venerdì 8 gennaio 2016

Il demonio narcisista di Sua Maestà: Toni Negri scandalizza ancora la borghesia italiana nonostante l'assoluta innocuità del suo pensiero politico


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Toni Negri: Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, Milano, pagg. 608, € 18,00

Risvolto
Dall’infanzia negli anni atroci della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77: la storia di Toni Negri, uno dei filosofi italiani più noti nel mondo e uno dei motori di un’avventura collettiva del pensiero che ha sognato e tentato l’assalto al cielo dell’ingiustizia e dello sfruttamento. Ma anche la storia di un italiano – e di un veneto, legato da un grande amore alla sua terra – che attraversa l’Italia della ricostruzione e giunge fino al cosiddetto miracolo italiano, per mostrarlo dal punto di vista di chi quel miracolo lo ha davvero costruito, e ha rivendicato con le lotte il diritto di goderne i frutti: il racconto di una generazione che attraversa ed è attraversato da eventi grandi e drammatici, ma anche piccoli e misconosciuti, e da una miriade di altre individualità che condividono, intersecano, contribuiscono a formare e scrivere il romanzo di formazione di un soggetto al tempo stesso individuale e collettivo. Dopo essere stata distorta, deformata e strumentalizzata per scopi politici e giudiziari, oggi questa storia viene raccontata dalla viva voce del suo protagonista, attingendo a una vasta documentazione e a una memoria che la restituisce alla sua verità umana, storica e politica.

Un soliloquio di 600 pagine
Raffaele Liucci Domenicale 3 1 2016
È un peccato che Thomas Bernhard non abbia mai incontrato Toni Negri, perché questi gli avrebbe senz’altro fornito ispirazione per i suoi personaggi maniacali: «Riformatori del mondo», imprigionati nel loro febbrile solipsismo. 
Storia di un comunista, s’intitola l’autobiografia di Negri (nato nel 1933), che s’interrompe bruscamente all’imbrunire degli anni Settanta, con il suo arresto. Ma forse i veri comunisti dovrebbero querelarlo, per appropriazione indebita. Ci troviamo di fronte, infatti, non a un comunista, bensì a un piccolo borghese anarcoide: esponente di quel «ribellismo estremizzante» che l’antropologo Carlo Tullio-Altan ha eretto a «sottofondo» latente della nostra storia. A seconda dei frangenti, questa corrente carsica ha assunto coloriture ora di destra ora di sinistra, finendo sempre, paradossalmente, per puntellare l’ordine costituito.
Da buon piccolo borghese, Toni Negri è persuaso che il valore di un libro dipenda dal numero di pagine e dalla quantità di iperboli con cui infarcirle («passaggio ricompositivo di classe», «ristrutturazione immateriale dell’antagonismo», «rottura della dialettica in un convenzionalismo istituzionale»). Avesse vergato un memoir più calibrato, forse ne sarebbe scaturito un lavoro incisivo, come quello di Enrico Fenzi, Armi e bagagli, capace di restituire la Weltanschauung (seppur deviata) di un intellettuale umanista e rivoluzionario. Invece, questo sbrodolatissimo tomo di oltre 600 pagine risulta indigesto. Non solo per la tediosità, ma anche per lo stile egolatrico.
«Negli anni Settanta eravamo riusciti a interpretare la forte capacità di trasformazione dell’intera società», proclama l’autore. In verità, in questo libro c’è esclusivamente lui, Toni Negri. A un certo punto, sembra che la Guerra Fredda, i cambiamenti del Veneto rurale, lo sviluppo di Porto Marghera, l’autunno caldo, la strategia della tensione, la repressione poliziesca, la ristrutturazione capitalistica, siano avvenute per lui, affinché potesse poi raccontarle in una prosa magniloquente, sprovvista di ogni senso del tragico. Monade sguarnita di oblò, il nostro professore ricorda davvero un personaggio bernhardiano, monologante all’infinito. Non senza lampi d’involontaria comicità. Come quando dipinge il leggendario grecista patavino Carlo Diano (non certo un fior di progressista) quasi alla stregua di un proprio antesignano. O quando si arrampica sugli specchi per giustificare il fatto che lui, teorico della distruzione dello Stato, tenesse a Padova la cattedra di Dottrina dello Stato.
Inoltre, il vittimismo civettuolo di Toni Negri suona parecchio irritante. È vero: il «teorema Calogero» – secondo cui l’Autonomia Operaia di Negri sarebbe stata il “cervello” di un progetto d’insurrezione armata, condiviso con le Br – non ha avuto piena accoglienza in sede processuale. Però non va dimenticato che lo stesso Negri, con tre distinte sentenze, è stato condannato in via definitiva a una pena complessiva superiore ai 16 anni di reclusione, per reati sia di natura associativa sia specifica. Mica bruscolini! 
Ridimensionata sul piano giudiziario, la pista investigativa del magistrato padovano Pietro Calogero ha in ogni caso depositato fecondi semi storiografici, come testimoniano alcune ricerche di Alessandro Naccarato e Carlo Fumian. Gli storici, infatti, a differenza dei giudici, non accertano solo le responsabilità penali, ma anche quelle morali e culturali, decisive per illuminare il contesto.
Già che ci siamo, dovremmo anche rispolverare gli studi di Angelo Ventura sugli anni Settanta e l’estremismo di sinistra, raccolti qualche anno fa in un volume Donzelli (Per una storia del terrorismo italiano): sono fondamentali per inquadrare la forma mentis ballerina degli intellettuali formatisi nel crogiolo dell’operaismo. Personaggi del calibro di Toni Negri, Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Franco Piperno, poi protagonisti, nei decenni successivi, di numerose piroette, sempre guidati dall’immodestia di essere dalla parte giusta della Storia. Per costoro, i fatti non hanno mai contato nulla, soltanto le interpretazioni. «Quei cattivi fatti che rovinano le belle idee», diceva un caustico Lucien Febvre. Forse è il don Ferrante manzoniano l’archetipo di questi chierici, nei quali, scrive Ventura, «la radicata tradizione di un sapere prevalentemente libresco, astratto e deduttivo, si combina con una cultura fortemente ideologizzante, incline allo spirito sistematico e ai miti».
Il mondo a mia immagine e somiglianza. O, meglio ancora, «Il mondo sono io», come esclamava Giovanni Papini.

L’ego-biografia di Negri che dimentica la Storia Dall’infanzia agli anni Settanta, l’ex leader di Potere Operaio racconta la sua vita. Seicento pagine, nessuna autocritica
Simonetta Fiori la Repubblica, 5 gennaio 2016
L’autobiografia è un genere disseminato di trappole, che in pochi riescono a disinnescare. Certo non vi riesce Toni Negri nei fluviali mémoires in cui ripercorre la sua vita dall’infanzia in un Veneto molto povero fino all’arresto il 7 aprile del 1979 per «insurrezione contro i poteri dello Stato ». (Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie). Una storia lunga oltre seicento pagine che può essere letta come documento del narcisismo intellettuale di una generazione, quella dei cattivi maestri che oggi si volta a guardare le macerie lasciate alle spalle rimpiangendo la rivoluzione mancata. Mancata naturalmente non per oggettive responsabilità, ma per colpa del «troppo piombo rovesciato dallo Stato assassino».
Un’occasione mancata sembra l’ego-histoire di Negri, figura che continua a esercitare fascino in alcuni ambienti intellettuali nonostante le gravi responsabilità penali, politiche e morali accumulate nella stagione del terrorismo. Il ponderoso volume poteva essere un’occasione per ripercorrere (auto)criticamente la storia italiana, anche gli errori e le dissennatezze di quegli anni. Ma tra le pieghe della meticolosa ricostruzione è difficile imbattersi in un ripensamento autentico («i compagni delle Brigate Rosse», continua a scrivere quarant’anni dopo). E rari sono gli accenti di umana solidarietà per chi quella storia oggi non può raccontarla, per le vittime del terrorismo e per le loro famiglie spezzate, anche per i giovani perduti dietro un folle velleitarismo. Così come invano si cerca un accenno alle ricadute che la lotta armata ha prodotto nel nostro paese, negli assetti politici e nella capacità di cogliere i cambiamenti in atto nel mondo. L’autore è troppo preso dal raccontare il suo «assalto al cielo» per accorgersi di tutto il resto, pur nella ripetuta deprecazione dell’omicidio, principio ribadito in vari passaggi. E il libro restituisce minuziosamente il vortice del suo progetto intellettuale e pratico, tra toni autocelebrativi e un evidente compiacimento.
I primi capitoli raccontano l’infanzia e l’adolescenza segnate da un pervasivo sentimento di morte provocato anche dalla guerra. «Ogni percezione del mondo è affogata nel lutto», scrive Negri in pagine raggelate da un dolore profondo, alimentato dalla tragedia del fratello repubblichino morto suicida. In questo contesto spicca luminosa la figura dell’Aldina, la “mutter courage” che ne favorisce la fuga da una vita di stenti. Quello che segue, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, è un percorso di tutto rispetto che lo mette in contatto con le energie migliori del paese – il cattolicesimo democratico, il movimento federalista europeo, la comunità olivettiana, la Normale di Pisa, le riviste operaiste, intellettuali della statura di Chabod, Bobbio e Garin. Un percorso di esperienze, studi e letture che lo conduce giovanissimo alla cattedra di Dottrina dello Stato – lui che lo Stato l’avrebbe voluto abbattere – e che forse rende ancora più inaccettabile l’approdo successivo al brivido del passamontagna esibito dal leader di Potere Operaio e poi di Autonomia. E anche l’accento commosso della rievocazione - «Perché un giovane che si presume intelligente, colto e più attivo che contemplativo si iscrive a Filosofia all’inizio degli anni Cinquanta? La risposta che mi do è: la ricerca della verità» - crea le premesse della biografia di un santo o di un profeta disarmato, non di un intellettuale condannato dal tribunale italiano per aver organizzato bande armate e per concorso morale a una rapina.
E nella ricostruzione degli anni Settanta colpisce che a distanza di quattro decenni il linguaggio resti inalterato - lo “Stato terrorista” e “i poliziotti assassini” – come una livida caricatura che invece di essere nascosta con vergogna viene impudicamente rivendicata. Però non manca l’inchino a Francesco Cossiga, ricordato come «uomo elegante, appassionato e critico» (una simpatia probabilmente favorita dal giudizio che Cossiga avrebbe espresso sulla sua condanna, «frutto di un «giustizialismo giacobino»).
L’autobiografia di Toni Negri è anche la storia di una vita intensa, di molti amori, di residenze confortevoli, di viaggi appassionanti, di incontri con il fior fiore dell’intellighenzia internazionale. Fu a casa di un aristocratico napoletano che imparò «l’esatta composizione delle bombe molotov ». «Una bellissima villa sulla costa sorrentina, piastrellata di Vietri e aperta a una vista straordinaria ». Perché un rivoluzionario, tiene anche a dircelo, non deve mai rinunciare a un buon stile di vita.

Toni Negri, un pregiudizio lungo quarant’anni 
Tempi presenti. Intellettuale perché militante politico. Questa la ragione di una pervicace ostilità 
Sergio Bianchi Manifesto 16.3.2016, 0:30 
Le ragioni del perché Toni Negri sia lodato dagli intellettuali di mezzo mondo quanto disprezzato da quelli del suo paese non è di facilissima comprensione. In parte sarà senz’altro dovuto al residuo di quella montagna di odio che quasi quarant’anni fa i media hanno saputo orchestrare nei suoi riguardi. Eppure non si deve trattare solo di questo. Perché il livore dimostrato in alcune recensioni alla recente pubblicazione della sua autobiografia fa sorgere il dubbio sull’esistenza di un istinto pregiudiziale che, per paradosso, vorrebbe addirittura negargli la legittimità del ruolo di intellettuale. Come a dire che non merita di appartenere a quella casta perché ne è stato escluso innanzitutto per indegnità morale, essendo stato responsabile della degenerazione violenta di decine di migliaia di giovani ai quali aveva rivolto i sui cattivissimi insegnamenti. 
A queste reiterate accuse Negri sembra rispondere con il sorriso beffardo dell’immagine di copertina del suo libro. Come a dire che no, non gli sono bastati oltre dieci anni di galera e quattordici di esilio per pentirsi della sua lunga esistenza spericolata e a precipizio, effettivamente non riconducibile nei rassicuranti quanto banali panni dell’intellettuale dispensatore di sani insegnamenti sull’opportunità della civile convivenza. Perché Negri, piaccia o no, è sempre stato un intellettuale schierato con la lotta di classe e convinto assertore di quella trontiana massima «operaista» che con assoluta chiarezza recita: conosce veramente solo chi veramente odia. I padroni s’intende. Perché Negri, piaccia o no, è sempre stato, insieme, filosofo della politica e militante politico, e ciò in modo coerente e indissolubile. 
A riguardo le pagine sulla sua partecipazione alle lotte operaie a Porto Marghera negli anni Sessanta, e poi la fondazione di Potere operaio, e poi ancora dell’Autonomia operaia, sono un straordinaria testimonianza di cosa significhi essere soggetti produttori di ricerca teorico filosofica e insieme militanti politici (anche) di base. E sempre a proposito della dispensazione di una sana conoscenza, alle anime belle che affollano la nostrana casta degli intellettuali, le quali a sentir nominare Negri trattengono a fatica l’istinto di sputare per terra, andrebbero chieste le ragioni del perché la condizione culturale del nostro paese, a partire dalle università, versa nelle note, miserabili condizioni. A Luciano Ferrari Bravo, l’amico intellettualmente più legato a Negri e di conseguenza con lui stupidamente ristretto al gabbio, era persona pacata, gentile e mite, solo una cosa riusciva a mandarlo veramente in bestia, appunto l’accusa di essere stato, all’epoca, lui e tutto l’Istituto di scienze politiche di Padova, dispensatore di ignoranza. Ed è appunto con il riscontro dell’approccio a una conoscenza non convenzionale sulla storia della lotta di classe nel nostro paese, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, che andrebbe affrontata la lettura dell’autobiografia di Negri. Un lavoro che ha visto la partecipazione, segnata da un serio rigore quanto da una silente e riservata modestia, di Girolamo De Michele, Tommaso De Lorenzis e Vincenzo Ostuni. 

A chi volesse avventurarsi in questa impegnativa ma appassionante lettura, che svela nella sua prima parte le vicende meno conosciute della biografia di Negri, quelle della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, va consigliata, a compendio, l’accostamento di un’altro suo libro, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, un’opera che ripercorre nello specifico tutti i principali passaggi della sua formazione filosofica, teorica e politica.

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