giovedì 4 febbraio 2016

Archeologia ad Angkor







La megalopoli khmer risvegliata dal laser 

Nella giungla cambogiana, sulle tracce della mitica prima capitale, estesa su 100 chilometri quadrati Fondata nel IX secolo, sopravvisse soltanto 90 anni 

Daniela Fuganti Stampa 5 1 2016
Nel XII secolo il tempio Angkor Vat si ergeva al centro di una gigantesca metropoli ora occultata dalla giungla, ma ricostituita come era 900 anni fa grazie alla rivoluzionaria tecnica del Lidar, il raggio laser ad alta frequenza capace di individuare i più minuscoli rilievi attraverso la vegetazione più fitta: grazie al Lidar sappiamo oggi che Angkor era, nel Medioevo, la più grande città del mondo e ospitava 750.000 abitanti. Ma quali erano le origini dell’impero khmer? Dov’era la sua prima capitale?
Dal 1999 l’archeologo Jean-Baptiste Chevanche lavora sul massiccio del Phnom Kulen, 40 chilometri a Nord di Angkor: vive fra i locali e fa le sue ricerche nei templi sparsi sull’altopiano. E proprio sul Kulen, uno degli ultimi bastioni dei khmer rossi, inaccessibile e completamente isolato dal mondo fino al 1996, ancora oggi terreno minato in certe zone, sarebbe nato l’impero khmer 300 anni prima della costruzione di Angkor Vat. Qui doveva trovarsi la prima mitica capitale Mahendraparvata, fondata da Jayavarman II nel IX secolo.
Fin dagli inizi del ’900, l’esploratore Etienne Lunet de Lajonquière aveva reperito vestigia sparse nella fitta vegetazione della montagna. Negli Anni 30 Philippe Stern, primo conservatore del Museo d’Indocina al Trocadero di Parigi, aveva intuito l’importanza del sito grazie alla coerenza stilistica dei suoi templi in mattoni a colonnette che sbucavano fra le radici degli alberi, alla raffinatezza degli architravi scolpiti e all’esistenza di un tempio-montagna, il Rong Chen. L’aveva battezzato «stile Phnom Kulen», considerandolo come l’anello mancante tra l’espressione pre-angkoriana incarnata dal complesso di Sambor Prei Kuk (VII secolo) e la forma angkoriana classica.
La montagna dei litchi
Un’iscrizione in sanscrito datata 1052, trovata nel tempio di Sdok Kak in Thailandia, indica che il giovane principe guerriero Jayavarman II si era installato nell’802 sul promontorio del Kulen con l’obiettivo di federare il reame, autoproclamandosi messaggero di dio sulla terra: un’espressione ripresa da tutti i sovrani che si sono succeduti nell’impero. 
Per anni nessuno si era più occupato della montagna dei litchi, come qui viene chiamata. Ora, dopo tanto tempo, il testimone è passato nelle mani del giovane e appassionato Chevance. È lui che ci accompagna nella scoperta del suo universo nella giungla, appollaiati sul sedile posteriore di improbabili moto-taxi guidate da ragazzini locali. «Adoro la moto», spiega, «l’unico modo per attraversare la foresta». In effetti non esistono strade sul Kulen, ma solo sentieri che si trasformano in ruscelli nella stagione delle piogge.
La coltura dell’acagiù
Riesce difficile immaginare che il sentiero che stiamo percorrendo fosse una delle grandi arterie di una città smisurata, resuscitata dal suo sonno sotto la fitta boscaglia grazie al Lidar, adoperato qui come ad Angkor, per la prima volta nel 2012, poi nel 2015, quando si è passati dai 30 chilometri quadrati indagati ai 900 attuali. «Si sapeva che sul Kulen c’era una forte concentrazione di templi, ben conosciuti e ampiamente saccheggiati», racconta Chevance, «però mancava il nesso tra loro. Il Lidar ha dato risultati spettacolari svelando la presenza di una megalopoli organizzata intorno al Rong Chen, che è probabilmente il prototipo del tempio-montagna angkoriano. Con strade, canali, dighe, forni in ceramica, templi e il palazzo reale, si estendeva su almeno cento chilometri quadrati».
Cinque immensi bacini idrici fornivano l’acqua necessaria per una popolazione sempre più numerosa, dedita a soddisfare le esigenze visionarie di un re che aveva intrapreso un progetto smisurato: i suoi sudditi - le iscrizioni ci parlano di una società fortemente gerarchizzata, fondata sulla schiavitù - avevano dovuto disboscare decine di chilometri di giungla per costruire la prima capitale. Una pratica ancestrale, oggi arrivata quasi a un punto di non ritorno. Sull’altopiano, nonostante i divieti, il manto della foresta ormai copre appena il 20% dei 37 mila ettari della montagna. La cultura intensiva di noci di acagiù, unica fonte di reddito degli abitanti, mediante abbruciamento è devastante. 
«Qui nessuno sa leggere»
Sparse nei dieci villaggi della foresta, alcuni dei quali inaccessibili, quattromila persone vivono isolate, in miseria e dimenticate dal mondo. «Nessuno sa leggere, non ci sono scuole», spiega Chevance che ha fondato l’Archeology and Development Foundation per finanziare i programmi educativi per i bambini e la creazione di redditi alternativi rispetto alla noce di acagiù. «I giovani, dipendenti da telefonini e alcol di riso, si rifiutano di imparare. “Sono pigro”, dicono, “non ho voglia e non so fare niente”». Alcuni tuttavia aiutano Chevance nelle ricerche sugli otto templi esplorati e su alcuni siti rupestri del IX, X e XI secolo, guadagnando quattro dollari al giorno.
Prima di ogni nuovo scavo si svolge una cerimonia volta ad attirare la benevolenza degli spiriti del luogo, anzitutto dello spettacolare Buddha sdraiato che è scolpito sulla parete della montagna: una delle mete di pellegrinaggio tuttora più gettonate dai cambogiani, che dopo la visita scendono a Preah-Ang-Thom, il villaggio in riva al fiume dal letto scolpito con i simboli indù della fertilità, adiacente alla grande cascata. Un paradiso terrestre, frequentato per secoli dagli eremiti che qui venivano prima della fondazione della mitica capitale Mahendraparvata, durata solo novant’anni, e che qui hanno continuato a venire anche dopo il suo abbandono alla volta di Angkor.

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