluto.
Allora guardavano e capivano il male come i bambini guardano il dolore e l’ingiustizia: con lo stupore assoluto e con il rifiuto più totale. Non è così, non può essere così, non sarà cosi… un giorno sarò grande, non farò e non farò fare così…
Se vogliamo comprendere e sgretolare il male della Shoah, forse possiamo immaginare e introiettare quegli sguardi di bambini. Quell’incredulità totale è veramente più forte del male, perché nasce dalla speranza e dalla certezza che il male può non esistere. Non deve esistere. 

Shoah, memoria di ieri e impegno per il futuro di Giovanni Maria Ficà Corriere 26.1.16
Il «Giorno della Memoria», a quindici anni di distanza dalla legge del 2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente positivo, con alcune perplessità in parte originarie e in parte dovute al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di interpretarla perché possa cercare di rispondere agli interrogativi per i quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo.
Ricordiamo «l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945», quando ad essi giunsero i primi soldati russi che — racconta Primo Levi all’inizio de La Tregua — incontrarono il nulla, gli spettri, la vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una scelta: ma è altrettanto se non più giusto — anche se più difficile — ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in effetti «le leggi razziali» e «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei»: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda degli «italiani brava gente» che troppo spesso falsa la prospettiva storica e dimentica le nostre responsabilità di italiani, individuali e collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la deportazione e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro salvezza: a patto però di non dimenticare i troppi carnefici e i complici nelle deportazioni, ancor più numerosi per indifferenza, paura, coinvolgimento burocratico, scopo di profitto o rancore nelle deportazioni.
Come ricordiamo? Organizzando secondo la legge, cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare anche che con il passare del tempo e la ripetitività quel giorno si trasformi soltanto in un’occa- sione rituale, retorica e celebrativa; in una memoria burocratica e imposta, come la toponomastica stradale; o — più ancora — che diventi soltanto un’occasione per operazioni editoriali. È difficile distin-guere in concreto fra il fine della conoscenza e quello del portafoglio: ogni contributo (libri, film) alla prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionismo; ma può rischiare l’assuefazione e quindi il rifiuto.
Perché ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: «conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non possano mai più accadere». Non un risarcimento tardivo e insufficiente al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno — come pretende il negazionismo, sia quello più becero che quello più pretenzioso — una assurda connivenza con la bestemmia della «menzogna ebraica» sulla Shoah o sulla sua enfatizzazione, una cambiale oscena per la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissibile pretesto per equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestinesi, nonostante le legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva israeliana. Ma la consapevolezza che la Shoah è ammonimento per tutti noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensurabile contro la dignità e l’umanità.
Il decorso del tempo e la cancellazione delle tracce dello sterminio rischiano di far trascurare i sintomi premonitori di altri stermini; se Auschwitz è stata il cimitero dell’Europa di ieri, il Mediterraneo sta diventando il cimitero dell’Europa di oggi e di domani. Per questo il Giorno della Memoria del passato deve restare; ma deve diventare — effettivamente, no 

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