mercoledì 20 gennaio 2016

Ettore Scola


Un altro pezzo e un altro mito della sinistra romana e salottiera cui per un breve periodo piacque atteggiarsi a comunista. Un bravo regista, comunque, cui sono legati tanti momenti e ricordi [SGA].

Addio a Scola 

Maestro di cinema e impegno, sfiorò l’Oscar Narrò l’Italia povera ma bella. E quella del boom 
20 gen 2016  Corriere della Sera Maurizio Porro
Da pagina 1 Con Ettore Scola, nato a Trevico, provincia di Avellino il 10 maggio 1931, se ne va un personaggio della grande famiglia del cinema italiano. Famiglia di fatto per la storia, le intenzioni, l’appartenenza sociale, lo sguardo ironico su un Paese che dopo la guerra si modernizzò molto proprio col cinema: del resto La famiglia come momento di passaggio della Storia sulle storie è anche il titolo di un suo commovente film su una casa, un ceppo borghese e lungo corridoio in penombra.  
Due capolavori, C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare (con il quale sfiora l’Oscar), sono la confessione pubblica delle mutazioni sociali del Paese, cui fu sempre più che attento osservatore: il primo racconta le illusioni perdute di una generazione passando dagli anni 40 ai 70, il secondo si sofferma sul destino di due umiliati e offesi in una data precisa, quel 6 maggio 1938 quando Hitler venne a trovare Mussolini a Roma. 
Scola, come il suo abituale partner Ruggero Maccari, come Risi, Pietrangeli, aveva la marcia satirica sempre innestata, conosceva tutti i Mostri all’italiana, vecchi e nuovi e questa sua dote poco alla volta si affinò fino a diventare tagliente, cinica, disperata ( Brutti, sporchi e cattivi con Manfredi sui baraccati). Non a caso, come Fellini, Scarpelli, Marchesi e Metz, Steno, iniziò da battutista e vignettista nel settimanale umoristico Marc’Aurelio, dove s’allenò la generazione rivistaiola. Anche se laureato in legge, come voleva la famiglia, Ettore tolse il dott. dal biglietto da visita e corse subito a Roma a lavorare in giornalismo e spettacolo. Iniziò partecipando a sceneggiature di Bolognini, Loy, Zampa, scrivendo le battute di Sordi Americano a Roma, poi di Gassman nel Sorpasso e raffinando l’introspezione femminile firmando tutti i grandi film di Pietrangeli degli anni 60 fino a Io la conoscevo bene. Il deb Scola si allena con un grottesco, paradossale film ad episodi con l’amico Gassmann, Se permettete parliamo di donne (1964), satira della lotta dei sessi, nel periodo in cui arrivavano i giovani Gregoretti, Wertmuller, Leone, Bellocchio, Bertolucci, Cavani. 
Le sue ambizioni erano frenate, gli piaceva irridere, il cinema a sketch andava di moda (derivava appunto dalla rivista), Gassman divenne suo complice storico con alcune smargiassate come Slalom, Il profeta, L’arcidiavolo, lisciando la sua vena di farfallone sempre in sorpasso. Ma anche Sordi e Manfredi divennero suoi attori magistrali in Riusciranno i nostri eroi… mentre Tognazzi avrà il suo exploit in Il commissario Pepe, sulla scia dei peccati mortali e veniali di signori e signore alla Germi. Anche negli incassi, Scola non sbaglia un colpo; quando sbaglia, come nel caso del film biografico Trevico Torino viaggio nel Fiat-nam, sugli emigrati meridionali al Nord, ne è consapevole. 
Il periodo maturo, quando i pugni si aprono per contenere pietà, commozione, partecipazione, contiene i due film citati, quello dei tre amici (Gassman, Manfredi, Satta Flores) testimoni dell’Italia povera ma bella e di quella del boom; e quello sottovoce della casalinga frustrata Sofia Loren che incontra il coinquilino Mastroianni, prossimo al confino per omosessualità. Se nella Congiuntura era Gassman che portava i soldi in Svizzera, in La più bella serata della mia vita, misconosciuto, magistrale film kafkiano. 
Mastroianni continua alla grande, diventando quasi il suo alter ego, come emigrato italiano in Usa con Permette? Rocco Papaleo (po Maccheroni dove è Lemmon che viene a Napoli), e poi ancora con la Vitti e Giannini nello spassoso Dramma della gelosia. Un vero capolavoro è quello che gira in Francia quasi tutto in una carrozza, Il mondo nuovo sulla fuga di Luigi XVI e dei suoi cari fra cui l’anziano Casanova (impagabile Mastroianni), lo scrittore libertino Restif de la Bretonne, contesse ed altri, tutti via di corsa dalla rivoluzione.  
Spesso deluso dalle involuzioni italiane, Scola ha passato la terza età lamentando com’era meglio prima ( vedi Splendor) e annunciando che quel che voleva dire l’aveva detto. Per denunciare la crisi dirige nel 1980 La terrazza con tutta la sfilata della società radical chic romana in tragico happy hour. Ritrova poi Sordi aggiornando Romanzo di un giovane povero, si guarda indietro con Concorrenza sleale, nella Roma dell’antisemitismo, osserva l’oggi con Che ora è? con Troisi, la Cena in unità di tempo, luogo azione e disillusione totale. E si volta indietro un’ultima volta per raccontarci Com’è strano chiamarsi Federico chiudendo la carriera a cerchio, in stato di nostalgica grazia di amarcord, dopo averci regalato emozioni e rabbie, nostalgie e propositi, mescolando la risata alla commozione in modo che non si possano più sciogliere.

Addio Scola  L’ultimo maestro del cinema che abbiamo tanto amato
Il regista di tanti capolavori che hanno raccontato l’Italia, da ‘Una giornata particolare’ a ‘La famiglia’, è morto a Roma Aveva 84 anni
MARIA PIA FUSCO Repubblica 20 1 2016
«ACHI chiederete di parlare di me quando me ne sarò andato? Sono l’ultimo rimasto », scherzava Ettore Scola, quando alla scomparsa di un grande del cinema, veniva chiamato per un ricordo. Ieri sera se n’è andato, era stato ricoverato al Policlinico domenica dopo un infarto, era entrato in coma, protetto dall’affetto e dalla dedizione della moglie Gigliola, delle figlie Paola e Silvia. Era nato il 10 maggio 1931 a Trevico, provincia di Avellino. «Almeno non ha sofferto», sono le parole consolatorie di chi lo ha amato e sono tanti. Era davvero l’ultimo di una generazione che ha fatto grande il cinema italiano, un maestro che, prima come sceneggiatore poi come regista, dagli anni Sessanta ha fatto ridere e ha commosso spettatori per decenni. E ha fatto pensare, perché per quella generazione raccontare storie significava raccontare la realtà, accennare alla critica sociale sia pure nei toni della commedia, significava impegno politico senza dimenticare la leggerezza. Si era formato alla scuola del
Marc’Aurelio, la rivista satirica a cui collaboravano giovani intellettuali e disegnatori, era entrato nello spettacolo come “negro”, scrivendo battute per comici, da Alberto Sordi a Totò, prima per la radio poi per il cinema. Dopo aver collaborato a varie sceneggiature – I mostri e Il sorpasso con Dino Risi,
Io la conoscevo bene con Antonio Pietrangeli – aveva esordito nella regia nel 1964 in Se permettete parliamo di donne con Vittorio Gassman. Anzi, «è stato Gassman a spingermi a fare il regista, un mestiere da bugiardo, tutti sul set hanno una domanda per te e tu evi fingere di sapere tutto. Come fossi un oracolo. In realtà io sono pigro, il mestiere che preferisco è quello dello sceneggiatore», raccontava a proposito di Ridendo e scherzando, il documentario realizzato con un lavoro di tre anni dalle figlie Paola e Silvia, presentato alla festa di Roma. Poi Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?
Con Sordi e Manfredi, C’eravamo tanto amati, Brutti sporchi e cattivi, La Terrazza – il film citato da Sorrentino come riferimento per
La grande bellezza – Una giornata particolare, Maccheroni, La famiglia, La cena, solo per citare alcuni dei suoi quaranta film, fino a
Gente di Roma del 2003, quando decise di ritirarsi. E lo fece fino a dieci anni dopo quando firmò il suo atto d’amore a Fellini, con il bel documentario Che strano chiamarsi Federico.
Tra tanti titoli difficile definire il suo capolavoro, Una giornata particolare secondo alcuni critici, uno dei nove film con l’amico Marcello Mastroianni, secondo altri il meraviglioso affresco delle delusioni di una generazione in C’eravamo tanto amati.
Un maestro che rifiutava l’ppellativo, non per modestia, «è che m’imbarazza parlare di me», diceva, con l’autoironia e i toni scanzonati su se stesso, «perché solo se sai vedere i tuoi lati negativi puoi ironizzare sulla realtà, sugli altri, sulla politica». E mai aveva rinnegato il suo impegno politico, pronto a ogni battaglia, a ogni adesione – tra le ultime apparizioni quella al funerali di Pietro Ingrao – soprattutto se si trattava dei giovani. E a loro, durante l’ultima lezione tenuta al Festival di Bari, che aveva fondato con l’amico Felice Laudadio, si era rivolto. Siete voi la speranza, ma dovete approfondire la conoscenza e non aver paura delle idee, per cambiare le cose non servono le armi, servono le idee».

L’ultimo cineasta della generazione del «noi»
Omaggi. Il ricordo degli amici, da Vanzina a Scarpelli: «aveva assunto un ironico distacco dalla vita intorno a sé
Giovanna Branca Manifesto  21.1.2016, 23:55
Voleva essere ricordato alla Casa del Cinema di Roma Ettore Scola, «come se fosse una festa». E così da stamattina sarà lì la camera ardente dove amici, parenti e colleghi potranno salutare «l’ultimo dei grandi della Commedia all’Italiana», come lo definisce l’amico e collaboratore Giacomo Scarpelli, che con lui ha scritto La cena, Romanzo di un giovane poveroConcorrenza sleale, quest’ultimo sceneggiato anche insieme al padre Furio, un altro dei padri della commedia all’italiana che con Scola ha lavorato a film come C’eravamo tanto amati o La terrazza.
«È stato il maestro di tutti noi, tutti gli dobbiamo qualcosa», ha infatti detto Carlo Verdone del regista e sceneggiatore, il cui ultimo film risale appena a tre anni fa, quando a Venezia era stato presentato fuori concorso Che strano chiamarsi Federico, il suo omaggio al collega Fellini.
Tutto era iniziato sulle pagine del Marc’Aurelio, che aveva riunito tante delle future penne e registi della commedia all’italiana e dove è avvenuta la conoscenza fra il regista di Una giornata particolare con un altro grande nome di quella famiglia allargata: Steno. Suo figlio, Enrico Vanzina, ricorda infatti che i due «sono stati molto amici per tutta la vita», e che Scola «aveva una piccola venerazione per papà come umorista».
«Ettore — continua Vanzina — è entrato molto presto a casa nostra, quando noi eravamo piccolissimi: faceva lo sceneggiatore aggiunto di Un americano a Roma e veniva a scrivere con nostro padre, per cui la nostra è un’amicizia che parte da lontanissimo».
«Era veramente l’ultimo di quel mondo, di quella generazione», ha osservato Sergio Castellitto, protagonista insieme a Diego Abatantuono di Concorrenza sleale. «È stato il mio maestro, forse la figura più importante della mia vita al cinema».
Sofia Loren, invece, ha affermato di essergli grata: « Mi ha regalato la possibilità di interpretare un film straordinario che amo molto: Una giornata particolare al fianco di Marcello Mastroianni».
Ultimamente, racconta Giacomo Scarpelli, Scola «aveva assunto un ironico distacco dalla vita intorno a sé, la guardava in modo sorridente, come chi in fondo è soddisfatto di tutto ciò che ha vissuto, di quello che ha avuto e soprattutto di ciò che ha dato. Allo stesso tempo ha mantenuto un’attenzione partecipe: la matrice era sempre quella della concentrazione sulla realtà che ci sta intorno per poi reinterpretarla e reinventarla con ironia, divertimento e parodia». La musa di quel cinema, Stefania Sandrelli, sottolinea ciò che Scola le ha trasmesso: «La meraviglia della collaborazione nel nostro lavoro, della condivisione, del sostegno, il privilegio e la magia di fare le cose insieme. Avesse dovuto scegliere una parola su tutte, questa parola sarebbe stata ‘noi’».
E lo stesso mette in evidenza Scarpelli: «Apparteneva a una generazione di cineasti che non usavano l’ ’io’, ma il ’noi’. Lavoravano insieme, ed erano abituati a farlo tenendosi un passo indietro rispetto alle storie che raccontavano. Valeva per lui come per tanti altri: Monicelli, mio padre, Age. È il principio di Flaubert: un autore è tutto nelle proprie opere, addirittura deve dare l’idea di non essere mai esistito. Così da un lato abbiamo le opere di Ettore, con cui continueremo a giudicarlo positivamente perché ha raccontato la storia d’Italia, e dall’altro ciò che era umanamente, come amico, come persona. In questi ultimi anni dopo che è morto mio padre lui è rimasto il mio punto di riferimento. Gli ho voluto molto bene».
Scola è morto la sera del 19 gennaio, a 84 anni, al Policlinico di Roma dove era ricoverato.
Enrico Vanzina ricorda che lui e il fratello Carlo hanno ricevuto la sua ultima telefonata a Natale, per gli auguri: «ci ha fatto molto effetto, perché non lo faceva mai. Non chiamava per fare smancerie. È una cosa che mi commuove molto, perché adesso abbiamo proprio la sensazione che fosse una telefonata per darci l’ultimo saluto».

Dalle baracche alle terrazze la Roma del Maestro così bella, sporca e cattiva VIAGGIO NEI LUOGHI DELLA CAPITALE: UN FILM DURATO UNA VITA
FILIPPO CECCARELLI Repubblica 21 1 2016
Quinta meravigliosa, chiavica del mondo, deposito di ruderi, spiritacci, fatalismo, corporeità e poesia.
Dall’alba al tramonto la Roma di Ettore Scola - cresciuto all’Esquilino, invecchiato ai Parioli - si può far coincidere con il tempo che passa, attraversa le classi sociali (finché c’erano) dilata i confini dell’impegno politico mentre forza quelli della commedia all’italiana.
La claustrofobica visione del cortile imbandierato nel palazzo di viale XXI aprile e la grazia immacolata dei panni stesi sul terrazzo de Una giornata particolare, forse il punto più alto dell’opera del Maestro.
Le baracche e le strade di fango che si vedono in Brutti sporchi e cattivi, a Monte Ciocci, latente quartiere Aurelio, oggi quasi irriconoscibile. Ogni tanto uno spicchio di cielo e di traverso la Cupola di San Pietro, omaggio alle sequenze finali di
Roma città aperta.
E quanto romano è ancora oggi il vociare nevrotico e il brulichio de La Terrazza. Al punto da entrare nel lessico della politica, del potere, intellettuali comunisti in crisi, ormai lontani dagli ideali della gioventù, e belle donne più giovani e saputelle, cicisbei del giornalismo, parassiti della letteratura, un presidente Rai che pretende di farsi il pedicure durante un Consiglio d’amministrazione. «Sembra la Terrazza!» e scagliarono quel film addosso al povero e innocente Enzo Siciliano, appena approdato a viale Mazzini.
Insomma, Roma: come è, come non è, come vuole essere raffigurata e insieme contraffatta dai più reali e verosimili stereotipi. Come se una specie di invisibile e spontanea sapienza sociologica, o magari era solo rabdomantica, avesse spinto Scola nella ricerca dei suoi luoghi.
L’appartamento ai Prati - il lungo corridoio, il pavimento di graniglia, i solidi infissi - entro cui si svolge nell’arco di un settantennio la vita tutta borghese de La famiglia. Ricostruzione d’ambiente perfetta, una cura che è arrivata ad annichilire la toponomastica scegliendo un indirizzo - via Scipione l’Emiliano - che a Prati non esiste, ma è come se esistesse.
E ristoranti («Il re della mezza porzione», sopra la chiesa della Consolazione), macchiette di venditori ambulanti e robotici («Interessa l’oggetto?»), ricordi di cinema (la ricostruzione del set de La dolce vita), un superbo, vecchissimo Aldo Fabrizi che fa il palazzinaro in C’eravamo tanto amati, e che in un dialogo con il genero, avido di beni, se ne esce con un genere di meditazioni - «l’omo più solo ar mondo è l’omo ricco» - che richiama la più comica e al tempo stesso la più tetra poetica del Belli.
Pochi altri autori hanno mantenuto un rapporto così lungo e intenso con Roma. I proletari di
Dramma della gelosia e la devozione per il Pci; la più recente trasformazione della città eterna in aggregato multiculturale in Gente di Roma, di cui chissà se in futuro si apprezzeranno l’intento e la leggerezza.
E forse è vero che per ogni cosa, ogni amore, ogni relazione serbano il loro valore all’inizio. Il giovanissimo Scola esordì come vignettista satirico al Marc’Aurelio, ma l’Urbe stessa dopo tutto sprofonda la sua identità nell’essere una parodia, una caricatura, la scimmia di una grandezza irripetibile.
Poi frequentò le redazioni, altro luogo di disincanto capitolino, scrisse battute radiofoniche per Alberto Sordi, quindi sceneggiò quelle che restano pietre miliari dell’epopea romanesca, Un americano a Roma, per l’appunto, e ancora di più, ancora peggio, Un giorno in pretura, con l’indimenticabile scena della « marana », fiumiciattolo entro cui il protagonista lotta contro un tronco d’albero dopo che il suo pubblico l’ha incoraggiato con un grido anch’esso destinato a restare: « America’, facce Tarzan! ».
E piazzale delle Belle Arti, Santa Maria in Trastevere, Porto fluviale col Gasometro, le ville dell’Olgiata, la «Garbante». Sguardi, squarci, vertigini e qualche lacrima.

I FILM

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