lunedì 15 febbraio 2016

La saggezza di Jean Clair su iconoclastia, Occidente e delirio



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BENEDETTA CRAVERI Repubblica 15 2 2016
PARIGI Celebre per le sue splendide mostre e per i suoi feroci pamphlet contro le imposture dell’avanguardia contemporanea, Jean Clair, non bisogna dimenticarlo, è anche un magnifico prosatore, un autentico virtuoso dello stile e della lingua, che intesse, libro dopo libro, la sua trama preziosa di ricordi, riflessioni, inquietudini. Ne “La part de l’ange” — un’espressione francese che indica la parte dovuta al sacro — ora in uscita da Gallimard, lo scrittore ha scelto la forma del diario dove a scandire il succedersi dei giorni non sono tanto gli avvenimenti esterni quanto il dipanarsi di un pensiero analogico che, a partire dai
valori dell’umanesimo, si interroga angosciosamente sul destino della civiltà occidentale. Con un arte consumata della transizione e sul filo di una straordinaria erudizione, Jean Clair spazia dall’evocazione del mondo contadino della sua infanzia alla storia dell’arte, dal significato originario delle parole all’oblio dei valori che hanno connotato nei secoli la cultura europea. Il suo libro è innanzitutto una riflessione sul rapporto fra l’immagine “che si impone” e la parola che “ci libera dalla sua ipnosi”. Come vive Jean Clair questa dialettica?
«”Guardare a lungo la quiete degli dei: ricompensa dopo il pensiero“. Non ho mai potuto leggere questo verso di Paul Valéry mentre contemplava il mare dall’alto del cimitero di Sète senza che evocasse un’immagine: dopo la parola e la fatica che la accompagna, l’immagine offre allo sguardo il riposo, il dono di un mondo divino ricomposto dopo la confusione delle parole umane. Per me l’opera d’arte è la ricompensa delle difficoltà del discorso. Permette di non pensare più».
Lei scrive di essere andato in analisi giovanissimo: è un’esperienza che ha influito sul suo rapporto con la parola?
«La psicanalisi - all’epoca in cui era ancora una disciplina comportava un esercizio singolare: bisognava affidarsi al disordine delle parole e tentare poi di ricomporle grazie a una rivelazione abbagliante, analoga a quella degli eremiti nel deserto. La regola era quella di dire tutto ciò che mi passava per la testa, ma al tempo stesso dovevo mantenere il silenzio, vigilare su di esso e proteggerlo come la sorgente inesauribile da cui sarebbero sgorgate le parole. È in questa contraddizione che si nascondeva il mistero dell’analisi».
In che modo questa “rivelazione” ha orientato le sue scelte?
«Il silenzio della pittura, l’ascolto delle “voci del silenzio”, come diceva Malraux, quello insomma che sarebbe stato il mio mestiere, ha preso il posto del silenzio della analisi che mi aveva insegnato il peso delle parole: quanto pesano e quanto valgono, ciò che dicono troppo in fretta e ciò che non dicono».
Uno dei temi ricorrenti del suo libro è il sogno: e un retaggio dell’analisi?
«Il sogno occupa un posto sempre più importante nella mia vita, ma non è quello che Freud analizza, anzi ne è agli antipodi. Freud si interessa a ciò che sfugge al sogno o dal sogno, l’indizio che indica la crepa attraverso cui il male si è insinuato. Vede il sogno come una specie di bazar, di gabinetto delle curiosità o degli orrori, una specie di letamaio dove, col favore della notte e del rilassamento della coscienza, si decompongono le nostre attività diurne e dove l’analisi può scoprire il piccolo dettaglio inquietante che è al contempo la chiave d’oro delle fiabe, la chiave dei sogni che farà girare la serratura dell’inconscio».
Invece per lei?
«Amo i sogni come amiamo i grandi racconti, ricchi di corrispondenze e perfettamente coerenti; i sogni che invece di immiserire la vita ce la restituiscono centuplicata. Ricordiamoci quel che dice Proust in Dalla parte di Swann: “Un uomo che dorme, tiene in cerchio intorno a sé, il filo delle ore, l’ordine dei mondi e degli anni e dei mondi”. Non si scende in cantina, si governa un regno. Questa potenza del sogno era quella che doveva soggiogare Leonardo da Vinci, che dormiva tredici ore per notte. Come dubitare che era durante quei sogni che “vedeva” i suoi quadri, le sue macchine, i suoi volti?»
Frequenti nel suo libro sono anche le annotazioni sull’Eros, sull’impulso sessuale maschile come esperienza misteriosa e di natura sacrale. Penso per esempio alla sua descrizione del pube femminile del celebre dipinto di Courbet, censurato giorni fa da Fecebook per il suo contenuto ritenuto “osceno”.
«È solo da qualche anno che il Museo d’Orsay si è deciso a esporre L’origine del mondo di Courbet. Il quadro era rimasto a lungo nascosto; vedere la nostra “Origine” era dunque cosa proibita. Una trentina d’anni fa l’avevo domandato in prestito per una mostra ma la mia richiesta era stata respinta col pretesto che si trattava di “un quadro mediocre”. La verità era che non si osava mostrarlo per timore di incorrere una denuncia per offesa al pudore. Oggi la situazione è cambiata, e non necessariamente per il meglio. Il sesso è onnipresente, ma questa visibilità assolutizzata non può non comportare dei profondi sconvolgimenti nella vita mentale, spirituale, etica ed estetica. Siamo entrati in un’epoca di sconvolgimenti, una nuova guerra di religione, che sarà innanzitutto una nuova guerra di immagini — a cominciare da quelle che celebrano la bellezza del corpo umano — molto più violenta delle due precedenti ondate di iconoclastia che hanno colpito l’Occidente».
Pensa all’immagine delle statue “incassate” dei musei capitolini che ha fatto il giro del mondo?
«Chi avrebbe potuto immaginare che la visita a Roma del Capo di Stato dell’Iran, potesse fare coprire le sculture dei nudi che avrebbe potuto incrociare? E questo quando in Francia e altrove imperversa la battaglia contro il velo delle donne musulmane? Come conciliare questi due atteggiamenti cosi contrari, l’uno di sottomissione all’Islam (nel senso che il Corano dà alla parola “sottomissione”) e l’altro di intolleranza gelosa e pignola di consuetudini che sono state per molti secoli anche le nostre?» È per questo che anche il tema del velo ritorna così sovente nel suo libro?
«Quello stesso velo che si vuole proibire in Occidente, è stato da noi come nell’Islam, un motivo di grande grazia e anche di erotismo. Basti pensare ai volti della fede popolare che fino alla metà del secolo scorso imponeva alle donne di portare un velo per nascondere, vale a dire rivelare la capigliatura. E all’altro estremo, abbiamo la potenza suggestiva dei nudi velati, drappeggiati, intriganti e eccitanti, come le statue di Corradini a Napoli, nella Cappella Sansevero».
L’immagine ha dunque smesso di essere un momento di pace, di pura contemplazione?
«All’alba di questa nuova guerra di religione che chiama innanzitutto in causa la potenza delle immagini, avremo di nuovo bisogno di convocare dei concili con filosofi, psichiatri, artisti, teologi, imam e preti per disarmare una violenza potenzialmente mortale per la nostra civiltà».

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