venerdì 22 gennaio 2016

Perdere il lavoro a 50 anni

Loris Campetti: Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni, introduzione di Rossana Rossanda, Manni editore 

Risvolto
Cosa significa trovarsi a 50 anni senza un lavoro perché delocalizzano la fabbrica, o tagliano il personale, o l’azienda fallisce? Come si sopravvive se si è troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per riuscire a ricollocarsi, con i figli ancora a scuola e un mutuo da pagare? 

Loris Campetti scrive un reportage viaggiando per l’Italia e raccogliendo nove storie emblematiche di una generazione di lavoratori dimenticati, invisibili: c’è la Ottana in Sardegna e l'amianto di Avellino, la Merloni di Fabriano e l’Eutelia di Roma, ci sono le storie di una grafica e di un direttore di teatro toscani, le coop rosse emiliane, gli indiani del Reggiano, c’è l'occhialeria del Veneto.
Ci sono, soprattutto, delle donne e degli uomini: ognuno racconta la propria storia, e Campetti ne spiega il contesto territoriale e lavorativo. 
Scrive l'autore: “Via via che prendevo appunti nel mio block notes mi sono rafforzato nell’idea antica della centralità del lavoro nella vita delle persone, perché quando il lavoro viene meno non è dell’assistenza che si va in cerca, bensì della dignità. Cioè del lavoro. Un lavoro irrobustito dai diritti, per non tornare alla schiavitù, come ci ricorda un’indiana del Punjab arrivata nella Pianura padana per mettere etichette alle nostre t-shirt griffate, mungere le nostre mucche e strigliare i nostri cavalli.”

Il limbo di una generazione di lavoratori dimenticati 
Tommaso di Francesco Manifesto 22.1.2016, 0:05 
C’è un limbo appeso nella crisi sociale italiana. Non è solo quello più riconoscibile e macroscopico della disoccupazione dei giovani, ingabbiati nell’attesa di un lavoro o nella prigione del precariato a vita. È anche quello meno evidente e perfino non definito da statistiche certe, di centinaia di migliaia di vite di lavoratrici e lavoratori che, passati da una interruzione all’altra dell’attività, sbattuti da un padrone all’altro, da una perdita ad una sconfitta, si ritrovano tra i 45 e i cinquanta anni senza più nulla. Nemmeno il magro privilegio dell’età. Anzi, arrivati a quella soglia che altrimenti dovrebbe essere normalmente produttiva, si sentono dire che «sei troppo vecchio per trovare un lavoro e troppo giovane per andare in pensione». 
Sono esperienze fondamentali per capire come si è sviluppata la crisi economica e sociale del capitalismo finanziario che ha devastato la struttura produttiva internazionale e che conta ormai l’ottavo anno. Nonostante la retorica degli annunci sul zerovirgola, renziani, confindustriali, dell’Ue o del Fondo monetario. Esperienze che purtroppo pochi raccontano. 
Che si realizzi la cancellazione di vite e conoscenze professionali sfugge ai più. Raccontare questa realtà vuol dire mettere le anni dentro la «crisi», la paroletta che tutti c’incanta, per rinominare la questione centrale del lavoro umano e della sua fine attuale nell’orizzonte della merce. 
C’è un solo modo per farlo. Dare parola e valore alle protagoniste e ai protagonisti, anche nel limite del tempo di un libro. È il lavoro d’inchiesta, condotto tra molte difficoltà, di Loris Campetti nel suo «Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni» (Manni Editori, pp. 189, 15 euro). Quali difficoltà? «Nell’uragano volano gli stracci» scrive Rossana Rossanda nell’introduzione al libro, perché questi lavoratori sospesi «emergono in genere poco volentieri. Quel che li caratterizza, salvo qualche indomita o indomito combattente, è la paura. Che si accresce fino a rifiutare di discorrere con il giornalista che gli chiede di parlare di sé: «No assolutamente no, grazie». O, al massimo, se lo fa, rimanendo nell’anonimato. Sono uomini e donne che, perduto il primo loro impiego, nell’attesa di qualche impiego successivo, temono di essere in qualche misura riconosciuti, se non schedati, e di perdere anche quello. La disperazione non solleva, se non in rari casi la ribellione». E c’è una «rassegnazione infelice» che colpisce tra gli uomini e le donne, che sono le prime colpite se si tratta di tagliare gli impieghi, ricorda Rossana Rossanda. 
Insomma la perdita del lavoro non è introiettata come ingiustizia ma, insieme al disastro di ritrovarsi senza salario e senza pensione, solo malasorte o, peggio, dedizione personale al fallimento. 
Con tanto di perdita di identità social-familiare, fino ai casi «teatrali» di fingimento e negazione della perdita del lavoro. 
Chi parla allora nel libro-inchiesta di Loris Campetti, in un un’Italia che ha inventato la parola «esodati» nell’epoca della coppia Monti-Fornero e dove «il diritto di licenziare è stato riconsegnato dal governo Renzi agli imprenditori dopo 45 anni di democrazia, con gli attacchi a colpi di accetta allo Statuto dei cittadini lavoratori, colpendo proprio la dignità di chi lavora o non lavora più o non riesce a trovare o a ritrovare un lavoro? Sono i protagonisti delle lotte collettive che non vogliono disperdere nel tempo. 
Così Loris Campetti ha girato il Belpaese, da nord a sud, da Feltre ad Avellino, da Montecatini a Roma, da Cascina a Ottana, da Fabriano a Napoli e a Reggio Emilia, perché alcune figure uscissero dall’ombra. C’è l’indiana Goghi — che minaccia di tornare come un fantasma per farsi giustizia -, bracciante, operaia nell’industria e nelle stalle della bassa Reggiana, giunta in Italia per ricongiungersi con il marito occupato occupato in un circo dove accudiva gli animali; ha guidato una lotta di 185 indiani, non ha paura dell’anonimato che così, tra le altre rivelazioni del suo lungo racconto, dichiara: «Non chiedetemi quale lavoro vorrei fare da grande, intanto perché sono abbastanza grande e i miei 50 anni me li sono lasciati alle spalle. E poi il problema non è quale lavoro vorrei fare, ne ho fatti tanti, dal circo alla fabbrica, dalla stalla al forno e alla cucina, posso farne altri. Il lavoro non mi spaventa — continua Goghi – però non sono più disposta a lavorare per una cooperativa, né a fare la schiava sotto qualsiasi padrone. Perché la verità è che oggi chi lavora in Italia è senza diritti, dunque è uno schiavo». 
Ogni storia è raccontata in prima persona. Dal Bellunese delle multinazionali a Ottana, nella Sardegna delle cattedrali nel deserto; da Roma parla una ex programmatrice informatica dell’Eutelia (vi ricordate le proteste con le maschere bianche?). Ogni storia è legate a filo doppio alle vicende di padroni che hanno chiuso l’attività, da Merloni al bancarottiere in fuga ad Abu Dhabi con la cassa sotto il braccio. In due casi ci sono i saggi di Sergio Caserta sulla deriva della cooperazione e sul teatro come lavoro di Granfranco Capitta. Fino alla storia più drammatica di tutte, quella di Nicola che negli anni Ottanta ha lavorato alla Isochimica di Avellino, una fabbrica inventata per fare il lavoro che i ferrovieri si era rifiutati di fare: scoibentare i vagoni impregnati di amianto. 330 operai impegnati su 3.000 carrozze per anni a grattare il micidiale asbesto, senza protezione, nonostante da tempo si sapesse della nocività della sostanza che anche dopo molti anni presenta il conto di morte. Oggi Nicola vive senza lavoro e, malato ma non abbastanza a quanto pare, anche senza pensione: la legge sull’amianto prevede infatti forme di prepensionamento, per lui non è applicabile essendo stato esposto meno di dieci anni. Ed ha già accompagnato al cimitero venti dei suoi compagni. 
Una generazione di lavoratori dimenticati e, com’è nel sogno neoliberista, contrapposti ogni volta ai disoccupati e ai giovani precari. Scrivendo l’inchiesta l’autore si è rafforzato nell’idea «antica» della centralità del lavoro nella vita delle persone, «perché quando il lavoro viene meno non è dell’assistenza che si va in cerca bensì della dignità. Cioè del lavoro. Un lavoro irrobustito dai diritti…». «L’ascolto di Campetti — scrive Rossana Rossanda nell’introduzione — non ci rimanda alla già troppo elogiata, dai cattolici e dalla borghesia — qualità morale del lavoro» che oggi è negata dal «riformismo». Tutti sono pronti a riconoscere che certo «lavorare assieme, in uguali condizioni e facendosi reciprocamente coraggio, è infinitamente meglio di un invecchiare solitario». Ma è tempo di riflettere sia sulla nostra battaglia «contro il lavorismo e il lavoro salariato, a cui non è stato contrapposto né il lavoro libero né un tempo libero realmente bonificato»; sia sui «diversi livelli di malessere nello stare in un mondo che ha smesso di interrogarsi sul suo meccanismo di fondo come faceva nelle generazioni scorse.»

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