venerdì 8 gennaio 2016

Una storia del velo femminile dal cristianesimo all'islam

Bruno Nassim Aboudrar: Come il velo è diventato musulmano, Raffaello Cortina editore

Risvolto
Tenebrose silhouette velate, volti di donne fagocitati da lembi di stoffa: immagini che ci sono familiari e che tuttavia continuano a turbarci. Perché? Come mai il velo ferisce tanto lo sguardo degli europei? Bruno Nassim Aboudrar riaccende il dibattito e mette in luce i malintesi che si sono sedimentati intorno alla millenaria usanza di nascondere il volto delle donne. Il velo non nasce musulmano ma lo diventa. Il Corano lo menziona appena. La storia che mette capo all’obbligo di indossarlo è lunga e complessa e al suo interno l’epoca del colonialismo costituisce una tappa decisiva. Se il velo ci traumatizza non è tanto perché offende la dignità delle donne o viola il principio della laicità quanto perché stravolge un ordinamento visuale fondato sulla trasparenza e vi contrappone una provocatoria esaltazione dell’occultamento e della segretezza. Ma le donne musulmane che vivono in Paesi occidentali e indossano il velo sanno davvero quel che fanno? Perché in realtà, facendo vedere che si nascondono, nascondono che si fanno vedere… Soffermandosi sul Corano e analizzando il carattere voyeuristico dell’arte orientalista, questa storia incrociata dello sguardo, illustrata da riproduzioni di quadri e fotografie, offre un’originale lettura delle strategie che sono all’opera dietro il velo.

Bruno Nassim Aboudrar è professore di Estetica all’Università Paris 3 - Sorbonne Nouvelle. Tra le sue pubblicazioni, Nous n’irons plus au musée (Aubier, 2000) e il romanzo Ici-bas (Gallimard, 2009).


Giulia Galeotti: Il velo. Significati di un copricapo femminile, Edizioni Dehoniane; pagine 228; euro 16,50

Risvolto
Il velo che cinge il capo delle donne, siano esse suore o cattoliche a messa, ebree o musulmane, è divenuto l’emblema di una sorta di schiavitù mentale, un simbolo più o meno forte della sottomissione di un sesso all’altro.
Ma davvero quel triangolo di stoffa è solo un mezzo per nascondere, per rinchiudere, per celare nell’umiltà, per segnare una sorta di proprietà privata e riservata, per separare o educare alla docilità? Non potrebbe, invece, essere anche un oggetto che dichiara una scelta libera e consapevole?


I molteplici significati del velo

ROSSANA SISTI Avvenire 1 maggio 2016

Una stoffa dalle radici cristiane 

Islam. «Come il velo è diventato musulmano» di Bruno Nassim Aboudrar, per Raffaello Cortina editore. Un libro che invita a rivedere qualche stereotipo consolidato
Chiara Cruciati il Manifesto 29.12.2015, 0:05 
Velo sì, velo no. Il dibattito sui rapporti tra Occidente e mondo arabo si limitano spesso al pezzo di stoffa sul capo delle donne di fede musulmana, tirato sia da chi lo rivendica come simbolo di identità che da chi lo bolla come strumento di sottomissione. Ma tra chi lo vuole togliere e chi lo vuole santificare spesso regna ignoranza: del velo l’Occidente sa poco, alimentandosi di stereotipi da tolleranza zero o da esaltazione orientalista. Cerca di fare chiarezza Bruno Nassim Aboudrar, professore di estetica alla Sorbonne. Nel libro Come il velo è diventato musulmano (Raffaello Cortina editore, pp. 207, euro 19) narra una storia, la Storia: partendo dal mondo arabo pre-islamico, passando per i padri della Chiesa cristiana per arrivare ai principi del profeta Maometto, mostra il ruolo che il velo ha avuto nel Medio Oriente e nel Nord Africa, vittime della colonizzazione europea del secolo scorso. Un ruolo giocato sia dalle popolazione autoctone che dagli intellettuali del movimento colonizzatore, fino all’avvento dei movimenti di indipendenza arabi. 
Uno dei principali meriti della ricerca di Aboudrar è proprio questo: la centralità della ricerca storiografica, spogliata dagli inutili fronzoli figli delle contrastanti ideologie che ruotano intorno all’Islam. Velo sì o velo no non è la domanda che l’autore si pone, né l’obiettivo dell’analisi. Il fine è spiegare le origini di un fazzoletto di stoffa che fa da discriminante – nella compressa mentalità europea – tra la libertà occidentale e l’oppressione araba. 
Eppure quel velo, che tanti dibattiti ha aperto nell’Europa illuminista e che ha prodotto estremismi folli, dove la laicità dello Stato è stata confusa con l’invasione della sfera privata della libertà di religione (come nella Francia che vietò il velo in pubblico), ha radici cristiane. Se in Grecia e a Roma non veniva usato se non per ragioni estetiche, come accessorio delle matrone e simbolo di eleganza, il primo a prevederne l’imposizione a fini di sottomissione della donna è San Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Un’imposizione poi ripresa successivamente da religiosi assurti a padri della Chiesa. 
Il velo è dipinto come strumento sociale e religioso, mezzo che evita l’adescamento femminile dell’uomo, ma in realtà è altro: è simbolo dell’inferiorità della donna, chiamata a sottomettersi a Dio attraverso la sottomissione alla sua principale creatura, ossia l’uomo.
Secoli più tardi compare nel Corano. In una sola sura, la numero 24: una norma non vincolante, nella volontà di Maometto, dal sapore culturale prima che religioso. Studiosi del testo sacro musulmano convergono su un punto: quella sura fu strappata da adepti conservatori al profeta, poco propenso a prevedere uno strumento di copertura della donna. La sura 24 non impone di coprire il volto, ma fa riferimento ai seni. Nonostante ciò, il velo è diventato nel tempo, scrive Aboudrar, «simbolo dell’Islam pur rivestendo in esso scarsissima importanza». Accompagnerà così il mondo arabo fino alle porte del ’900 quando diviene oggetto di interesse dei coloni europei. Tra gli intellettuali occidentali arrivati in Nord Africa e Medio Oriente da occupanti, la funzione del velo viene occultata: dall’orientalismo spicciolo all’ideologia anti-islamica, l’Europa studia il velo secondo i propri canoni e per servire interessi particolari. È mezzo di derisione della donna, è l’oggetto di fotografie e cartoline umilianti da far circolare in Europa, o all’opposto il simbolo di una sottomissione che le prime femministe europee vogliono cancellare per aiutare le sorelle arabe, inferiori e incapaci di privarsene. 
La violenza imposta trasforma così il velo in strumento di resistenza e di affermazione identitaria: per la donna e per l’uomo musulmani quella stoffa diviene il modo per impedire un’assimilazione forzosa all’Europa coloniale, per sfidare l’occupante. E lo è ancora oggi, con lo svelamento imposto nel Medio Oriente e nel Nord Africa dai movimenti nazionalisti, dalla Turchia di Ataturk all’Iran di Reza Scià. Veli tolti in pubblico e marce di donne organizzate dallo Stato in cui le giovani — prive del velo — sono il mezzo arabo per pubblicizzare il nuovo volto dell’Islam, quello moderato e occidentalizzato. 
E qui sta l’altro grande merito del libro: mostrare l’importanza della scelta di un intero popolo contro l’imposizione esterna, raccontando con dovizia di particolari il sentimento di accettazione o repulsione vissuto dalle popolazioni sottoposte agli svelamenti di Stato. Umiliazione e violenza in alcuni casi; liberazione, in altri.

Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini Il Sole Domenica 31.1.16
Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale. Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità. Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati. Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità. Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo. Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente. Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più. L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati. Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata. L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.

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