lunedì 29 febbraio 2016

Il Tucidide di Luciano Canfora

Luciano Canfora: Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza

Risvolto
Chi è Tucidide? Il bravo generale punito da Ateniesi esasperati e folli? Oppure un uomo che mente e sapientemente occulta le proprie responsabilità? Luciano Canfora attacca la leggenda tucididea per ricostruire la vera figura e la vera sorte che toccò al padre della storiografia, così come oggi la conosciamo.
Tucidide – uomo politico ateniese, comandante militare, appaltatore delle miniere d'oro che Atene occupava in Tracia – è stato il principale testimone e narratore della 'grande guerra' che oppose Atene a Sparta (431-404 a.C.): un immane conflitto che segnò l'inizio del declino della Grecia classica. Tucidide non amava la democrazia ma seppe convivere col secolare regime democratico, fino al momento in cui, nel 411 a.C., un sanguinoso colpo di Stato portò al potere i suoi amici oligarchi. Cosa accadde allora a Tucidide? Si schierò con l'oligarchia? Dovette eclissarsi al crollo del breve regime oligarchico? Certo è che, proprio con i fatti di quel terribile 411 a.C., la sua Storia – narrazione giorno per giorno della lunga guerra tra Spartani e Ateniesi – si interrompe. Questa coincidenza è il punto di partenza, e forse la chiave, per dipanare la sua vera vicenda biografica, offuscata da una massiccia leggenda che fa di lui o un incompetente mentitore o la vittima di una colossale, inspiegabile ingiustizia, culminata in una improbabile condanna a morte.
L'opera di Tucidide rimase incompiuta o meglio per alcune parti solo abbozzata. Ma si salvò: perché finì nelle mani di un avventuriero di genio, Senofonte, anche lui ateniese, che in politica s'era trovato dalla stessa sua parte. È a costui che dobbiamo la salvezza di un racconto che ha sancito per millenni come si scrive la storia.

La verità, vi prego su Tucidide, lo storico senza storia 

SIMONETTA FIORI Repubblica 28 2 2016
Fu Tucidide a inventare la storiografia, un genere che ancora pratichiamo. Però non abbastanza da far luce sul suo mistero, ancora avvolto in mille leggende. Un paradosso - l’artefice delle storie rimasto senza storia - ora smontato da un saggio definitivo di Luciano Canfora, che vanta un’antica familiarità con l’argomento. Chi era veramente Tucidide? Il bravo generale punito da ateniesi folli? Oppure un mentitore che sapientemente copre le proprie responsabilità? Di certo sappiamo che era un signore ricco e potente che narrò la grande guerra tra Atene e Sparta (431-404 a.C.). Ma il suo racconto s’interrompe proprio nell’anno del colpo di Stato (411 a.C.), quando gli amici oligarchi arrivarono al potere.
Che ne fu di lui? Si schierò dalla loro parte e dovette eclissarsi dopo il crollo? Su questa coincidenza indaga l’antichista, il quale continua la ricerca cominciata alla fine degli anni Sessanta. Già in Mistero Tucidide demoliva la vulgata secondo cui Tucidide per vent’anni sarebbe rimasto lontano da Atene e dal campo ateniese e quindi avrebbe raccontato nella sua opera «quasi soltanto cose non viste»: difficile immaginarlo proprio nel teorico della «storia come autopsia», dove l’atto del vedere è al primo posto e i fatti narrati «sono solo contemporanei, visti e verificati».
È da questa premessa che Canfora parte per ristabilire la verità nella caligine delle controverse ricostruzioni antiche e moderne.

Vita segreta di Tucidide Il mito di uno strano esilioScena improbabile Difficile immaginarsi un Tucidide camuffato con barba e baffi finti che si aggira furtivo per le strade di Atene
3 mar 2016  Corriere della Sera di Mauro Bonazzi
Ricorda la Vienna del Terzo uomo, il film di Orson Welles, l’Atene di cui scrive Luciano Canfora nel suo ultimo libro Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza). Una città nervosa, opaca, attraversata da tensioni e conflitti, in cui bisogna muoversi con attenzione. Non certo la «scuola dell’Ellade», esaltata da Pericle. Una città tutta politica, piuttosto, in cui anche quello di storico è un mestiere pericoloso: così si ricava dalle vicende di Tucidide (e Senofonte), che Canfora ricostruisce con il consueto piglio investigativo, ritornando con nuovi argomenti sull’ipotesi sviluppata diversi anni fa.
Membro delle famiglie aristocratiche, Tucidide non aveva disdegnato l’impegno politico diretto: eletto stratego, aveva partecipato a diverse campagne militari durante il conflitto con Sparta, in particolare nella Grecia settentrionale, dove aveva interessi economici. Ed è lì che succede il misfatto, nel 424 a.C., quando il generale spartano Brasida riuscì a conquistare — «liberare», diceva lui — la strategica Amfipoli. Un grave perdita per Atene, che punì Tucidide con l’esilio. Ormai condannato all’inattività, il generale si sarebbe così dedicato (dove?) a scrivere del conflitto che aveva sconvolto la Grecia.
Intanto ad Atene muoveva i primi passi Senofonte, un altro oppositore della democrazia. Compromesso col famigerato governo dei Trenta Tiranni del 404, fu costretto a un esilio ventennale, come mercenario in Persia prima e poi come possidente terriero nel Peloponneso, dove a sua volta si mise a scrivere delle vicende greche. È una ricostruzione ben radicata tra gli studiosi. Ma non tutto torna.
Per Tucidide la storia è quella viva, del tempo presente: e lo storico è chi ha visto o ha potuto comunque parlare con i diretti interessati. Il racconto del colpo di Stato antidemocratico del 411 è esemplare. Tucidide sa: conosce i nomi dei promotori occulti che si muovevano nell’ombra, di cui invece il popolo era all’oscuro; rievoca le strategie segrete che puntavano a seminare il terrore nella città; addirittura sembra partecipare al processo intentato contro Antifonte (il personaggio forse più affascinante di questa vicenda — fu retore, filosofo, organizzatore del putsch, e tanto ci sarebbe ancora da dire). Dettagli eloquenti, che abbondano anche nel caso della catastrofica spedizione siciliana. Ma come avrebbe potuto raccoglierli Tucidide, se era in esilio? I Greci non andavano tanto per il sottile: un esiliato perdeva qualunque diritto; chiunque, incontrandolo in terra attica, avrebbe potuto ucciderlo. Difficile immaginarsi un Tucidide con barba e baffi finti che si aggira furtivo per le strade di Atene.
Quanto a Senofonte resta da chiarire perché la prima parte del suo libro, che inizia bruscamente proprio dove Tucidide ha interrotto (interrotto, si badi, non terminato), sia così simile al testo del suo predecessore… I dubbi aumentano, e con questi si fa strada l’esigenza di ricostruzioni più plausibili. E se Tucidide in esilio non ci fosse mai andato? E se Senofonte, che in esilio andò di sicuro e pure in modo precipitoso, avesse messo le mani su parte del materiale tucidideo? Ipotesi radicali, che avrebbero almeno il merito di rendere la storia più coerente. Oltreché più avvincente, quando si prova a ricostruire in che modo Senofonte è entrato in possesso di questi testi. Forse glieli diedero Tucidide stesso o la sua famiglia: provenivano pur sempre dallo stesso ambiente sociale. Ma non si può escludere che Senofonte se ne fosse appropriato dolosamente, come alcune fonti sembrano suggerire. Pare poi che Tucidide sia morto di morte violenta. Ci sono relazioni tra questi due fatti? Anni fa Canfora lo aveva suggerito; qui evoca la possibilità senza insistere. Di certo, tra colpi di Stato, omicidi e traffici illegali, l’Atene di Tucidide e Senofonte non ha nulla da invidiare alla Vienna del Terzo uomo.
Del resto, è proprio ad Atene che meglio si attaglia la battuta più celebre del film di Orson Welles. Nell’Italia dei Borgia ci furono guerre, terrore e omicidi: e fiorirono Michelangelo e Leonardo. In Svizzera ci furono cinquecento anni di amore fraterno: e fu prodotto l’orologio a cucù (e pazienza se, come gli svizzeri puntualizzarono prontamente, l’orologio a cucù non lo avevano inventato loro). Lo stesso vale per Atene, la città dei tradimenti, dove intanto operavano Sofocle, Socrate e Fidia. Che non si trattasse di una coincidenza è proprio la conclusione a cui arrivò Tucidide.
Studiare la storia serve per capire chi siamo: un desiderio che ci spinge ad agire per superare i limiti imposti dalla natura; un’inquietudine, un’incapacità di accontentarsi, che ha causato stragi efferate, ma anche la costruzione del Partenone. Le cause della nostra grandezza sono le cause della nostra miseria; bene e male sono inesorabilmente intricati. Leggere i classici, biasimava Thomas Hobbes, ha insegnato solo ribellioni e tumulti. Ma è traducendo la Guerra del Peloponneso che ha poi fondato la filosofia politica moderna. È una lezione su cui conviene meditare quella di Tucidide, lo storico sempre presente.

Tucidide svelato dopo 2500 anni: vittima d’uno scambio di persona Canfora illumina la biografia dello storico, ad Atene fino al 410: l’esilio fu inflitto al suo omonimo figlio di Melesia e il testo ritoccato da Senofonte 23 mar 2016  Libero SILVIA STUCCHI
Il nuovo saggio di Luciano Canfora - Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio ( Laterza, pp. 356, euro 20) è la conclusione di una ricerca avviata oltre 40 anni fa, dai tempi di Tucidide continuato (1970), e che mira a risolvere in modo coerente tutti i fraintendimenti e gli errori accumulatisi nei secoli, a partire dal «feticcio» dell’esilio ventennale, dal quale, nei suoi «possedimenti» di Skapté Hýle in Tracia, Tucidide avrebbe scritto la Guerra del Peloponneso.
E dunque, per smontare questo, apparente, caposaldo dell’oscura biografia tucididea, Canfora dimostra che sarebbe insensato, come ripetuto ancora, pensare a un Tucidide esiliato nei suoi possedimenti in Tracia, le famose miniere d’oro di Skapté Hýle, a seguito della perdita di Amfipoli, di cui sarebbe stato incolpato. Rileggendo infatti il racconto della campagna militare vittoriosamente condotta dallo spartano Brasida (IV, 103-108), risulta evidente che Tucidide non fosse lo stratego nella città che si lasciò persuadere dai proclami menzogneri del generale spartano: lo stratego era Eukles, mentre Tucidide riuscì anzi a contenere il disastro preservando dalla caduta la città di Eione.
Ma già nelle pagine precedenti si dimostra insensato pensare che Tucidide, condannato ed esiliato, abbia composto «sotto un platano», come pretende certa tradizione, La Guerra del Peloponneso, stando proprio a Skapté Hýle, le cui miniere non erano di proprietà della sua famiglia, bensì essa ne aveva l’usufrutto. Canfora, infatti, ci dice che «se la vasta tradizione biografica, compattamente concorde nel collocare Tucidide a Skapté Hýle nei vent’anni successivi al 424/3 ha un fondamento», egli non potè dimorare da esule lì, in una regione ancora sottoposta al controllo di Atene: tale dato, fra l'altro, stonerebbe vistosamente con la questione dei lingotti d’oro regolarmente inviati ad Atene ancora nel 410-409 a. C., che qualche interprete catalogò un po’ sbrigativamente come «doni propiziatori» inviati da un esule desideroso di farsi perdonare.
Ostinarsi a collocare Tucidide in esilio stona, del resto, anche con la dichiarazione di autopsia del proemio («I discorsi che ho udito io stesso»; «i fatti cui io ero presente») e con la dichiarazione di riportare le informazioni con esattezza, oltre che con la singolare dinamica con cui vengono riportati documenti che solo un uomo presente ad Atene poteva maneggiare. In più, egli ci dà un quadro precisissimo della disastrosa campagna militare in Sicilia, addirittura, fornendo un dettaglio circa il modo in cui gli Ateniesi, costruito il muro con cui cercavano di bloccare Siracusa, scendevano poi verso la pianura attraverso una palude (VI, 101, 3). Altro indizio che Canfora adduce a sostegno della sua tesi è che Tucidide dovette presenziare di certo al discorso pronunciato in punto di morte da Antifonte, artefice del colpo di stato del 411, discorso di cui Tucidide dice che «a mia conoscenza, fu la migliore autodifesa in un processo capitale» (VIII, 68, 2). L’espressione, correttamente interpretata, sta a significare proprio che Tucidide era presente allora in Atene (lo dimostra anche Aristotele, F 137 Rose).
E come tutto ciò possa conciliarsi con le affermazioni del cosiddetto «secondo proemio» di V, 24-26 - là dove Tucidide afferma «mi accadde di dover stare lontano dalla mia città per venti anni metà eìs Amphípolin strateghían » - è problema risolto nella terza parte del volume. L’espressione è stata tradotta variamente, ma la resa corretta è solo «dopo la guerra civile». Tutto il «secondo proemio», infatti, è un collage di loci e sintagmi tucididei, oltre che un bel campionario di fraseologia senofontea, perché ne è proprio Senofonte l’autore; fu lui che volle usare, per «Anassagora e Pericle» del pittore francese Augustin-Louis Belle (1757–1841). Sopra, l’antichista e filologo classico Luciano Canfora. Sotto, un busto dello storico ateniese Tucidide e la copertina del libro a lui dedicato indicare il 404/403, l’anno “cancellato”, da rimuovere dalla coscienza collettiva degli Ateniesi, una fine allusione all’Eschilo delle Coefore (v. 75). In effetti, la scelta di denominare, ellitticamente, la guerra civile con un’allusione alla trilogia eschilea conclusa proprio da Atena che, presiedendo l’Areopago, fa assolvere Oreste macchiatosi di matricidio, viene proprio da chi, come appunto Senofonte, per un reato ugualmente gravissimo era stato costretto a togliersi di torno. Se Tucidide lasciò Atene, ciò accadde dopo il 410, e il redattore e continuatore ideale della sua opera sarebbe stato appunto Senofonte, il quale condivideva con Tucidide lo scetticismo sul governo del popolo di Atene; anzi, Senofonte era proprio il miglior candidato a poter concludere «il brouillon diseguale» delle parti relative agli anni successivi al 411, non foss’altro perché si era ormai perfettamente integrato nella macchina politico-militare spartana.
E il Tucidide condannato ed esiliato, di cui abbiamo notizia da uno scolio alle Vespe di Aristofane? Dovrebbe trattarsi di un altro Tucidide, Tucidide di Melesia, ormai vecchio, cui allude anche un’altra commedia di Aristofane, gli Acarnesi, rappresentata però nel 425, quando non avrebbe avuto alcun senso un riferimento al nostro Tucidide, che ancora non era nemmeno stratego.
Partire dalla biografia tucididea consolidata per metterne in rilievo le molte aporie, risolvendole, consente a Canfora di ripensare l’immane lavoro di questo storico: esso, diffuso grazie a Senofonte, era «un documentato e apparentemente oggettivo (…) attacco al regime politico ateniese (…), all’incompetenza del ceto dominante della città (il demo), i cui effetti erano stati più e più volte per un verso rovinosi e per l’altro criminali». La questione tucididea viene così affrontata nella sua forma più sostanziale, in un saggio che si legge col piacere intellettuale con cui si leggerebbe una grande indagine, tesa a risolvere in modo razionale le tante difficoltà prospettate dalle fonti, difficoltà davanti alle quali, ci ammonisce il “Congedo”, la mossa meno intelligente sarebbe rinunciare a capire. La comprensione è invece possibile analizzando con occhio filologicamente accorto i testi, sapendoli interrogare e analizzando le loro risposte con oggettività. Un noto libro di Canfora di qualche anno fa si intitolava Filologia e libertà. Ora verrebbe da dire, riecheggiando quel titolo che filologia è libertà, in primo luogo dai preconcetti e dalle idée reçues.      

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