domenica 17 gennaio 2016

Forte, Ravasi e Bianchi su cristianesimo e ebraismo. Von Kaiser bacchetta Francesco che parla con i beduini



Quel legame che unisce ebrei e cristiani
di Bruno Forte, monsignore Il Sole 17.1.16
La visita odierna di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma – analogamente a quelle di Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986 e di Benedetto XVI il 17 gennaio 2010 – mette in evidenza non solo l’importanza che il popolo ebraico e la sua fede hanno per i cristiani, ma anche la rilevanza che il cristianesimo ha per l’ebraismo, come ancora una volta ho sperimentato di persona in questi giorni tenendo la «annual lecture» al Centro di studi sul cristianesimo della Hebrew University di Gerusalemme.
Perché questa rilevanza?
La risposta può essere cercata in una scena biblica, cui sono ricorsi gli antichi pensatori cristiani per illuminare il rapporto fra Israele e la Chiesa. Si tratta dei due esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende un grappolo d’uva, che essi accompagnano col melograno e il fico: «Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi»(Numeri 13,23). Nell’asta i Padri della Chiesa hanno visto il legno della Croce, da cui pende Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (così ad esempio Evagrio intorno al 430 nella «Altercatio inter Theophilum et Simonem»: PL 20,1175). Nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: «Portando l’asta, essi appresentavano i due popoli, l’uno avanti, quello ebraico che dà la spalle a Cristo, e l’altro indietro, che guarda al ramo, il popolo dei cristiani»(ivi: stesse idee in S. Massimo di Torino, alla metà del V secolo: Homilia 79: PL 57,423s). In quanto marciano l’uno dietro all’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa fondate sulla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che confessa in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’alleanza con Israele e della promessa fatta ai credenti. Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la profonda continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unico legno che entrambi gli esploratori portano, ma anche per l’orizzonte comune della meta cui si rivolge il loro sguardo.
Uniti nella speranza e nell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dal legno della Croce. Il legame è così forte, che il recente documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Chiesa Cattolica, pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II (10 Dicembre 2015, dal titolo: «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!», citazione della Lettera di Paolo ai Romani 11,29), non esita ad affermare: «Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico: il cristianesimo, date le sue radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito dialogo interreligioso in senso stretto: si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di dialogo intra-religioso o intra-familiare» (n. 20).
In particolare, tre elementi di continuità e insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa possono essere evidenziati: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento, e cioè la convinzione che in essa ci è offerto il senso ultimo della vita e della storia, e pertanto ci è indicata la direzione di marcia che rende piena e significativa l’esistenza umana in questo mondo; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento, e dunque la missione che essi hanno in forma simile ed insieme diversa per tener alto nella vicenda umana il senso religioso, inteso come l’apertura accogliente al Dio che si rivela per la nostra salvezza, motivato unicamente dall’amore per le sue creature. Ciò che unisce i due esploratori è dunque anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Perché questo avvenisse, la stessa Verità ha parlato il linguaggio degli uomini e infiammato di desiderio i loro cuori: l’Infinito è entrato nel finito per comunicarsi a noi! Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: «Il piccolo può contenere il grande»(cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9). Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: «Non essere costretti dal massimo, essere invece contenuti dal minimo, questo è divino» (elogio sepolcrale di Sant’Ignazio di Loyola).
Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano. “Zimzum” è l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo del Dio vivo che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà e nell’amore. L’invocazione “Tu sei Umiltà”, contenuta nelle Lodi del Dio Altissimo di San Francesco, mostra quanto questo messaggio corrisponda all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nel farsi carne del Verbo eterno e nel suo “annientamento” (“kénosi”) per amore nostro. Questa “estasi” del divino, questo “star fuori” dell’Infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire al cammino della creatura verso il Mistero, che è la vocazione ultima della creatura alla verità e alla bellezza che salva, e che per il cristiano è resa realizzabile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: qui la fede dell’ebreo Gesù unisce Israele e la Chiesa; qui la fede in Lui li distingue, pur senza separarli, nel comune cammino della speranza verso il compimento della promessa di Dio nel Regno che non avrà fine.
Nel messaggio di quest’anno per la giornata del dialogo ebraico cristiano, che cade sempre il 17 Gennaio, Rav. Giuseppe Momigliano, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, ed io in quanto Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, abbiamo perciò affermato: «Attraverso le nostre fedi riconosciamo anzitutto tutto il bene che c’è nel mondo, ed insieme viviamo con angoscia gli eventi del presente, che sono carichi di sofferenza e di inquietanti prospettive per il futuro, assistiamo sgomenti a gesti orrendi che profanano il Nome dell’Eterno, perpetrati con l’ignobile pretesa di adempiere alla Sua volontà, cogliamo con preoccupazione i segni sempre più frequenti di un’umanità smarrita, delusa da tante false idolatrie… Mentre rinnoviamo la nostra fedeltà ai principi e ai precetti che, con distinte peculiarità, caratterizzano le nostre fedi, sentiamo l’urgente necessità di ribadire la fiducia che, proprio dal fecondo dialogo da noi intrapreso, dalla ricerca di valori morali e spirituali condivisi nei quali operare in sintonia, possa scaturire una positiva testimonianza di fede, suscettibile di restituire speranza e di rivolgere nuovamente i cuori di molti verso l’Eterno».
Anche per questo la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma è un evento che tocca tutti, credenti e non credenti che siano.

Bibbia e «Lectio Divina»
Oggi Papa Francesco è in visita alla Sinagoga di Roma. Le Sacre scritture ebraico-cristiane testimoniano la vivacità del dialogo interreligioso di Gianfranco Ravasi, cardinale Il Sole 17.1.16
In questa domenica in cui – sulla scia di s. Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – papa Francesco è accolto nella Sinagoga di Roma dalla comunità ebraica romana, e alle soglie della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, torniamo a parlare di Bibbia. Se dovessi tener conto di tutti i libri di esegesi, di teologia, di commento e di spiritualità biblica pubblicati dagli editori italiani, sarei costretto a proporre continuamente semplici sillogi con qualche nota, tanto è fitto questo genere di produzione bibliografica. Eppure ci fu un tempo in cui si introduceva in Italia la Bibbia clandestinamente, come accadeva fino a pochi decenni fa col regime sovietico. Certo, si trattava di edizioni protestanti che partivano da Londra o dalle basi inglesi di Malta e Gibilterra. A capo di questa operazione furtiva c’era la londinese British and Foreign Bible Society , fondata nel 1804. Questa operazione aveva allertato soprattutto lo Stato pontificio che aveva fatto piovere su di essa le sue condanne, a partire dal 1824 fino a un intervento solenne attraverso l’enciclica Inter praecipuas machinationes (e il titolo è emblematico) emanata nel 1844 da papa Gregorio XVI Cappellari, a cui si aggiunse nel 1846 anche Pio IX con un suo divieto.
Questa premessa, che potrebbe essere cronologicamente ben più ampia e che però meriterebbe una corretta contestualizzazione storico-ermeneutica, ci fa comprendere quanto sia significativo il fatto che ora vogliamo presentare. Certo, dopo Porta Pia e il 1870, anche la citata Bible Society era entrata in Italia divenendo, prima la Società Biblica Italiana e poi la Società Biblica Britannica e Forestiera, sostenuta dalla chiesa valdese. Intanto, però, si celebrava il Concilio Vaticano II e un pastore valdese di grande apertura ecumenica e finezza culturale, Renzo Bertalot (1929?2015) gettava un ponte di collaborazione tra la Società Biblica e la Chiesa cattolica. Così, essa – oltre a pubblicare la famosa Bibbia tradotta dal protestante Giovanni Diodati nel Seicento e rivista da Giovanni Luzzi per adattarla al nuovo linguaggio – proponeva di concerto con l’editrice salesiana Elledici una suggestiva Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente dal successo folgorante.
Ma rimaneva sempre una certa distanza tra le due Chiese, la valdese e la cattolica, per quanto riguardava il testo biblico ufficiale: come è noto, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) aveva pubblicato dal 1974 una sua Sacra Bibbia, rielaborata accuratamente nel 2002 e definitivamente proposta in una nuova edizione nel 2007. Ebbene, ora la Società Biblica Britannica e Forestiera che ha sede a Roma ha deciso di proporre essa stessa proprio questa versione ufficiale della Cei in un volume raffinato ma anche maneggevole e funzionale, accogliendo perciò anche quei sette libri biblici anticotestamentari detti “deuterocanonici” dai cattolici e considerati “apocrifi” dai protestanti. Si tratta, quindi, di un atto ecumenico molto incisivo perché ribadisce che il cuore dell’incontro tra le diverse confessioni cristiane deve alimentarsi proprio col sangue vivo della Parola divina. Perciò quei cattolici o protestanti, non ancora in possesso di un’edizione della Bibbia che non sia da scaffale ma da tenere tra le mani per la lettura, hanno ora una nuova possibilità comune.
Ma c’è qualcosa di più. Oltre all’integrale testuale a cui opra accennavamo (cioè con l’aggiunta dei sette libri “deuterocanonici” Tobia, Giuditta 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc) e all’apparato di introduzioni e note, è stata offerta in finale una componente sorprendente, per di più sostenuta da una citazione di papa Francesco. Si tratta di una guida a un particolare approccio alla S. Scrittura, codificato nel Medioevo monastico e caro al mondo cattolico. È la così detta Lectio divina, in pratica una lettura spirituale ed esistenziale della Bibbia.
A elaborarne il metodo fu un monaco del XII secolo, Guigo il Certosino, che lo articolò in quattro tappe o scansioni. Innanzitutto si ha la Lectio vera e propria, cioè la lettura con l’identificazione corretta del messaggio del testo sacro secondo i canoni dell’esegesi. Segue la meditatio, ossia l’incarnazione dell’oggi della parola divina per la vita del credente. Se la prima tappa risponde alla domanda: «Che cosa dice il testo in sé?», nella seconda ci si interroga: «Che cosa dice il testo a noi?». Subentra, così, l’oratio, a cui corrisponde la domanda: «Che cosa dire a Dio», dopo averlo ascoltato?
È il momento della risposta orante, personale e comunitaria. Infine, si entra nella contemplatio che è il vertice dell’intero itinerario, in cui si riassume l’esperienza vissuta, intuendo così un nuovo volto di Dio e un nuovo nostro volto interiore.
Questo livello potrebbe essere descritto con un passo degli Atti degli apostoli che introducono l’ultima domanda.
Dopo aver ascoltato il discorso di Pentecoste tenuto da s. Pietro, i presenti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero: Che cosa dobbiamo fare?» (2,37). Quattro momenti, dunque, segnati da altrettanti interrogativi che rivelano una particolare ermeneutica della Bibbia di natura performativa, destinata cioè a transitare dalla ragione al cuore, dall’ascolto all’agire, dal testo alla vita, dalle parole umane alla Parola divina. La vasta appendice offerta da questa edizione della Bibbia applica la tetralogia sopra evocata a tutti i 73 libri che compongono le S. Scritture ebraico-cristiane, con indubbia creatività ed efficacia, permettendo così alle comunità cattoliche, protestanti e ortodosse di ritrovarsi insieme in quel crocevia della loro fede che è la Bibbia. In esergo si è, infatti, posta una frase folgorante del libro di Giosuè, il sesto delle S. Scrittura: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo» (1,8).
Accanto a questa importante operazione editoriale ed ecumenica, che ben s’adatta a celebrare i 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II e che s’innesta nella fervida atmosfera di dialogo introdotta da papa Francesco, evochiamo un’esperienza analoga anche se differente sempre di taglio biblico. La Fondazione Ramon Pané, fondata nel 1994 in ricordo del primo catechista dell’America Latina e con sede a Tegucigalpa (Honduras) e Miami (Usa), ha cercato di rispondere a un quesito che affiora frequentemente: se la Bibbia è composta di più opere, pur essendo ormai compattata in un unico libro, la si può affrontare con una lectio continua, come si faceva in passato, seguendone l’attuale successione canonica, oppure è possibile procedere secondo una trama più libera e coerente con la storia e i temi in essa proposti?
Ebbene, questa Fondazione ha suggerito un inedito e curioso piano di lettura del Nuovo Testamento partendo dalla vicenda germinale di Cristo e della Chiesa narrata da Luca nel suo Vangelo e negli Atti degli apostoli, per proseguire con l’apostolo Paolo che entra con le sue Lettere nelle varie città dell’impero romano e nelle relative comunità cristiane di matrice pagana. Si passa poi alla cristianità di origine giudaica col Vangelo di Matteo, la Lettera agli Ebrei e quella di Giacomo, per rivolgersi poi all’orizzonte della predicazione di s. Pietro col Vangelo di Marco e le due Lettere di Pietro e, così, approdare al corpus giovanneo composto dal Vangelo, dalle Lettere e dall’Apocalisse. Un copione interessante, reso trasparente e agevole nella lettura anche dall’abolizione della numerazione dei capitoli e dei versetti (una scansione per altro tardiva, perché introdotta solo nel 1528 da Sante Pagnini in una Bibbia pubblicata a Lione). Si offre così, un percorso testuale quasi narrativo continuato, affidato al dettato molto limpido e immediato della citata Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente.

I Fratelli diversi
di Enzo Bianchi Repubblica 17.1.16
NELLE scorse settimane è stato pubblicato da un organismo della chiesa cattolica, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, un documento che vuole fare il punto sulla situazione dei rapporti tra le due comunità di fede. È un testo coraggioso, nel quale si afferma con ancora maggior precisione e convinzione l’accettazione piena da parte della chiesa della Bibbia ebraica, detta Antico Testamento, e si confessa l’unità dei due Testamenti, precisando però con chiarezza che la chiesa legge le Scritture ebraiche attraverso l’ermeneuta definitivo, Gesù Cristo.
Proprio dall’Antico Testamento, infatti, sono nate le due fedi, e sul rispettivo modo di leggere e interpretare le stesse Scritture sono restate unite e, nello stesso tempo, si sono separate. L’ebraismo post-biblico mise al centro della lettura la Torah, la legge, facendo sua l’eredità dei maestri farisei dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.); il cristianesimo, invece, accolse l’Antico Testamento ma lo vide realizzato in Gesù di Nazaret. A dire il vero, dunque, ebraismo e cristianesimo nascono dallo stesso ceppo come due fratelli gemelli, sebbene non simmetrici. Per la chiesa Israele resta il popolo delle promesse e delle benedizioni, in un’alleanza con Dio mai revocata e tuttora in vigore, mentre per Israele il cristianesimo resta ancora enigmatico e non da tutti gli ebrei viene letto e percepito teologicamente. Con questa consapevolezza, si registra sia nella chiesa sia nell’ebraismo una grande volontà di collaborazione, soprattutto per l’azione redentrice del mondo, per la giustizia, la pace e la qualità della vita sulla terra.
Restano tuttavia dei problemi. La chiesa non può ammettere un’altra via di salvezza che non sia quella aperta da Gesù. Resta perciò un mistero come i due popoli, per ora separati, possano camminare verso la salvezza su vie così distinte, vie che per i cristiani portano a Cristo. In ogni caso, nel “frattempo”, la chiesa non organizza la missione evangelizzatrice verso gli ebrei e si vieta ogni forma di proselitismo. A distanza di 150 anni da quando fu fondata una congregazione per la missione verso gli ebrei e la loro conversione, la chiesa confessa di non ritenere più opportuna la pratica di quella via.
Se questa è la situazione fin qui maturata, non vanno tralasciati due elementi di frizione. Il primo si è manifestato più volte nei confronti di papa Francesco e del suo uso dei termini “farisei”, “scribi” e “dottori della legge”. Nei vangeli vi è polemica e condanna, anche sulle labbra di Gesù, nei confronti di queste componenti e figure rappresentative del popolo ebraico. Ebbene, papa Francesco, e non solo lui, non specifica ogni volta che il riferimento non riguarda tutti i farisei, tutti gli scribi, tutti i dottori della legge, ma che con queste espressioni si vuole ammonire quei cristiani, quegli ecclesiastici che oggi nella chiesa ripetono quei comportamenti patologici. Il rabbino capo di Roma ha rimproverato questo linguaggio al Papa, contestandogli la connotazione negativa del termine “farisei”, i padri dell’attuale ebraismo, che hanno salvato l’eredità veterotestamentaria e trasmesso la fede ebraica fino a oggi. È vero, i cristiani spesso citando il Nuovo Testamento non precisano che solo alcuni farisei, alcuni scribi, alcuni capi del popolo dei giudei hanno contraddetto Gesù, polemizzato con lui e infine l’hanno condannato, perseguitando poi la chiesa nascente.
Dunque questa tipizzazione, negativa come tutte le tipizzazioni, va abbandonata; ma gli ebrei devono ricordare che gli stessi rabbini polemizzavano con queste figure del tempo di Gesù. Anche nella tradizione talmudica troviamo una tipizzazione del fariseo. Si legge: “Non temere né i farisei né coloro che non sono farisei, ma temi gli ipocriti che sono simili ai farisei”. Il Nuovo Testamento e i cristiani, quando denunciano i farisei, pensano in primo luogo a se stessi, ai legalisti, agli ipocriti, a quelli che ostentano la loro religiosità e vantano meriti. Il vizio denunciato è antropologico e certo è presente negli uomini religiosi, per i quali Dio è giustificazione a causa non del loro comportamento, ma della loro appartenenza identitaria. Quando dunque il rabbino Di Segni afferma che «questo linguaggio del Papa è pericoloso per l’ebraismo» non coglie l’intenzione né di Francesco né dei cristiani, che non vogliono giudicare gli ebrei ma la loro propria comunità, i propri membri, affetti dalle patologie riscontrabili in qualsiasi istituzione religiosa.
Il secondo elemento critico è quello che resta ancora oggi come una ferita aperta: la diversa comprensione della terra di Israele e del legame con essa. Noi cristiani comprendiamo che per gli ebrei la terra di Israele è, secondo l’ermeneutica da essi praticata sulla Bibbia ebraica, un dono di Dio rispondente alle promesse fatte ad Abramo e ai padri e che, di conseguenza, sentano un rapporto inscindibile tra la loro fede e quella terra. Ma gli ebrei devono a loro volta comprendere che proprio Gesù, da cui noi nasciamo come cristiani, ha spezzato quel legame con la terra, così come ha spezzato i vincoli con i legami di sangue e con il tempio. Se siamo coerenti con il Vangelo, noi cristiani non abbiamo né patria né terra: siamo pellegrini in ricerca e attesa della patria celeste. Non neghiamo agli ebrei il diritto a un assetto politico e statale, ma affermiamo che tutti gli umani devono costruire la società nella giustizia, nel rispetto dell’altro e nella solidarietà con gli altri, anche stranieri. La concezione del legame che gli ebrei hanno con la terra richiede che siano rispettate la giustizia, la libertà e la fraternità con tutti, senza che si ergano nuove barriere e muri di separazione. In questa azione gli ebrei troveranno sempre i cristiani fedeli al Vangelo come fratelli e sorelle solidali, accanto a loro e pronti a spendere la vita per loro, affinché il popolo di Israele viva.

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