lunedì 18 gennaio 2016

Il Ponzio Pilato di Aldo Schiavone

Ponzio Pilato
Aldo Schiavone: Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, pp. 184 € 22,00

Risvolto
La vicenda del prefetto romano di Giudea raccontata in un grande libro di storia.

Da duemila anni Pilato è una figura di intersezione fra la memoria e la storia, come Romolo o Giovanna d'Arco. Con la stessa felicità di scrittura e la stessa capacità di parlare a un pubblico ampio dimostrata in Spartaco, Aldo Schiavone costruisce qui un magistrale ritratto del prefetto di Giudea ripercorrendo gli eventi che portarono alla morte di Gesú, culmine della narrazione cristiana e punto di contatto fra ricordo evangelico e storia imperiale. Con appassionato rigore, e in serrato dialogo con le fonti, Schiavone non si prefigge alcun intento teologico o politico, ma solo quello di risolvere un enigma, descrivendo e spiegando quel che potrebbe essere accaduto.



Il politico romano è famosissimo ma della sua vita si sa davvero poco. Una biografia ne indaga la figura (ri)scoperta di Pilato
Camillo Langone Giornale - Ven, 29/01/2016

Il patto tra Gesù e Pilato 

Un saggio di Aldo Schiavone, in uscita domani per Einaudi, esplora i contorni del dialogo, quasi un duello, tra Cristo e il prefetto della Giudea. Un confronto tra Cesare e Dio che pose le fondamenta della civiltà occidentale moderna
18 gen 2016  Corriere della Sera Di Ernesto Galli della Loggia 
A cominciare dall’epilogo ogni cosa ci è nota fin nei più minuti particolari della vicenda narrata in questo libro. Eppure è come se non ne avessimo mai saputo nulla: quasi ogni sua pagina, infatti, ci propone interpretazioni nuove, ci schiude idee e nessi, illumina particolari che finora ignoravamo o ci erano sfuggiti: ogni volta capaci di stupirci. Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi) s’intitola questo libro straordinario, il cui autore, Aldo Schiavone, è, come si sa, un antichista tra i più illustri anche fuori dei nostri confini, conoscitore come pochi della storia e del diritto di Roma. Uno studioso, dunque, ma soprattutto un intellettuale di una molteplicità d’interessi fuori del comune, alimentati da uno spirito fortemente anticonvenzionale.
Schiavone ripercorre la narrazione evangelita ca delle ore precedenti la crocefissione (in particolare le pagine del Vangelo di Giovanni, che su tali momenti è di gran lunga il più ricco di notizie) illustrando il contesto storico, misurando la credibilità e il significato, le implicazioni e i possibili retroscena, di quella che egli descrive in sostanza come una congiura dell’aristocrazia ebraica sadducea — padrona virtuale del Sinedrio e dell’amministrazione del Tempio, nonché legata da un rapporto di tipo collaborazionistico con il potere romano. Una congiura volta a sbarazzarsi di Gesù, la cui predicazione agli occhi di chi l’aveva ordita — e che in ciò vedeva giusto — avrebbe potuto significare la disintegrazione di fatto dell’identità nazional-religiosa ebraica. Anche a motivo di questo carattere segreto e cospirativo di tutl’operazione, l’autore contesta in modo convincente la tesi — accreditata invece dal testo evangelico, e poi ancor più dalla successiva tradizione cristiana all’evidente scopo di segnare un’invalicabile linea divisoria tra Cristianesimo e Giudaismo — di una responsabilità collettiva del «popolo» ebraico nella morte di Gesù. 
Ma la macchinazione di Caifa e dei suoi è solo la premessa e lo sfondo. Al centro del libro, infatti, sta il drammatico confronto tra Pilato e Cristo, cuore tuttora pulsante e animatore di una memoria che da duemila anni non cessa di alimentare e di plasmare le forme di pensiero dell’Occidente e non solo. Una memoria di cui il prefetto di Giudea è parte così essenziale che il suo nome (non già quello dell’imperatore Tiberio, che in certo senso sarebbe stato più congruo) è il solo nome profano che ricorre in quella che è la confessione di fede basilare del Cristianesimo, il Credo di Nicea: «... patì sotto Ponzio Pilato». 
Che cosa avvenne in quel confronto? Schiavone lo rievoca in pagine emozionanti non solo pregne di pathos, ma di alta qualità letteraria, nelle quali le domande dell’uno e le risposte dell’altro, pur conosciutissime nella loro letteralità, acquistano tuttavia — grazie alla luce interpretativa che viene gettata su di esse e alla ricchezza dei nessi istituiti dall’autore — un significato tutto nuovo.  
Intrecciata con questo confronto vertiginoso la schermaglia invece tutta politica di Pilato con l’ebraismo ufficiale, il quale vuole che sia l’autorità romana a compiere il disegno di morte che esso da solo non può compiere, perché non ne ha l’autorità. È la schermaglia quanto mai drammatica tra il potere dei dominatori da una parte e dall’altra il necessario consenso dei dominati. È anche, però, in un senso più complesso, la schermaglia tra il rappresentante di un «ordine del mondo fondato sulla ragione e sulla misura», profondamente venato di scetticismo, e dall’altra parte, invece, un popolo antico immerso in una dimensione religiosa assoluta, cemento di un’appartenenza etnica che lo stringe in una Legge che non può conoscere né novità né dubbi. Non fu in alcun modo un processo. Fu da subito, dopo le prime battute e sotto la formale parvenza di un interrogatorio, uno straordinario dialogo, una sorta di duello disperato — così per l’appunto lo riviviamo in queste pagine — tra Pilato, convinto fino all’ultimo della sostanziale innocenza dell’uomo che aveva davanti, desideroso nel proprio intimo di salvarlo, e il Nazareno, incurante di difendersi, ma interessato solo a ribadire il senso della missione profetica assegnatagli dal «Padre». Un dialogo disperato, ho detto, perché nella ricostruzione di Schiavone esso si tramuta ben presto, da parte del prefetto romano, nella spasmodica ricerca di una verità in qualche modo sempre più intuita, ma destinata a restargli fino alla fine inattingibile. «Di dove sei?», pur certamente sapendo tutto di lui, egli chiede smarrito alla fine al prigioniero, sopraffatto dalla presenza dell’ignoto che sente in quell’uomo.
Altresì una sorta di confronto ravvicinato tra cielo e terra che a un tratto diviene — e come poteva essere altrimenti? — un confronto tra Dio e Cesare. In nessun altra pagina scritta della tradizione occidentale i due poteri si sono misurati, viene da dire si sono parlati, in una misura altrettanto intensa e in un modo altrettanto ultimativo. Così contribuendo in modo determinante a segnare il percorso storico della nostra civiltà. Davanti a Pilato, Cristo, con le sue parole («il mio regno non è di questo mondo...»), avvia una gigantesca rivoluzione concettuale e pratica. Egli rompe l’identità tra potere religioso e civile, l’identità tra comunità politica e ordinamento religioso, tra potere e salvezza: insomma l’«incontenibile dimensione teocratica» che era stata propria del monoteismo ebraico. Grazie all’introduzione in tale monoteismo della presenza del Figlio, l’Uno infatti si divide nel Due. In una pagina di grande profondità Schiavone osserva acutamente come s’innesti così nella costituzione pur sempre unitaria del divino una sorta di principio dialettico, «una riforma di portata incalcolabile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddizione perfino — in una parola della storicità — dove prima, nella tradizione monoteista, era impensabile cercarla». Attraverso questa porta aperta potrà dunque transitare la diversità dell’umano, l’immensa e sempre cangiante molteplicità delle sue prospettive. «L’alleanza con Dio esalta l’umano ma modifica anche la forma di Dio». 
Senza contare che con quell’affermazione di Cristo veniva altresì avviata una virtuale depoliticizzazione del monoteismo, e aperta, di conseguenza, quella «breccia di secolarizzazione» entro la quale la parte del mondo che noi oggi abitiamo avrebbe avuto modo di sviluppare il suo pensiero e le sue forme straordinariamente peculiari di civiltà all’insegna dell’autonomia dei due regni. Il che forse, osservo io, dovrebbe forse far sorgere qualche dubbio ai tanti orecchianti che, senza sapere ciò di cui parlano, vanno cianciando oggi di monoteismi che «sono tutti eguali», dal momento che in fin dei conti adorerebbero tutti «il medesimo Dio». 
Siamo comunque all’acme di quelle ore fatali, al momento dello scioglimento del dramma nella condanna del prigioniero. È in queste pagine conclusive che il lettore è preso più che mai dal racconto dell’autore, dalla sua capacità di interpretare il dramma, di scorgervi ciò che è solo implicito. Dove egli mette al servizio di tale capacità, si direbbe, anche un crescente coinvolgimento personale. Quasi — se posso permettermi di manifestare una tale impressione — che nella rievocazione di quell’evento, nel succedersi logico ma insieme tragicamente enigmatico di quei fatti, di quei dialoghi, gli sia occorso di scorgere a un tratto come il riflesso di quell’«alta luce che da sé è vera» di cui si legge nella Commedia: qualcosa che effettivamente gli è sembrato giungere da un altrove per andare oltre. 
Fu senz’altro qualcosa del genere che dovette comunque avvertire Pilato, secondo Schiavone. Il governatore della Giudea era convinto dell’innocenza del prigioniero ai sensi della legge romana, e neppure la subdola insinuazione dei capi del Sinedrio che se egli lo avesse mandato libero allora non si sarebbe mostrato «amico di Cesare», e tanto meno la loro accusa che Cristo avrebbe attentato al potere imperiale con il proclamarsi re, sarebbero state ciò che davvero lo indusse a consentirne la morte. 
Fu qualcos’altro. Qualcosa di completamente diverso. L’oscura ma acutissima percezione (e si può ben immaginare quanto sconvolgente) che colui che egli aveva davanti voleva morire. E che doveva morire perché altra conclusione non era possibile alla sua vita. Che in qualche modo la profezia a cui quell’uomo aveva dato voce doveva compiersi senza che nessuno potesse osare di fermarne il corso. Schiavone avanza addirittura l’idea che ad un certo momento, nell’ora fatale, tra il prigioniero e il suo giudice «si sia stretto come un tacito e indicibile patto». E che in qualche modo l’evangelista lo abbia intuito, senza però che nulla potesse dirne. Solo indicando chiaramente negli ebrei i responsabili della morte del Cristo, infatti, solo mettendo l’accento sulla loro libera volontà non condizionata da alcuna predestinazione, solo così Gesù poteva divenire ciò che aveva voluto essere: colui che aveva «liberato la storia d’Israele in un orizzonte che sentiva infinitamente più vasto», facendo «della Bibbia non (solo) il libro di un’identità “nazionale” sia pure d’eccezione, ma di una fede universale senza confini». Tutto dunque quel giorno si compì come doveva compiersi. Mentre nel tempo successivo la tradizione cristiana avrebbe mantenuto intorno a Pilato l’ombra dell’ambiguità, in qualche modo sancita da quel singolare riconoscimento alla sua persona, contenuto nella professione di fede della nuova religione. 
Un’ambiguità che oggi vediamo illuminata fino in fondo, in un certo senso finalmente risolta, grazie a questo libro prezioso, frutto di un’alta erudizione come poche altre volte così pronta a risolversi in una qualità letteraria avvincente, che fino all’ultimo rende il lettore incapace di staccarsi dalla pagina.

Ponzio Pilato, ipotesi e illazioni nella nebbia

Aldo Schiavone, «Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria», Einaudi. Storicamente inafferrabile, il ruolo svolto dal funzionario romano nella passione di Gesù è oggetto di un’analisi oscillante, troppo possibilista
di Carlo Franco il manifesto 7.2.16

Tra storia e memoria muove l’ultimo libro di Aldo Schiavone: Ponzio Pilato Un enigma tra storia e memoria (Einaudi «Storia», pp. 174, euro 22,00). Centoquaranta pagine per ragionare sul funzionario romano che condannò a morte Gesù verso l’anno 30 della nostra era, sotto il regno di Tiberio. Lo studio storico dei resoconti della passione nei vangeli fronteggia difficoltà gravissime, forse insormontabili. Lo dimostrano le divergenze della ricerca moderna: ogni fase, ogni parola della vicenda è stata discussa, accettata, respinta, riscritta. Una recente sintesi ha avuto bisogno, per fare il punto, di oltre ottocento pagine (The Trial and Crucifixion of Jesus. Texts and Commentary, a cura di D.W. Chapman e E.J. Schnabel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015). Il libro di Schiavone è invece agile: la documentazione è confinata in appendice, insieme alla corposa bibliografia, e i tecnicismi sono poco invadenti. La scrittura, condotta con mano sicura, si apre a sviluppi narrativi. L’indagine non si limita ai problematici dati fattuali, ma si insinua nel non detto dei testi, e soprattutto nelle intenzioni dei protagonisti. Ne consegue, pur con cautele, che il piano di «ciò che avvenne veramente» è spesso superato, a favore di inferenze suggestive e però irrimediabilmente speculative. Osservazioni utili offre l’analisi della prassi amministrativa romana, determinata ove possibile a governare con il consenso delle élites (La Giudea romana e il lavoro del secondo prefetto). Ma il riflesso di questi criteri non si lascia cogliere facilmente nella vicenda di Gesù. La tradizione su Pilato induce a credere che «il prefetto non doveva capire la religiosità giudaica»: lo mostrano gli incidenti seguiti all’introduzione a Gerusalemme di stendardi con l’effigie dell’Augusto (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2.9.2-4) o alla collocazione nel Tempio di scudi dorati in onore di Tiberio (Filone di Alessandria, Ambasceria a Gaio, 38, 299–305).
Giustamente Schiavone indaga che cosa Pilato poteva sapere sulla storia e la cultura della Giudea: è possibile, ma non sicuro, che gli giungesse l’eco della storiografia greca, che andò poi a innervare l’acida digressione di Tacito (Storie, 5. 2-10). Ignote le sue idee: che condividesse il pragmatico scetticismo dell’aristocrazia romana è però ragionevole. Soccorre l’immaginazione, che è virtù dello storico, da usare con prudenza. Posto che «non sappiamo in quale lingua Pilato e Gesù si parlassero», l’ipotesi che il prefetto sapesse l’aramaico (come nel film The Passion) è destinata a restare tale. Le incertezze sullo svolgimento degli eventi nel pretorio di Gerusalemme sono, come è noto, fortissime: per ricostruire e interpretare gli atteggiamenti del prefetto, Schiavone attinge a un piano «psicologico», velando il dettato con frequenti formule attenuative. Nella sezione centrale del libro, dedicata all’interrogatorio (non un «processo») di Gesù, si incontra una sequenza di «è ragionevole supporre», «è probabile», «non vi è ragione per non», «non vi è motivo di dubitare». Essa conduce oltre la soglia del conoscibile, e dello storicamente accertabile. Le riflessioni su Gesù e la sua «certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia», su Pilato, che «è possibile fosse già rimasto colpito dalla predicazione di Gesù», la cui personalità «doveva essergli apparsa, nel confronto diretto, perturbante e inattesa», accompagnano una ricostruzione indiziaria, che approda a toni talora pensosi: il dialogo tra i due «è di una potenza simbolica senza eguali», e getta da secoli una luce «abbagliante in modo quasi insopportabile». Ma dopo aver definito quella scena «storicamente persuasiva», Schiavone aggiunge enigmaticamente: «Che sia anche acceduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante».
Il lettore resta perplesso: si intende che il contenuto di «verità» del soggetto è inafferrabile. Sequenze di possibilistici verbi al futuro scandiscono passaggi importanti: il grido dei sacerdoti davanti alla proclamazione di Gesù come figlio di Dio «avrà sicuramente colpito il governatore», il quale «lo avrà comparato d’istinto al comportamento del prigioniero» e «si sarà chiesto» se Gesù fosse uno dei «cosiddetti uomini divini» così frequenti in Oriente. Che le questioni del giudaismo fossero estranee alla mentalità romana, che Pilato non fosse «in sintonia con la religione ebraica» è credibile, come si è detto; più difficile pensare che egli «subito si era reso conto della diversità di Gesù»: tale è il senso del racconto evangelico, che però ha a che fare con la memoria o con la teologia più che con i fatti. Le sottili esegesi proposte da Schiavone oscillano tra la ricerca storica e la filosofia, se non la teologia. Certo, il racconto dei vangeli non è un «documento», ma un intreccio di memorie orali, profezie «compiute», rielaborazioni successive. Coerentemente, Schiavone non attribuisce valore storico assoluto agli eventi che analizza. E il carattere non confessionale del suo discorso permette qualche provocazione. Così circa la scena dell’Ecce homo: «Non si può credere a una sola parola di questo racconto». Sullo sfondo sta la critica neotestamentaria: il racconto della passione fu curvato dalla tradizione in una forma che aggravava la responsabilità giudaica e alleggeriva quella romana. Schiavone attribuisce assoluta importanza a eventi di cui pure invita a dubitare radicalmente. Si veda la famosa domanda di Pilato sull’essenza della «verità» (Giovanni, 18.38). «Verità» è parola tipicamente giovannea, però si esita a considerare la frase solo una «falsificazione della memoria». A tratti il discorso si fa ispirato: «nella sua disadorna essenzialità, la prosa di Giovanni raggiunge risultati di grande efficacia espressiva. Nulla, se non un corpo ferito e oltraggiato: e in quel corpo, la maestà e l’onnipotenza di Dio, scempiate dai carnefici». Si percepisce un moto alterno, che segue e poi rigetta la logica del testo analizzato: in una domanda di Pilato a Gesù si coglie «un’esplicita risonanza metafisica», propria di un uomo che «non senza apprensione, sta intuendo la presenza dell’ignoto innanzi a lui». Ma Pilato la ha «pronunciata davvero»? Molto spinge a «ritenerlo possibile». Però circa la successiva risposta di Gesù si annota: «è possibile che Gesù non abbia mai pronunciato quelle parole». Il calibratissimo ma sfiancante oscillare dell’argomentazione coinvolge anche la filologia. La domanda di Pilato ai giudei («Crocifiggerò il vostro re?»: Giovanni, 19.15) è forse un’affermazione: «Quel punto interrogativo è probabilmente l’aggiunta di un copista troppo zelante, se non è stata voluta dallo stesso autore del Quarto vangelo». La filologia è destrutturata: giacché se è vera la prima ipotesi, il testo potrebbe essere corretto, ma è strana l’idea di «correggere» Giovanni nel caso della seconda alternativa.
His fretus, l’autore giunge al centro del libro: posto che la condanna di Gesù era «necessaria» al compimento del piano messianico, tra l’accusato che non si difese e il magistrato che non lo voleva mettere a morte si strinse una sorta di «patto» sul quale il vangelo di Giovanni però tace. Anche in questo caso, un’interpretazione più filosofica che storica. Del resto Schiavone ammette «l’impressione di una insuperabile ambiguità» che emana dalla figura di Pilato, «quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia».

Inchiesta su Pilato 

I 2000 anni di solitudine dell’uomo che scelse l’arte laica del dubbio Un saggio di Aldo Schiavone indaga sull’incontro tra il Procuratore e Gesù: l’istante in cui iniziò la modernità

EZIO MAURO Repubblica 16 2 2016
TUTTO il futuro del mondo si concentra nello spazio imperiale del pretorio, a Gerusalemme, tra l’alba e l’ora sesta del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. C’è un uomo legato ai polsi dopo una notte passata davanti al Sinedrio che lo accusa di blasfemia e lo ha mandato a prendere negli orti del Getsemani col buio e i bastoni, come un brigante. Di fronte siede il Procuratore romano della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato. Dietro una tenda, fuori, raccolti nel cortile di pietra del Gabbatà aspettano i sacerdoti del tempio, i 71 sinedriti, i loro servi, molti curiosi, forse qualche seguace silenzioso del galileo incatenato.
Si è detto figlio di Dio, i giudei chiedono che Roma riconosca la bestemmia e pronunci la condanna, che spetta solo a lei. Nella stanza del pretorio, uno scriba raccoglie sulla pergamena l’interrogatorio, domande e risposte che per la prima volta fisseranno i confini del cielo e della terra.
SEGUE ALLE PAGINE 42 E 43

Eche passando oltre la tenda di bocca in bocca finiranno nei quattro Vangeli, negli apocrifi e nelle leggende, fino a risuonare autentiche e misteriose anche oggi, duemila anni dopo.
Il pretorio diventa così il luogo e il momento — dunque il punto della storia — dove il finito e l’infinito s’intersecano pubblicamente trasformando quel processo in un dialogo universale ed eterno, rovesciando anche i ruoli dei due attori del dramma: il nazareno ha condotto tutta la sua vita sapendo che sarebbe arrivato a questo appuntamento, lo ha temuto e insieme lo ha preparato, perché la curva della sua biografia si inserisse
compiutamente nella parabola della profezia. Lui, lacero e scalzo, sa tutto quel che accade, meno il sentimento di paura della morte che comincia ad assalirlo, sconosciuto anche se messo nel conto da sempre. Il Prefetto non sa niente, se non la regola astratta del diritto romano, l’orizzonte della maestà imperiale che deve far rispettare fin quaggiù, a un mare di distanza da Cesare. Uno pronuncia ogni parola sapendo che servirà a compiere il suo destino. L’altro non capirà fino alla fine quale fato misterioso lo ha portato fin qui e perché proprio lui sia diventato artefice di un disegno che non gli appartiene ma di cui porterà il peso perenne.
Questa scena dura da sempre non perché fissa l’istante decisivo dell’antichità ma perché è uno degli atti d’inizio della modernità.
Ponendo dei limiti alla potestà umana e alla pretesa divina, infatti, si esce dall’indefinito dove il potere dispiega se stesso finché la forza glielo consente, o dal buio indistinto della paura degli dei, si ragiona sugli ambiti reciproci e inevitabilmente, subito dopo, sui diritti e i doveri che ne nascono. Proprio qui si muove l’ultimo studio sul processo a Gesù, condotto da Aldo Schiavone che mette al centro di tutto la figura di
Ponzio Pilato (Einaudi). Il prefetto non può sapere che il processo contiene la scintilla dell’universale, quando entra nel pretorio dove lo aspetta l’uomo incatenato. Ha già provato, fuori, a disfarsi del processo prima di cominciare, ma la folla gli ha ricordato che tocca a lui giudicare sulla vita e sulla morte. Ora domanda nel Vangelo di Giovanni: «Sei tu il re dei giudei?». E qui c’è il primo scarto, perché l’imputato non bada a difendersi e nemmeno a rispondere al suo giudice, ma a sorpresa cerca l’uomo: «Tu dici questo da te stesso, o altri te l’hanno detto di me?».
«Sono io forse giudeo? — replica il Procuratore infastidito —.
La tua gente e i sacerdoti ti hanno consegnato a me». È il secondo tentativo di Pilato di proclamare la sua estraneità al caso. Ma il galileo di fronte a lui lo spiazza un’altra volta, introducendo il soprannaturale come testimone al processo: «Il mio regno non è di questo mondo. Se lo fosse i miei servi avrebbero combattuto perché non venissi consegnato ai giudei. Ora il mio regno non è di quaggiù».
Entrano in scena la terra e il cielo, è l’irruzione del sacro, che come nota Schiavone depoliticizza Dio garantendolo disinteressato ad ogni potere temporale: ma insieme — aggiungo — sacralizza il processo, introducendo il canone ultraterreno. Pilato non si allontana, si avvicina, tentando di restare finché può sul nucleo criminale della lesa maestà imperiale: «Dunque, tu sei un re?». «Tu lo dici» risponde Gesù, spostando i piani un’altra volta, come fosse interessato a un confronto più intimo e personale con l’uomo che ha davanti, dimenticando il Procuratore: «Per questo sono nato e venuto nel mondo, per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità sta in ascolto della mia voce ». E qui c’è la risposta più famosa ed eterna di Pilato: «Che cos’è la verità? ». Nel suo Crucifige Gustavo Zagrebelsky scrive che le parole provano il disprezzo di Pilato per qualsiasi cosa quel galileo pretenda di insegnare. Per Giorgio Agamben ( Pilato e Gesù) il Prefetto vuole invece capire qualcosa in più di quel regno che il profeta sta testimoniando. Per Schiavone il Procuratore vuole spezzare la vertigine dell’assoluto che ha rapito il suo prigioniero. Ma c’è un punto: Pilato non cambia argomento, non sposta il tono dell’interrogatorio. Circoscrive l’immensità della questione, tentando di governarla, ma la rilancia, come se domandasse: dove mi porti, cosa stiamo facendo, che storia ho davanti a me, qual è la tua vera dimensione? Quel “qualcosa” che cambia la natura di un caso giudiziario, tenendolo aperto nei secoli, comincia esattamente qui, dove s’inizia il travaglio del Procuratore di Giudea.
Marco parla a questo punto dello spaesamento di Pilato, che «restò meravigliato», dunque intimamente toccato dal “qualcosa”. E Matteo, lui soltanto tra i quattro evangelisti, lo spiega: la moglie del Procuratore, Procla, spinta dall’angoscia gli manda un messo nel pretorio, scongiurandolo: «Nulla ci sia tra te e questo giusto, perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua». Il travaglio diventa turbamento. Per liberarsene Pilato fa ricorso alla politica e alle sue tecniche. Poiché esisteva la tradizione per il Prefetto di liberare un prigioniero nei giorni della festività, gioca quella carta proponendo una scelta che ritiene obbligata per i giudei: o il profeta galileo, inoffensivo, o un brigante di nome Barabba, sedizioso. Ma a sorpresa la folla sceglie Barabba. C’è ancora un tentativo di non decretare la morte del galileo. Pilato decide infatti di farlo flagellare, di cingergli il capo con una corona di spine e di rivestirlo di un manto purpureo, mostrando ai giudei quella caricatura di re, umiliato e deriso, sanguinante e ridotto a puro corpo martoriato: «Ecco l’uomo», dirà infatti alla gente, cercando di muoverla a compassione. La risposta è il “Crucifige”. «Prendetelo e crocifiggetelo voi», riprova a dire il Governatore. Ma qui, i giudei giocano a loro volta la prima carta politica: «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire perché si è fatto figlio di Dio». È la carta teologica estrema, la pretesa della discendenza divina che entra nel tribunale di Cesare, doppia blasfemia, religiosa per gli ebrei, politica per i romani.
Ecco perché Pilato «prova timore sempre più forte». La costrizione politica alla condanna si fa stringente, l’oscura presenza del sacro diventa inquietante. Soltanto Matteo racconta la lavanda delle mani, il Prefetto che chiede dell’acqua, si lava davanti alla folla e invece di proclamare con coraggio l’innocenza del nazareno dichiara per paura la propria innocenza, scaricando l’onere di quanto sta per accadere: «Non sono responsabile del sangue di costui: vedetevela voi». La scena è poco credibile per Schiavone, emblematica per la tradizione popolare. Ma la scissione tra l’obbligo politico e la convinzione privata è ormai evidente per tutti, dichiarata. Tanto che Pilato abbandona il registro giudiziario, torna da Gesù e gli rivela il suo tormento: «Di dove sei tu?». Non è la Galilea la risposta, perché la domanda cerca un’altra geografia, spirituale: qual è il tuo mondo, chi ti manda, di che sostanza sei fatto? Gesù tace, come se lo guardasse avvicinarsi, passo dopo passo. L’unica via che rimane a Pilato è il rifugio nell’autorità smarrita: «Non vuoi parlarmi? Lo sai che ho il potere di mandarti via libero come quello di mandarti sulla croce?». «Su di me non avresti alcun potere se non ti fosse dato dall’alto — replica il nazareno —. Perciò più grande è il peccato di chi mi consegna a te». È quasi un’assoluzione preventiva. Secondo Giovanni, Pilato prova un’ultima volta a liberare il prigioniero, dopo averlo mostrato alla folla: «Ecco il vostro re». La risposta è il “Crucifige”, con una minaccia politica esplicita: «Se lo lasci libero, non sei amico di Cesare». Non resta che la consegna, e la strada del Calvario.
I due uomini che si erano avvicinati fino all’imprevedibile tornano ad allontanarsi, per sempre. Ma per Schiavone quel potere che al Procuratore è «dato dall’alto» non chiama in causa Cesare e la sua delega bensì Dio e il suo disegno. Anche gli atti del Prefetto, dunque, compreso l’ultimo che consegna Gesù alla croce, farebbero parte di un disegno ultraterreno che annullerebbe la libertà di scelta di Pilato e con lui dell’impero padrone del mondo, qui semplice strumento del volere divino. Ma Schiavone sfugge a questa lettura strumentale, perché si convince di un segreto nascosto nelle pagine di Giovanni: la libera scelta del Governatore di assecondare il cammino di Gesù verso ciò che il prigioniero considera inevitabile. È un patto tacito con Gesù, un’accettazione da parte del Prefetto pagano del mistero del sacro, o almeno della potenza dell’ignoto che si trova di fronte. Così Pilato riscatta nella scelta nascosta l’immagine millenaria di ambiguità, la condanna eterna alla codardia.
Quello che tutti chiamano l’enigma Pilato si spiegherebbe dunque col segreto, in una tautologia della storia, come se fosse impossibile sciogliere la figura del Procuratore dalla costrizione di modelli esemplari, la viltà millenaria da un lato, dall’altro l’alleanza nascosta con l’uomo-Dio che vuole morire per riscrivere le storia secondo le Scritture, sapendo che altrimenti non darebbe vita al cristianesimo: perché invecchierebbe invece di risorgere, liberato — secondo l’immagine di Caillois — non dagli angeli del Sepolcro ma dalla sentenza di un Prefetto. La modernità di Pilato sta invece, io credo, proprio nella solitudine della scelta, nell’assunzione del conflitto e nell’accettazione del dubbio, in una sorta quindi di proto-laicità inconsapevole ma testarda che prova a contrastare la forza incombente della pubblica ragion di Stato con la coscienza privata dell’ingiustizia e l’obbligazione della volontà divina con il sentimento umano dell’innocenza. Forse per la prima volta da quando rappresenta Cesare, il Procuratore Pilato e l’uomo Pilato entrano in conflitto, per cinque ore, fino all’ora sesta di quel venerdì pasquale di Nisan, che nelle pagine di Bulgakov il Governatore definisce «un mese terribile», quell’anno. Poi vince la realpolitik. Ma da duemila anni, a partire da quel seggio pretorio, così va il mondo.

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