domenica 17 gennaio 2016

Il terzo Meridiano di Zola

Romanzi vol. 3Zola: Romanzi, a cura di Pierluigi Pellini, traduzioni di Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli, Mondadori, «I Meridiani», pp. 1920, euro 80,00

Risvolto

L'opera di Zola è sterminata; la nuova edizione dei Meridiani - diretta e curata da Pierluigi Pellini, comparatista e francesista dell'università di Siena - ne propone i romanzi più significativi, quasi tutti appartenenti alla serie dei Rougon-Macquart. Primo carattere distintivo dell'edizione è la qualità delle traduzioni, quasi tutte nuove e condotte - con criteri condivisi - da traduttori di prestigio. Un secondo elemento di novità è dato dall'utilizzo, negli apparati, dei materiali manoscritti da poco tempo integralmente disponibili in francese e mai tradotti in Italia. In questo volume: "Germinal" (1885) il capolavoro della maturità, mette in scena il drammatico mondo dei minatori di carbone e i primi fermenti socialisti; "La terra" (1887) in cui mostra crudamente i vizi e la bassezza morale di un mondo contadino troppo spesso visto con romanticismo; "La bestia umana" (1890) la vita del protagonista è travolta da una tara ereditaria che lo spinge compulsivamente al femminicidio, in una narrazione che sfiora toni da noir. 

Zola, lamento delle tenebre 
Classici francesi. «Germinal», «La terra» e «La bestia umana», rappresentazioni crude e sinistre di una esistenza dove regna la fatica e non è prevista redenzione: il terzo «Meridiano» a cura di Pierluigi Pellini 
Luca Pietromarchi Manifesto 17.1.2016, 6:00 
Con la pubblicazione del terzo volume dei Romanzi di Zola nella collana dei Meridiani giunge a compimento l’ambizioso progetto editoriale di offrire nove dei più significativi intrecci del naturalista francese in nuova traduzione. L’impresa, affidata a Pierluigi Pellini, è stata iniziata nel 2010 con il volume dedicato a Thérèse Raquin, L’Assommoir e Nana, seguito nel 2012 da Pot-Bouille, Au Bonheur des Dames e La Joie de vivre. Il terzo tomo contiene tre delle massime cime del ciclo dei Rougon-Macquart, il grande massiccio centrale della storia del romanzo europeo ottocentesco: Germinal, La Terra e La Bestia umana, nelle rispettive traduzioni, tutte ammirevoli, di Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli (Mondadori, «I Meridiani», pp. 1920, euro 80,00). Questo insieme costituisce un vanto dell’editoria italiana ed è merito delle introduzioni del curatore, veri e propri saggi appassionati quanto informati, nonché del vasto e mai superfluo apparato di annotazioni che riassumono un secolo e mezzo di critica, aver dato la possibilità di una nuova lettura di quelli che rimangono, comunque, tra i romanzi più conosciuti della letteratura moderna.
Germinal anzitutto. Come la polvere di carbone che ricopre i corpi esausti dei minatori nei cunicoli sotterranei di Montsou, uno strato altrettanto spesso di interpretazioni critiche si è sedimentato sulle pagine di questo immenso romanzo. Realismo, naturalismo, indagine sociologica, documento politico, racconto mitico o visionario, romanzo di formazione sentimentale e sindacale: sin dalla sua pubblicazione nel 1885, la critica ha tentato tutte le vie per scalare questa montagna di carta nera d’inchiostro e di carbone. Per piantare sulla sua cima il cartiglio che doveva riassumere la funzione essenziale della letteratura: indignare, commuovere, convincere, rivoluzionare, seminare speranza o gettare rassegnazione.
Sono vessilli che il vento della storia ha moltiplicato e stracciato allo stesso tempo. La tensione patriottica che attraversa l’opera di Zola si spegnerà nelle trincee di Verdun, Freud metterà fuori gioco la fisiognomica di Lombroso, il sole dell’avvenire socialista che sorge nelle ultime pagine di Germinal è tramontato negli ultimi decenni del secolo scorso. L’anonimo capitalismo contro cui si scatena la furia dei minatori ha proseguito, come la locomotiva della Bestia umana, la sua corsa devastante e trionfante; del loro sciopero omerico la storia ha fatto un vuoto rituale, e l’indignazione si è raffreddata in indifferenza. Dell’odio sociale che incendiava lo sguardo di Lantier non rimane che sordo rancore personale: buono tutt’al più ad assassinare la propria moglie, e non, come nel romanzo, a castrare il padrone. In fin dei conti, nessuna delle promesse ideologiche di cui l’opera di Zola sembrava essere portatrice è stata mantenuta. 
E tantomeno risulta rispettata la funzione che lo scrittore assegnava al romanzo, radicalizzando l’ambizione che già era stata di Balzac: spiegare l’occulta dinamica che governa il destino di ciascuno ricorrendo alle teorie ottocentesche della genetica o della fisiognomica. Quella vena rossa, rosso sangue e non politico, che doveva collegare natura e destino in base alle leggi dell’ereditarietà, è un filo che si è rivelato senza resistenza. Il padre non spiega il figlio, le tare familiari sono come dadi lanciati in aria: quasi mai la Bestia lascia indovinare la sua presenza attraverso le apparenze esteriori, che siano i tratti del volto, la forma del cranio o l’indole personale. 
La Bestia. Prima ancora che Zola la nomini nel titolo del suo romanzo ferroviario per designare la locomotiva che devasta i paesaggi che attraversa e i destini che la incrociano, essa è l’espressione metaforica della cieca, immensa e violenta forza che attraversa tutto il ciclo dei Rougon-Macquart, animando le masse come gli individui, declinando la passione politica in pulsione erotica e assassina, coniugando Eros e Thanatos in una rappresentazione della vita pubblica e privata che ha l’afflato di un moderno racconto mitologico ed epico. La Bestia sta al cuore dei romanzi di Zola, e in particolare di questi tre, come il Minotauro è accucciato al centro del Labirinto. 
In Germinal, il Labirinto sarà il villaggio operaio di Montsou che ruota attorno al Voreux, la miniera, vorace già nell’etimo, nelle cui viscere inghiotte e divora una dopo l’altra generazioni di minatori, e che alla fine si allaga come una sorta di Stige furioso, consegnando le sue vittime all’implacabile Capitale, che placido attende in superficie. 
Già i primissimi lettori di Zola, primo fra tutti Jules Lemaître, avevano riconosciuto in questi romanzi un afflato epico, e in Zola il primo creatore di moderni miti. La critica zoliana, tra le più fertili del secondo Novecento – si ricordino i grandi saggi di Henri Mitterand, Michel Serres, Philippe Hamon – ha molto insistito su questo aspetto, senza evitare sempre il rischio di sottrarre la rappresentazione della Bestia alla sua crudità, facendone una forza metastorica che investe l’Umanità prima che il proletariato, la Folla, intesa come moderno soggetto epico, più che il popolo.
La notte nera che, in apertura di Germinal, avvolge il protagonista che muove i primi passi verso il suo destino facendo risuonare la cadenza di un verso alessandrino, risulta, in questa prospettiva, la grande e nera tela di fondo su cui la lotta tra capitale e lavoro si staglierà come una tragedia greca – «lamento delle Tenebre» dirà Huysmans – prima ancora che come terribile dramma sociale. 
Ora, è questa tela che, nelle sue tre ampie, rigorose e allo stesso tempo vibranti Introduzioni, Pierluigi Pellini invita a sollevare. Per scorgere dietro di essa lo sguardo feroce della Bestia e riconoscere in ognuno di questi romanzi anzitutto «il romanzo della Bestia che abita nell’inconscio sociale e nell’inconscio individuale di un’umanità refrattaria a ogni idealizzazione». Per non dire a ogni forma di redenzione, secondo la lezione di Schopenhauer. È la Bestia che, nutrendosi della sua fatica, logora il sangue del lavoratore, ne acceca la coscienza, procurando, nel corpo sociale, come in quello degli individui, le più inaudite violenze, le ferite più sanguinose, gli stupri più efferati. In Zola la miseria non è una piaga della società, è anzitutto piaga del corpo, tumefazione della pelle, ferita subita e inferta. E quindi esibita in tutta la sua umana nudità e disumana violenza affinché risulti in controluce, ma immensa e imperdonabile, la pressione alienante del lavoro cui è sottoposto il minatore, il contadino, il macchinista. 
Questa lettura giustifica la selezione del Meridiano di recente uscita, che presenta, dopo Germinal, due dei più violenti, neri, addirittura truculenti romanzi dei Rougon. La Terra è il romanzo del mondo rurale, come La Bestia umana è dedicato a quello delle ferrovie. Sono entrambi dominati dalla figura dello squarcio: anzitutto di quel velo idillico che il romanzo ottocentesco aveva steso sul mondo contadino, nonché di quello tessuto dal mito del progresso che rivestiva il ferro della locomotiva per farne un destriero lanciato verso un radioso futuro. Ma di future prosperità, agricole o industriali, non vi è qui traccia. Di nuovo, solo tracce di ferite e stupri arrecati da contadini piegati alla – piagati dalla – feroce religione del possesso della terra, che è «erinni e non alma mater», da cui ogni contadino è posseduto, come in Verga, primissimo lettore di Zola. Tra i ferrovieri, ferite e delitti sono il frutto dell’abbrutimento dovuto a turni di lavoro massacranti per servire una macchina che si nutre, Minotauro meccanico, di fatica umana, bruciandola come carbone. E lasciando dietro di sé nella notte due fanalini rossi come tizzoni, gli occhi della Bestia. 
Né di destra né di sinistra, l’opera di Zola si rivela in questi romanzi anzitutto sinistra: «la sinistra rappresentazione, scrive Pellini, di un’esistenza disumana». Disattese le promesse rivoluzionarie che gli erano state attribuite, quest’opera che non spiega, che non redime, in cui la fatica rende il bene e il male indistinguibili, dove tutti sono colpevoli, vale per quello che mostra, ciò che la letteratura come la buona coscienza dinanzi a ogni scena di miseria preferisce ignorare: il fondo nero della miseria umana, dove la devianza è norma e la sopraffazione regola. E vale per quel che non dice, ma che essa suscita: pietà, orrore e compassione. Come dirà Zola di Germinal, ma può valere per tutto questo grande Meridiano: «opera di pietà, non di rivoluzione».

Germinal, l’opera nera. E no
di Pietro Citati Corriere 21.1.16
Émile Zola è lo scrittore più popolare della Francia: alla fine del Ventesimo secolo, le collezioni di tascabili hanno venduto venticinque milioni di copie dei suoi romanzi. Nel nostro Paese, invece, Zola è poco letto e poco amato; ed è dunque molto proficua la recente edizione dei Meridiani, che pubblica nove romanzi in tre volumi. Da poco sono usciti Germinal , La terra , La bestia umana , curati in modo eccellente da Pierluigi Pellini e tradotti da Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli. Zola cominciò a scrivere Germinal , il più famoso e forse il più bello dei suoi romanzi, nell’aprile 1884, dopo aver studiato la questione mineraria, e dopo un viaggio a Valenciennes, il principale modello di Montsou, dove si concentrano le vicende del libro. Un anno più tardi lo pubblicò in quarantamila esemplari: una tiratura alta anche oggi.
In primo luogo, Germinal è un libro nero. La pianura nuda è dominata da una notte senza stelle, illuminata dai rari fuochi azzurri degli altiforni e da quelli rossi dei forni a coke: essa è spazzata da una tramontana gelida con grandi soffi che si succedono regolari come colpi di falce; oppure bagnata dalla pioggia che scende lenta, cancellando ogni cosa in fondo al suo monotono picchiettio. La notte seppellisce la terra come un sudario. Si moltiplica nel cuore della miniera, ispessita dalla polvere di carbone sospesa nell’aria, e appesantita dai gas che gravano sugli occhi dei minatori. Sentiamo un rumore sordo, che sembra provenire dalle viscere della terra, e che nasce dallo sfiatatoio della grande pompa: un respiro lungo, greve, incessante, simile all’ansimare strozzato del mondo. Tutto, la notte, la miniera, il respiro dello sfiatatoio, è tenebra; e questa tenebra non è un’assenza di colore, ma, come diceva Huysmans, il colore supremo, la molteplicità di tutti i colori, che occupa in modo stabile la mente di Zola.
La miniera è accucciata in fondo a un avvallamento: con edifici tozzi di mattoni e una ciminiera alta trenta metri, ritta come un cono minaccioso. Il suo aspetto è malvagio: sembra una bestia ingorda, un mostro accoccolato per divorare la gente. Zola si sforza di descriverla: insiste, ripete, insiste ancora, fallisce; finché, secondo la profonda inclinazione della sua natura, parla, con una specie di religioso tremore, di un «tabernacolo», in cui si nasconde, accucciato e satollo, il dio al quale tutti i minatori e tutti gli uomini offrono la propria carne.
Questo dio è inanimato: è una cosa nella sua essenza profonda: ma subito diventa animalesco; il pozzo inghiotte gli uomini a bocconi di venti o trenta per volta, e li manda giù per la gola, come se non li sentisse nemmeno passare. Ciò che è animalesco diventa umano: i cavalli, che stanno chiusi in fondo alla miniera e non risalgono mai alla luce, rivedono con la mente il mulino dove sono nati, continuamente battuto dal vento, e fanno inutili sforzi per ricordare l’infanzia. Intanto la pompa della miniera continua a soffiare con lo stesso respiro lungo e greve: il respiro di un orco umano che nulla può saziare.
Passando dal simbolo alla realtà, Zola descrive gli uomini che affollano la pianura di Montsou. Essi non sono, in realtà, uomini, ma insetti o spettri. In fondo alla miniera, si agitano forme fantomatiche, lasciando intravedere un’anca, un braccio nodoso, una faccia rabbiosa, imbrattata di polvere di carbone come per commettere meglio un delitto. Essi sudano: ansimano: le giunture dei corpi scricchiolano, ma senza un lamento, con l’indifferenza dell’abitudine, come se vivere così piegati fosse il destino comune di tutti gli uomini. Si spogliano: scavano la roccia: si intridono di fanghiglia nera fino al capo; come talpe in fondo a una tana, sotto il peso della terra, senza più fiato nei corpi arroventati.
Quando la Compagnia mineraria aggrava le loro condizioni di vita, i minatori entrano in sciopero. I borghesi trovano divertente lo sciopero: ma, in fondo alla loro allegria forzata, c’è una sorda paura, tradita da occhiate involontarie. Sul piazzale della miniera grava un pesante silenzio: quella di Montsou è una fabbrica morta: i grandi cantieri sono vuoti; nel cielo di dicembre, tre o quattro vagoni abbandonati hanno la muta tristezza delle cose dimenticate. In questo momento, alla tradizionale disciplina dei minatori si aggiunge un orgoglio da soldati: gente fiera del proprio mestiere, che dalla lotta quotidiana contro la morte ha appreso l’esaltazione del sacrificio.
Tra i minatori di Montsou, giungono estranei. Étienne Lantier, che viene dalla città, appare in altri volumi dei Rougon-Macquart , il grande ciclo di Zola. Egli non tollera i doni della Compagnia: detesta i borghesi: non vuole farsi ridurre come una bestia accecata e schiacciata; ma immagina una rigenerazione universale di popoli senza una goccia di sangue. Suvarin è un anarchico, che viene da Pietroburgo. «Piantatela — grida — con la vostra evoluzione! Appiccate il fuoco ai quattro angoli della terra, sterminate i popoli, radete al suolo tutto quanto. Quando non resterà più niente di questo mondo, allora forse ne nascerà uno migliore. Lo volete capire? Bisogna distruggere tutto. Sì, l’anarchia. Più niente. La terra lavata dal sangue, purificata dall’incendio...!».
Lo sciopero si estende e diventa violento. Quando i minatori arrivano al pozzo di Gaston-Marie, duemilacinquecento forsennati spaccano e spazzano via tutto, con la forza impetuosa di un torrente in piena. Ribaltano i fornelli, svuotano le caldaie, devastano gli edifici. Si gettano sopra la pompa, come se fosse una persona a cui vogliono togliere la vita: la massacrano a colpi di mattoni e sbarre di ferro. Allora l’acqua comincia a sgorgare. Quando esce completamente, un ultimo gorgoglio sembra il singulto di un agonizzante. Lo sciopero dura due mesi. La rabbia, la fame, le scorribande trasformano i placidi volti dei minatori di Montsou in fauci di bestie feroci. I raggi del sole al tramonto insanguinano la pianura. Il nero del libro diventa rosso, scarlatto, accrescendo la propria violenza tenebrosa. I minatori si chiudono in casa, in preda alla fame e alla ostinazione passiva. La loro forza cieca divora sé stessa.
Intanto Suvarin è sempre più assorbito in un’idea fissa, che sembra brillare come un chiodo d’acciaio in fondo ai suoi occhi chiari. Egli sabota la miniera. Poi si allontana senza guardarsi alle spalle nella notte tenebrosa: con la sua aria tranquilla, va verso lo sterminio, dovunque ci sia dinamite per far saltare uomini e città.
Sottoterra, scorre il Torrente, un mare inesplicato, con le sue tempeste e i suoi naufragi, che agita i propri flutti neri a trecento metri dalla luce del sole. La miniera si riempie d’acqua. La grande pompa ansimante non riesce a smaltirla. Il rivestimento del pozzo si stacca. In alto si sente una serie di sorde detonazioni: tavole di legno si fendono e si schiantano in mezzo al continuo e crescente frastuono del diluvio. Si sentono bruschi rimbombi: rumori irregolari di cadute profonde, seguiti da lunghi silenzi. La ferita della miniera si allarga: la frana, cominciata in basso, si avvicina alla superficie. Una prima scossa fa tremare il terreno, seguita da una seconda. Da quel momento il suolo non smette di tremare: un susseguirsi di scosse, cedimenti sotterranei, boati di vulcani, e infine un’ultima convulsione. L’alta ciminiera crolla in blocco, bevuta dalla terra come un cero colossale. Tutta la miniera sprofonda in un lago d’acqua melmosa: mentre i cavalli, chiusi nelle stalle sotterranee, impazziscono con nitriti furibondi.
Nel pozzo rimane Étienne, insieme a una ragazza, Catherine Maheu, che egli ama di un amore contrastato. La lampada si spezza. Sopra di loro, scende la notte assoluta. Entrambi accusano ronzii alle orecchie: sentono i rintocchi furiosi di una campana a martello, il galoppo interminabile di una mandria sotto un rovescio di grandine. Étienne avvinghia Catherine e la possiede: «Quella fu finalmente la loro notte di nozze, in fondo a quella tomba, su quel letto di melma, per l’ostinato bisogno di vivere un’ultima volta». Catherine muore. Étienne viene salvato e portato in alto, alla luce del sole. Come i grandi romanzi romantici, Germinal conosce il proprio senso ultimo nella fusione di Eros e Thanatos, amore e morte.
Il titolo del bellissimo libro indica il settimo mese, Germinal, nel calendario della rivoluzione francese: dal marzo all’aprile. Al tempo stesso, annuncia il ritorno e la vittoria della primavera: la nascita, la vita, la germinazione. Tutte le cose germinano: anche ciò che è morto, o non è mai esistito: persino Catherine annegata in fondo al pozzo; eppure esse sono nere, come l’eterna notte senza stelle che apre il romanzo. I libri di Zola sono sempre così: realistici e onirici, razionali e mistici, riuniscono disperatamente e trionfalmente gli estremi dell’universo.  

Perché oggi è necessario l’affaire Zola 
VALERIO MAGRELLI Repubblica 26 2 2016
Esce il terzo volume dei Meridiani con i romanzi dello scrittore francese precursore del new journalism


L’irresistibile trionfo di Pier Paolo Pasolini da un lato, l’attenzione accordata alle testimonianze letterarie e civili di Salman Rushdie o di Roberto Saviano dall’altro, mostrano quanto la nostra epoca sia sensibile all’interferenza tra autore e opera. Ebbene, in tal senso nessuno andrebbe accolto con più favore di Émile Zola, di cui i Meridiani Mondadori pubblicano il terzo volume dei “Romanzi” nell’esemplare cura di Pierluigi Pellini (pagg. 1900, euro 80). Secondo l’etimologia del termine “martire” (dal latino “martyr”,
ossia, appunto, “testimone”), il narratore francese rappresenta infatti il modello di un intellettuale che paga di persona per i propri ideali, dato che, come sembra, la sua morte avvenne per aver difeso Alfred Dreyfus nell’articolo del 1898 intitolato J’accuse. Il celebre editoriale scagionava l’ufficiale francese di origini ebraiche, ingiustamente accusato di spionaggio a favore della Germania da parte degli alti gradi del suo stesso esercito. Oltre ai nomi già fatti, altri sarebbero qui da evocare: si vedano le ipotesi di omicidio, entrambe a carico dei servizi segreti sovietici, relative a Majakovskij o Camus. Tuttavia, l’uccisione di Zola per soffocamento causato dalla canna fumaria fu quasi per certo opera di uno spazzacamino affiliato a quella Lega dei Patrioti ferocemente antisemita e contraria all’assoluzione di Dreyfus. A chiunque ignorasse l’opera di questo romanziere, bisogna dunque anzitutto ricordare che egli fu uno tra i massimi esempi di magistero etico che l’Occidente conobbe da Socrate in poi. Ciò detto, rimane da capire perché mai un lettore italiano dovrebbe dedicarsi ai suoi romanzi. Chiarita la grandezza morale dello scrittore, occorre domandarsi che cosa resti oggi della sua produzione.
Ebbene, il piano dei Meridiani risponde a tale domanda con nove traduzioni complessive, ben sette delle quali realizzate appositamente. La qualità della scrittura, quindi, costituisce il punto di forza del progetto. Ma osserviamo più da vicino il libro in questione, nelle egregie versioni di Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli, con un’introduzione, ricca, avvincente, accurata quanto le ben 450 pagine di note. In questa terza e ultima uscita, i tre romanzi presentati sono Germinal, poi La terra e La bestia umana. Sia il secondo, sia il terzo titolo svelano il vero, atroce volto di una realtà solo apparentemente idillica. Così, mentre quel vasto affresco che è La terra mostra tutta la miseria celata dietro l’incanto del paesaggio rurale, La bestia umana, con la potente metamorfosi della locomotiva in animale leggendario, compone una cupa denuncia del lavoro ferroviario - a riprova di come la nuova tecnologia riproduca le stesse forme di sopraffazione caratteristiche dell’antico universo contadino.
Ma fra i tre testi, è il primo ad imporsi come il più riuscito. Incontrastato bestseller dell’ampio ciclo costituito tra il 1871 e il 1893 dai Rougon- Macquart (venti romanzi su un’unica famiglia), Germinal è Zola, anzi, secondo Pellini, «Zola è Germinal.
Lo sapevano i minatori di Denain, in delegazione ai funerali dello scrittore: in tenuta da lavoro, nell’immenso corteo che si snodava per le vie di Parigi avvicinandosi al cimitero di Montmartre, il 5 ottobre 1902, scandivano il titolo del libro che per primo aveva dato dignità letteraria alla loro inumana fatica, voce universale alle loro sacrosante rivendicazioni, credito poetico, e profetico, al futuro germinare di una società più giusta».
La vicenda si svolge nella Francia settentrionale, e narra la spaventosa vita dei minatori durante la seconda rivoluzione industriale, analizzando l’organizzazione politica della classe operaia. D’altronde, come spiegava Zola, «il romanzo è la rivolta dei salariati, una spallata alla società, che per un istante scricchiola: insomma, la lotta fra capitale e lavoro. Per questo il libro è importante». Da qui la potente, cruda matericità di tanti capitoli, che trovano il loro apice nel crollo del pozzo, mostruoso Minotauro (oppure Vampiro) alimentato dalla carne delle sue vittime.
Fra le sequenze più efferate, quella che vede uno sciopero sindacale trasformarsi in rivolta, dove una donna si accanisce sul cadavere dell’avido droghiere Mairat, noto per essere un molestatore, fino a castrarlo: «Alla fine riuscì a strappar via il brandello, un mucchietto di carne villosa e sanguinante, che agitò con una risata di trionfo: L’ho preso! L’ho preso! L’orrendo trofeo fu salutato dalle imprecazioni di tante voci stridule ».
Il passo mette in evidenza il doppio registro, realista e visionario, di Zola, capace di fondere lo sguardo proprio del Naturalismo con l’invenzione di matrice simbolista. L’atroce scempio si tramuta infatti in scena dionisiaca, le mogli dei minatori si fanno menadi, il discorso di classe si proietta sullo scenario del Mito in una «stupefacente consustanziazione di linguaggio tecnico e scarto metaforico, precisione referenziale e libertà figurale» (Pellini).
C’è però un ultimo elemento da notare. Malgrado l’impegno civile, il romanziere dovrebbe ormai apparirci piuttosto estraneo e lontano: il suo paleo-marxismo, il feroce attaccamento alla terra (suo padre, veneziano, si chiamava Zolla…), la contrapposizione fra borghesia e proletariato sembrerebbero agli antipodi rispetto alla nostra era telematica e “liquida”. Invece c’è un’intuizione a renderlo sorprendentemente moderno: l’anonimato del Capitale.
La forza di Germinal, infatti, risiede anche nell’immagine di un potere economico del tutto privo di connotati umani. Attraverso la metafora religiosa del nume sconosciuto e malefico, «accucciato nel suo tabernacolo », l’autore mette in scena una Finanza ormai disincarnata. Non per nulla, egli voleva sopprimere la descrizione degli azionisti (leggi “padroni”), per fare di loro «una specie di Dio che vive nell’ombra mangiando gli operai». Che c’entra tutto ciò con la cronaca odierna? Sostituite la parola “azionisti” con “banchieri”, cambiate il termine “operai” con “correntisti”, e il gioco è fatto.

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