venerdì 12 febbraio 2016

Film di cartapesta per un impero straccione e nervino: il cinema fascista e il colonialismo all'italiana

Italian Fascism's Empire Cinema
Ruth Ben-Ghiat: Italian Fascism’s Empire Cinema, Indiana University Press

Risvolto
Ruth Ben-Ghiat provides the first in-depth study of feature and documentary films produced under the auspices of Mussolini’s government that took as their subjects or settings Italy’s African and Balkan colonies. These “empire films” were Italy's entry into an international market for the exotic. The films engaged its most experienced and cosmopolitan directors (Augusto Genina, Mario Camerini) as well as new filmmakers (Roberto Rossellini) who would make their marks in the postwar years. Ben-Ghiat sees these films as part of the aesthetic development that would lead to neo-realism. Shot in Libya, Somalia, and Ethiopia, these movies reinforced Fascist racial and labor policies and were largely forgotten after the war. Ben-Ghiat restores them to Italian and international film history in this gripping account of empire, war, and the cinema of dictatorship.


Ansie e desideri dell’oltremare 

Gabriele Proglio Manifesto 12.2.2016, 0:08 
Docente di storia e Italian Studies presso la New York University, Ruth Ben-Ghiat ha pubblicato La cultura fascista (Il Mulino, 2004) e curato, insieme a Mia Fuller, Italian Colonialism (Palgrave, 2005). In contemporanea con l’uscita di Italian Mobilities (Routledge, 2015) – curato con Stephanie Manlia Hom – Ben-Ghiat ha dato alle stampe un importante testo: Italian Fascism’s Empire Cinema (Indiana University Press, 2015). Il volume analizza nove produzioni cinematografiche realizzate dal 1936 al 1943 il cui tema centrale è l’oltremare italiano. Alcune di queste sono note al grande pubblico per i loro registi – si pensi a Mario Camerini per Kif Tebbi (1927) e Il grande appello (1936), Augusto Genina per Lo squadrone bianco (1936), Goffredo Alessandrini per Luciano Serra, pilota (1938), Roberto Rossellini per Un pilota ritorna (1942). Altre, invece, sono sconosciute ai più. 
L’approccio storiografico è innovativo e molto interessante. Ben-Ghiat dichiara di voler traslare il piano della discussione dal «cinema coloniale» al «cinema dell’impero». Con questa operazione, ricolloca le fonti, e la loro interpretazione, in un dibattito (non solo) europeo, analizzando come l’Africa, intesa da tutte le nazioni del Vecchio Continente quale «spazio vuoto», fu «riempita» di immagini prodotte dalla fantasia colonialista. 
La categoria concettuale di «cinema dell’impero», poi, è importante per una serie di questioni teoriche e metodologiche: essa permette di studiare la mobilità degli italiani – sia quella fisica, di chi, cioè, realizzò i film in Africa; sia quella dei viaggi immaginativi compiuti dai protagonisti e dagli spettatori. L’idea di modernità, quindi, nasce dai punti di contatto tra le rappresentazioni dei film e la percezione degli spettatori: le visioni fasciste dell’impero riguardano i desideri utopici di controllare ogni tipologia di incontro con le molte forme dell’Altro coloniale, evitando o comunque minimizzando le contaminazioni culturali. Queste ultime, infatti, depotenzierebbero il logos coloniale e sarebbero nefaste per le narrazioni sottese al concetto di guerra e di espansione nell’oltremare. In questo quadro teorico, Ben-Ghiat analizza le tensioni derivanti dal rapporto tra mobilitazione e mobilità, studiando attraverso la metafora del nomade — ossia di quel soggetto che vaga per i film — le storie italiane e mediterranee. 
Nel primo capitolo, Ben-Ghiat affronta il tema della mascolinità nelle pellicole, intendendo il cinema una tecnologia di conquista imperiale. Nel secondo, invece, l’analisi arriva fino all’invasione dell’Etiopia, esaminando il rapporto di Kif Tebbi con la Libia. Il terzo capitolo è dedicato al periodo 1936–1939: esso mappa le differenti tipologie di racconto dell’oltremare e la loro ricezione in Italia e nelle colonie. Il quarto, poi, si concentra su Il grande appello e Luciano Serra, pilota, entrambi realizzati in Etiopia, che raccontano l’Italia come una nazione imperiale-diasporica. Nel quinto e nel sesto si affronta il tema dei corpi coloniali: l’analisi si concentra sull’uso strumentale di specifiche narrazioni da parte del fascismo. 
Nello specifico, i due casi trattati sono quello degli ascari e delle relazioni interrazziali. Il settimo e l’ottavo riguardano il periodo della seconda guerra mondiale: Ben-Ghiat analizza le sfide di rappresentare una guerra persa e la creazione dei «fictionalized documentaries» realizzati da Francesco De Robertis e Rossellini. 
Nell’ottavo capitolo si decostruiscono i fotogrammi di Un pilota ritorna e Bengasi, con l’evidente avvio di un impasse in termini di produzione cinematografica per via della piega presa degli eventi militari. L’epilogo, infine, è dedicato alla memoria del cinema imperiale nel dopoguerra, tra l’uso nostalgico di plot «africani» in alcuni remakes e la dismissione della memoria coloniale.
Italian Fascism’s Empire Cinema è un ottimo testo dal quale non si può prescindere per comprendere come il fascismo usò il cinema per la propaganda coloniale, ma anche per scoprire come le visioni del grande schermo trasmisero agli italiani ansie e desideri riguardanti l’oltremare.

1 commento:

ItaloPatriota ha detto...

"Straccione e nervino". Come si valutano gli Imperi francese, britannico, spagnolo, belga, olandese, portoghese, austriaco, ottomano e via discorrendo?