La fiaccola dei philosophes Jonathan Israel.
domenica 24 gennaio 2016
Le origini illuministiche della Rivoluzione francese: tradotto il controverso libro "talmoniano" di Jonathan Israel
Jonathan Israel: La Rivoluzione francese Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00
Risvolto
Per molto tempo gli storici hanno dato per
scontato ciò che era evidente ai testimoni dell'epoca: che la
rivoluzione francese fu causata dalle idee radicali dell'Illuminismo.
Negli ultimi decenni gli studiosi hanno invece cominciato a sostenere
che la rivoluzione venne portata avanti dalle forze sociali, dalla
politica, dall'economia o dalla cultura; da quasi tutto insomma,
escludendo però i concetti astratti di libertà e uguaglianza. In questo
libro, uno dei maggiori storici dell'età dell'Illuminismo restituisce
alla storia intellettuale della Rivoluzione la sua legittima centralità.
Attingendo copiosamente a fonti di prima mano, Jonathan Israel
ricostruisce il gigantesco dibattito intellettuale che produsse e
accompagnò le varie fasi della Rivoluzione francese, dimostrando come
tali idee divisero i capi rivoluzionari in blocchi ideologici
violentemente opposti, e come questi conflitti sfociarono infine nel
terrore. Nella rivoluzione culminarono gli ideali di emancipazione e di
democrazia dell'Illuminismo, se si concluse diversamente è solo perché
tali idee vennero tradite.
La fiaccola dei philosophes Jonathan Israel.
«La
Rivoluzione Francese» avrebbe origine nei ragionamenti dei più radicali
fra gli Illuministi: In un Saggio Einaudi Jonathan Israel istituisce
una corrispondenza precisa, Anzi meccanica, tra riferimenti
intellettuali e scelte politiche
di Francesco Benigno il manifesto Alis 24.1.16
Dopo
aver dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan
Israel, notissimo professore di storia moderna a Princeton, irrompe ora
con un libro, La Rivoluzione francese Una storia intellettuale dai
Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e
Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che promette di épater les
historiens. Malgrado un paio di secoli di investigazioni, infatti, gli
storici non avrebbero capito nulla della Rivoluzione francese, o almeno,
della sua natura profonda. Le origini del più grandioso terremoto
politico dell’età moderna sono state variamente attribuite: vuoi a una
crescita economica dirompente, capace di travolgere un sistema politico
fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi congiunturale, un micidiale
cocktail di finanza statale dissestata e di carestia; allo stesso modo,
il tormentato ma resiliente percorso della Rivoluzione è stato spiegato
facendo riferimento al radicalismo ideologico giacobino, oppure,
alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento inesorabile
indotto dalla «forza delle cose».
Dopo due secoli e passa
d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal, si è ora
diffusa – scrive Israel – una certa stanchezza e la tendenza a
propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali,
sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la
rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una
sezione della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo
radicale. Torna tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo
storico inglese in un precedente e assai discusso volume, Una
rivoluzione della mente (Einaudi, 2011). Negli ultimi venti anni Israel,
già autore di importanti studi sull’ebraismo europeo – Gli ebrei
d’Europa nell’età moderna (Il Mulino 1991) e sull’Olanda – The Dutch
Republic (Clarendon Press 1995), si è dedicato a tratteggiare una
tradizione di pensiero democratico e critico che fa risalire a Baruch
Spinoza. In una serie di poderosi saggi è venuto delineando, così,
l’evoluzione secolare delle idee dell’Illuminismo radicale come
fondatrici della tolleranza, del laicismo e della democrazia. Proprio
queste idee diventano ora la causa causans della Rivoluzione, che dunque
non sarebbe tanto – come era parso a molti contemporanei prima ancora
che a molti storici – un inatteso e sconvolgente evento, capace di
evocare la tempestosa forza della natura (il fortunale, il cataclisma) e
di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien régime al punto da
renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un copione già
scritto, o almeno di un canovaccio per una recita a soggetto. Le idee,
insomma, precedono e rischiarano la strada agli avvenimenti, che, come
la salmeria, seguono.
Da Daniel Mornet in poi la storiografia ha
lungamente dibattuto il tema delle origini intellettuali della
rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier, quello delle
sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione,
ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali e
sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è stato
anzi chi – tra loro Robert Darnton – ha provato a legare direttamente la
diffusione della stampa clandestina, satirica e iconoclasta, alla crisi
dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se non, con tutt’altri
intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato tanto
strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la
centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della
monarchia dei Borbone.
Ma – e sta qui la principale innovazione
proposta da Israel – queste idee, non sono, come tante volte si è
affermato genericamente, quelle dell’Illuminismo: sono invece i
ragionamenti di una sua specifica sezione, quella radicale,
corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach e di Helvétius:
idee perciò democratico-repubblicane, materialiste e atee, le sole
capaci di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia
politicamente, sia sul piano filosofico e logico.
Per rendere
credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di
intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di
orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero
azzardata e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata,
priva di sostegni documentari.
Piuttosto che immaginare la
rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di trasformare gli
individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha bisogno di
sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo fossero in
qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano esattamente con
chi si era dotato di «buone» letture. Israel sostiene infatti che la
rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione e
dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo
radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli
idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a
Montesquieu, nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero
monarchico-costituzionale e liberale, mentre da quelle di Mably e di
Rousseau originerà il populismo autoritario dei giacobini e in primo
luogo di Robespierre.
C’è dunque una corrispondenza precisa e anzi
meccanica tra riferimenti intellettuali e scelte politiche, una
coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di privilegiare il
gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri
democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre
a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da
letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano
che la trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.
Liquidata
la stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che
emerge all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento
della Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è
l’unica rivoluzione che possiamo ancora rivendicare – insinua Israel
ammiccando al lettore contemporaneo – quella dei veri philosophes, e con
loro dei diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli
ebrei, della rivendicazione della cittadinanza femminile e
dell’abolizione della schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione
sanguinaria inaugurata coi massacri del successivo settembre e sfociata
poi nel Terrore. La prima è l’opera esclusiva di una pattuglia di
filosofi e politici idealisti, chiamati brissotins o girondini,
sostenitori del cosmopolitismo e dell’uso della ragione in politica,
laddove la seconda è il prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e
demagogica di cui sono responsabili i giacobini, adoratori della volonté
générale.
Lo scenario storico che ne discende, malgrado l’enorme
mole di fonti mobilitate in quasi mille pagine di testo, suona
artificiale, senza sfumature, una sorta di rassicurante film western
d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male
dall’altra.
Israel non sembra preoccuparsi troppo dei rischi di
anacronismo interni a una simile contrapposizione e anzi arriva al punto
di affermare che il populismo autoritario di Robespierre prefigurerebbe
«il moderno fascismo». Ora, mettere sulle spalle dell’avvocato di
Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe, anche il gravoso
fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo reale»,
sembra già – all’altezza di questo nostro 2016 – inappropriato; ma
aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.
C’è poi
un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare,
ed è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese,
prima repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo
capito ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la
fiaccola della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza e
della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione,
la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una
sorta di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la
forza della democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect.
Dunque, non solo approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare
il paese in una guerra sanguinosa e interminabile – portatrice di
infiniti lutti e, in ultima analisi, della trasformazione della prima
repubblica in una dittatura militare e poi in una monarchia imperiale –
ma accredita la spedizione del generale Bonaparte in Egitto come
finalizzata a convertire gli egiziani e le popolazioni arabe confinanti
agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda bonapartista diviene così
canone interpretativo.
Ora, come si sa, il risveglio
nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del XIX secolo
non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche
dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del
vecchio continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in
Spagna) avrebbe dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i
teorici militari settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da
allora si sarebbe chiamata guerriglia. Meno noto è il fatto che la
presenza di truppe straniere produsse effetti simili anche in Egitto.
Israel, sulla scia di Napoleone, non nasconde la sua delusione per la
scarsa penetrazione in Medio Oriente degli ideali democratico-radicali e
per la contrarietà di quelle popolazioni a farsi «illuminare»; e
sorvola sul fatto che anche in Egitto i francesi si trovarono a mal
partito nel fronteggiare una tenace guerriglia, ispirata dalla «jihad»
ordinata dal Califfato e rilanciata dagli ulema.
Già il giorno
successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di Alessandria
Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo l’inizio: la
resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali – rafforzati da
combattenti giunti dall’Arabia – lo condusse in ottobre a ordinare di
bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della
sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di
Brecht: «Su chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».
La Rivoluzione francese? L’hanno fatta i Lumi
Dai diritti dell’uomo al Terrore, una storia “intellettuale” che riporta in primo piano il ruolo di filosofi e ideologi
Massimiliano Panarari Tuttolibri 6 2 2016
Ci sono questioni che infiammano gli studiosi. Una di queste, ça va sans dire, riguarda la genesi e le «cause scatenanti» della Rivoluzione del 1789, il dibattito intorno alle quali è stato rilanciato da un monumentale volume ora pubblicato anche in Italia.
La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre
di Jonathan Israel ha fatto esplodere in vari ambienti intellettuali una discussione furibonda e accesissima. Lo storico dell’Institute for Advanced Studies di Princeton propone infatti quello che, per molti versi, rappresenta un cambio di paradigma interpretativo, con l’obiettivo di rimettere al centro, in materia, la storia intellettuale e delle idee rispetto alla lunga egemonia di quella sociale. Una via alternativa (quarta assai più che terza…) tanto rispetto al nutrito filone marxista del passato che al revisionismo neoliberale di François Furet, e che configura una linea storiografica per la quale gli eventi rivoluzionari discesero in linea retta dall’Illuminismo. E, così facendo, in buona sostanza Israel individua nell’eredità dei Lumi il cuore autentico (e il «nocciolo duro») dell’identità culturale dell’Occidente, quel complesso di valori da mesi sotto attacco ferocissimo, stretto nella morsa a tenaglia di un rifiuto che viene dall’interno dei confini della nazione che l’ha partorito (il populismo del Front national) e di un mostruoso rigetto omicida che arriva dall’esterno, targato Isis e islamismo armato.
Analizzando nel dettaglio (attraverso nuovi documenti e la disamina approfondita degli Archives parlamentaires), e per centinaia di pagine, la battaglia culturale tra le fazioni e le «correnti» della Rivoluzione, Israel individua una filiazione diretta del suo lascito a partire dalle elaborazioni del «partito» degli illuministi radicali (tesi che caratterizza fortemente il suo lavoro da vari anni a questa parte). Un’avanguardia autentica, secondo lo studioso (che colloca nelle élites il motore fondamentale dei fatti rivoluzionari da cui venne scalzato l’Antico regime), coincidente con la componente del «parti des philosophes» (assai più che con l’ampia pattuglia di avvocati che finì per detenere la leadership politica, ma non culturale) accomunata sotto il profilo ideologico dal repubblicanesimo, da un anticlericalismo inflessibile (fondato quasi sempre sull’adesione al materialismo), dalla fiducia nell’empirismo e nella scienza e dalla strenua opposizione alla ripartizione dell’Assemblea nazionale secondo i tre ordini o «stati».
Un’ala giustappunto radicaleggiante dell’Illuminismo nella quale si riconosceva un gruppo variegato di personalità che andava dal «caposcuola» marchese di Condorcet (teorico della valenza democratica dei sistemi elettorali, nonché alfiere dei diritti delle donne e dell’emancipazione dei neri) al leader girondino Brissot, dall’idéologue conte di Volney al deputato Kersaint, dal direttore del Mercure national Robert al medico Lanthenas, dal giornalista (e «ghostwriter» di Mirabeau) Chamfort fino all’americano Thomas Paine (anch’egli eletto alla Convenzione) – gran parte dei quali ghigliottinati o imprigionati dal Terrore.
Alla base della loro visione si trovava l’idea dell’uguaglianza quale fondamento di un rinnovamento della politica, delle istituzioni e delle relazioni tra gli individui che prendeva la forma della nozione originalissima dei diritti umani fondamentali. Nel libro di Israel siamo quindi marcatamente in presenza della concezione per cui sono le idee a muovere la storia, camminando sulle gambe degli uomini (e di varie donne che ebbero ruoli decisivi, dalle dame dei salotti anticamere della Rivoluzione sino a Olympe de Gouges), e circolando per mezzo del gran numero di pamphlet e giornali che, tra il 1787 e l’88, veicolarono una «nuova cultura politica».
Lo storico ritiene imprescindibile riconoscere l’esistenza di un dualismo costitutivo della Rivoluzione, in seno alla quale si confrontò sostanzialmente una coppia di prospettive antitetiche. L’una contro l’altra armate – la prima con le armi della critica e la seconda, invece, con una sanguinosissima critica delle armi – si fronteggiarono così la Rivoluzione della Ragione degli illuministi radicali e la Rivoluzione della Volontà dei robespierristi (incarnatasi nel russovismo giacobino istituzionalizzato nel dopo 1793 e di cui, insieme all’«Incorruttibile», erano capi Marat, Saint-Just e Hébert). Ambedue acerrime avversarie della terza anima – quella del moderatismo politico ispirato alle dottrine di Montesquieu e Voltaire, tra liberalismo monarchico e fascinazione per il «modello inglese» – ma orientate da visioni inconciliabili, che assumevano anche le forme del cosmopolitismo del parti de philosophie e del patriottismo xenofobo dei montagnardi. Insomma, secondo Israel, a dominare la scena rivoluzionaria fu il duello, mortale, tra l’Illuminismo radicale e il populismo dispotico. Echi di futuro…
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