lunedì 29 febbraio 2016

Montanelli, l'eroe nazionale che comprava le bambine eritree e se le scopava, ma con ironia liberale

Fummo giovani soltanto allora. La vita spericolata del giovane Montanelli
Salvatore Merlo: Fummo giovani soltanto allora. La vita spericolata del giovane Montanelli, Mondadori

Risvolto
In questa biografia di Indro Montanelli potente e suggestiva, Salvatore Merlo ha deciso di applicare alla storiografia la tecnica della letteratura, ed è riuscito nella difficile impresa di comporre un romanzo di formazione, cinematografico, movimentato, in cui il protagonista, imbevuto di letture e fantasie risorgimentali, si muove all'interno della Grande Storia, ci sbatte dentro, con incoscienza e ironia, con coraggio e infantilismo, a volte con iattanza, ma con un romantico gusto ottocentesco per l'avventura. Dall'esperienza coloniale (come volontario) in Africa Orientale alle corrispondenze di guerra per il "Corriere della Sera", dalle amicizie, non prive di scintille e contrasti, con Dino Buzzati, Curzio Malaparte, Galeazzo Ciano, ma soprattutto Leo Longanesi, fino al progressivo e tormentato distacco da Mussolini e dal regime, la prigionia a San Vittore e la fuga rocambolesca in Svizzera, Indro Montanelli ha condotto il suo lungo viaggio attraverso il fascismo (e la giovinezza) dimenandosi con la violenza e la voluttà di chi ce l'ha nel sangue di rompere e scuotere via ogni ceppo e catena. Il papà mazziniano lo voleva diplomatico, la mamma cattolica lo esortava all'autocontrollo, mentre il Regime e lo Stato volevano scandirgli l'esistenza e la giornata. Ma per lui la vita era una camera delle meraviglie, un teatro verso il quale bastava allungare un braccio per cogliere un'occasione. Prefazione di Ferruccio de Bortoli.
Salvatore Merlo, classe '82, racconta la vita spericolata del fondatore del «Giornale» fino al 1945

MONTANELLI Ironico, geniale, anticonformista, libero Ritratto di un giovane giornalista

Le corrispondenze per il «Corriere», il rapporto con il fascismo, l’orrore della guerra Indro e i suoi primi anni di carriera nel libro di Salvatore Merlo in uscita domani per M 

29 feb 2016  Corriere della Sera Di Ferruccio de Bortoli
Immaginiamo che Indro sia ancora vivo. Che cosa direbbe di questo libro di Salvatore Merlo? Sono convinto che all’inizio avrebbe un irrefrenabile moto di fastidio. Una naturale ripulsa: le sirene della vanità sono insopportabili, soprattutto per chi sa di non esserne immune. E Indro non lo era per niente, faceva solo finta di esserlo, recitava il suo disappunto, quasi sollevato nel constatare che la messinscena — per quanto teatralmente efficace — non avrebbe ingannato nessuno. 
In fondo, gli piaceva che si parlasse di lui pur con qualche licenza e approssimazione. Pericolo al quale i personaggi storici sono inevitabilmente esposti, condizione da preferire al mortale oblio dell’anonimato che è la più feroce delle sentenze. 
Una volta mi disse di essersi divertito, insieme all’amico Mario Cervi, a riscrivere la storia d’Italia, soprattutto perché poteva assaporare il sottile piacere di non essere querelato da nessuno dei protagonisti. A differenza dei Mattei, dei Fanfani, dei De Mita e della lunga lista di nemici contemporanei delle cui querele fece collezione. E di cui ovviamente andò assai fiero. 
Sono sicuro che Fummo giovani soltanto allora, sottotitolo La vita spericolata del giovane Montanelli, gli sarebbe piaciuto. Forse più per la scrittura e per il titolo longanesiano che per la ricostruzione di molte vicende sulle quali — come il lettore potrà facilmente intuire — qualcosa da eccepire l’avrebbe avuta. E non mi riferisco ai tanti amori che Salvatore Merlo gli attribuisce: si sarebbe schermito, rallegrandosi con un mezzo sorriso, e nemmeno al suo coinvolgimento con il fascismo di cui non fece mai mistero. Invece, si sarebbe forse infuriato nel trovarsi nei panni di un «ingenuo» o addirittura di «una capra», come emerge in alcuni passaggi del racconto di Merlo sui suoi anni più giovanili. Era uomo che amava i dettagli, le pieghe delle storie. Si deliziava nello  coprirli e, qualche volta, nello sceneggiarli. Detestava che lo facessero altri al posto suo. 
Montanelli non fu mai un revisionista della storia di se stesso. La romanzò forse, con un compiaciuto gusto letterario per il lato grottesco degli avvenimenti, il fulgore ambiguo delle passioni, la fragilità dei principi solenni della dittatura esposti alle debolezze congenite dell’italianità. Qualche volta cedette all’irrefrenabile tentazione di plasmare i caratteri, di ritoccare le personalità schierandole a modo suo nell’immaginario proscenio della vita, ma dimostrò sempre umanità e rispetto anche quando, non raramente, diede sfogo alla propria leggendaria perfidia. 
Non visse nell’ossessione di apparire diverso da quello che era, difetti compresi. E qui sta la grandezza del personaggio, la sua infinita originalità. Il genio è rintracciabile anche e soprattutto nelle generose dosi d’ironia e di sarcasmo disseminate nei suoi scritti. 
E, forse, la vera natura del fascismo venne smascherata anzitempo proprio da lui, nelle pagine più disilluse — scritte in barba alla censura — che si sostituiscono via via a quelle mosse da entusiasmi e furori giovanili mal riposti. Così avvenne in occasione della «scandalosa» corrispondenza dalla Spagna sull’esito della battaglia di Guadalajara, che, però, com’è ricordato in questo libro, gli costò la rimozione tra gli inviati di guerra. Così anche nei primi articoli per il «Corriere della Sera» diretto da Aldo Borelli, quando curava le corrispondenze dall’Albania ostaggio dell’operetta triste e stracciona dell’Impero (per sua sfortuna fu costretto ad andarsene pochi giorni prima del «glorioso» sbarco a Durazzo, degno del peggior avanspettacolo). Emblematica, in proposito, appare la celebre canzonatura — non avvertita dalla censura — del gerarca Starace descritto mentre dà il via a una corsa patriottica di ciclisti in camicia nera con direzione Berlino: cronaca irridente, ancor più abbellita dal fatto (non vero) che i ciclisti avessero, durante una sosta, mietuto il grano con i contadini. 
Nei regimi totalitari il comico è l’anticamera della tragedia e di tale fenomeno, che fu speciale in Italia, Montanelli fu cronista assai puntuale, facendosi talvolta beffe di una propaganda tutt’altro che occhiuta nel comprendere allusioni e doppi sensi. 
Osservatore disincantato e non militante, viene descritto nel libro di Merlo anche nelle febbrili giornate che precedettero la guerra. Berlino gli appare fredda e tutt’altro che entusiasta. E i suoi primi articoli sul conflitto non omettono di parlare del dramma della popolazione civile polacca, già devastata dai bombardamenti (poi tema del suo libro La lezione polacca) e nei quali appare evidente quanto lui nutrisse molta più simpatia per quel popolo di quanta non ne provasse invece per i tedeschi, malgrado fossero i nostri alleati. 
L’incontro con Hitler avvenne veramente ma è ancora oggi avvolto in un’aura leggendaria. Indro dapprima romanzò il fatto, poi si sarebbe pentito, pur deliziando sempre i suoi interlocutori con un racconto sospeso fra realtà storica e immaginazione letteraria. 
Molto efficace la descrizione dell’invasione sovietica in Finlandia a cui Montanelli fu tra i pochi ad assistere, in quel Nord ove fu spinto, non solo dalla sua inquieta curiosità, ma anche dalla necessità del regime di tenerlo lontano dagli avvenimenti più caldi, dato che la censura, inizialmente distratta, cominciò a tenerlo sotto osservazione e a temerlo. E Borelli, il direttore del «Corriere», fascista pure lui ma non cieco servitore, anche se lo apprezzava fu sul punto di licenziarlo, rimproverandolo di non aver scritto nulla di un’inesistente furiosa battaglia norvegese, che era stata annunciata dall’agenzia Stefani ma non era mai stata combattuta, accorgendosi infine che aveva ragione Indro e che l’invasione della Norvegia non era avvenuta nello sfavillio delle armi voluto dalla retorica del regime. 
All’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, Indro è a Roma. Coglie nell’umore popolare una strana remissività, una malcelata rassegnazione, come racconta Merlo. Ha la sensazione sgradevole di un entusiasmo insincero, di un abbandonarsi stordito al destino, anziché di un’invincibile voglia popolare di cavalcarlo. La sua libertà interiore non viene mai meno. Diffida del conformismo, in tutti i suoi aspetti. A maggior ragione di quelli imposti dal regime. La vittoriosa retorica imperiale non l’ha mai incantato. Nemmeno quando, giovanissimo, era inebriato dai profumi rivoluzionari, irresistibili come le grazie femminili di cui era ghiotto. Gli scricchiolii del regime erano già evidenti agli occhi di Montanelli e di molti suoi amici, Mario Pannunzio fra questi. E sarebbero stati chiari nella disgraziata avventura greca, nella quale gli italiani Allo specchio Non fu mai un revisionista della storia di se stesso. La romanzò forse, con un compiaciuto gusto letterario per il lato grottesco degli avvenimenti, il fulgore ambiguo delle passioni Antipatia e rivalità Montanelli era uomo da duelli infiniti, come di amori esplosivi quanto effimeri. A Milano, nel 1938, conobbe Curzio Malaparte, che allora era già famoso. Si odiarono cordialmente per il resto dei loro giorni Deluso dal regime Forse la vera natura del fascismo venne smascherata anzitempo proprio da lui, nelle pagine più disilluse — scritte in barba alla censura — che si sostituiscono via via a quelle mosse da entusiasmo presero «un sacco di legnate che Mussolini, vendicandosi, impedì ai giornalisti di raccontare». 
Una lettera assai significativa, scritta da Indro alla prima moglie Maggie, descrive tutta la delusione dell’uomo per il regime e lo sdegno del giornalista. «Io avrei potuto veder pubblicato un mio articolo al giorno, se avessi rinunciato a un certo atteggiamento, ma non ci ho rinunciato e Borelli ha avuto il buon senso di non rimproverarmelo». I suoi articoli cominciarono a essere sospetti. Anche e soprattutto quelli dalla Croazia, alleata dei nazisti. Le autorità ministeriali, dapprima diffidenti, diventarono apertamente ostili. 
Gli entusiasmi giovanili si erano sciolti nell’orrore della guerra. Vennero i tempi della Resistenza, della lotta fratricida e il giovane Montanelli si lasciò — come da sua ammissione — trascinare dagli eventi «dissolvendosi in essi, senza contribuirvi in un modo o nell’altro». 
Il 26 luglio, caduto Mussolini, scrisse sul «Corriere», stimolato da Gaetano Afeltra: «Io? Io adesso voglio poter fare soltanto una cronaca di fatti e di parole veri». Con il ritorno dei fascisti al potere, verrà espulso dall’Ordine dei giornalisti. Disoccupato, minacciato e ricercato. E poi arrestato dai nazisti: aveva pensato di congiungersi, con i gradi di ufficiale del Regio Esercito, sollecitato dall’amico Filippo Beltrami, alle formazioni partigiane. Incarcerato, prima a Gallarate e poi a San Vittore, anche perché sospettato di aver scritto sotto falso nome, sul «Messaggero», articoli sulla Petacci. Non era vero niente. Montanelli fuggirà da San Vittore dopo aver incontrato Mike Bongiorno e il falso generale Della Rovere. Grazie alla mamma, come sempre nei momenti più difficili. Ma anche grazie al cardinale Schuster, all’editore del «Corriere» Aldo Crespi. Alla fortuna. 
Riparato in Svizzera, scriverà al padre comunicandogli tutta la sua delusione, anche per un antifascismo di maniera che a suo giudizio mutuava alcuni dei difetti antropologici del fascismo: «Ho bisogno di venire a Roma per vedere come stanno le cose». Altrimenti era meglio andare a Buenos Aires. Tornerà, ostinandosi a essere, come Prezzolini, un anti-italiano militante. 
Nel dicembre del 1999 gli feci un’intervista in pubblico sul secolo che stava finendo, sui suoi ricordi e i suoi rimpianti. «Ma se dovessi rinascere, quale Paese sceglieresti?». Indro rimase in silenzio per qualche secondo. «Guarda, lo dico con una certa sofferenza, ma vorrei rinascere in Italia!». 
Montanelli era uomo da duelli infiniti, come di amori esplosivi quanto effimeri. Merlo ricostruisce, in un capitolo di rara bellezza espressiva, la rivalità con Malaparte, il «servo sciocco di Ciano», il «camaleonte travestito da Narciso». I due si conobbero a Milano nel 1938. Malaparte era già famoso e idolatrato, anche da se stesso. Si odiarono cordialmente per il resto dei loro giorni. Malaparte avrebbe detto, ormai alla fine: «Deve morire prima lui». Indro detestava l’ipocrisia della morte; la ritualità delle sepolture con sentimenti tanto buoni quanto falsi. E quando il suo rivale passò a miglior vita, distillò una goccia di toscano e postumo veleno: «Dobbiamo dire che Curzio, morendo, ha avuto ragione». A ciglia asciutte, come diceva lui. Lapidario, come il più celebrato dei suoi controcorrente.

Tra sceneggiatura e biografia
29 feb 2016  Corriere della Sera
"o forse sarò ricordato... da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli», scriveva Montanelli. Ma si sbagliava. A 14 anni e 7 mesi dalla sua morte, è un fiume di articoli e trasmissioni, biografie, al miele o al curaro: se il vecchio agnostico, sorpreso di poterlo fare, riuscisse a dare un’occhiata quaggiù, si divertirebbe.
L’ultimo testo in uscita ha per titolo Fummo giovani soltanto allora. La vita spericolata del giovane Montanelli, pubblicato nelle «Scie» di Mondadori, con prefazione di Ferruccio de Bortoli. L’autore è Salvatore Merlo, classe 1982, giornalista parlamentare del «Foglio». E il suo è un libro scritto bene, con freschezza e passione, e con squarci deliziosi: come quello sui giornalisti italiani, durante la guerra civile in Spagna, seduti nei caffè francesi «tra aliti di brillantina costosa», fedeli «a una teatralità da gallinacci meridionali all’olio d’oliva». Il testo nasce da anni di ricerca documentale (fra le molte fonti citate, Hotel Kämp di Nicola Lagioia, del 2008, che dipinge il suo Montanelli con un taglio quasi identico a quello di Merlo). Non è una biografia classica, certo per scelta: perché racconta appunto l’Indro più giovane, e perché nel biografo prevale qui e là la tentazione legittima, ma a volte insidiosa, dell’interpretazione personale; e ogni tanto, un profumo di sceneggiatura.
Come quando, per esempio, si descrive un Montanelli che in una sera d’autunno si alza a parlare «bianco come un pollo morto» perché «incerto del suo francese», in un circolo culturale antifascista di Parigi. E che esalta il fascismo, mostrandosi «temerario e sicuro come una capra». Citazione sgarbiana, ma lui naturalmente non può saperlo. Perché tutto questo succede ottantuno anni fa, e chi lo racconta oggi è come se fosse in quella stanza, testimone diretto. Merlo cita come fonte «Giustizia e Libertà» del 30 novembre 1934, che in un articolo attribuito a Carlo Rosselli in effetti critica duramente il discorso di Montanelli, pur dicendo che il giornalista italiano alle prime armi «non sembra antipatico». Ma la semplice citazione non rende giustizia all’autore di oggi poiché alla fine è lui, il Merlo che chiama in scena caprini e gallinacei, a prevalere da protagonista su tutti e due, Rosselli e Montanelli. Donando bargigli e corna al giovane Indro, che definisce il futuro «più grande giornalista del Novecento», ne tenta uno schizzo inusitato, come altri tratteggiati nel libro.
Ciò non annacqua il tono saporoso del tutto, anzi. E chiunque scriva conosce i rischi presenti nel riaffrescare le vite altrui: altrove in questo stesso testo, per esempio, Montanelli viene descritto come un «collezionista di case», lui che — come sa chi lo conobbe in prima persona — non fu mai proprietario di un solo appartamento. Lasciò libri e soldi, non case.
Nelle ultime righe, l’autore evoca un certo vecchio che attribuisce a dei morti, ormai incapaci di smentire, azioni e pensieri, «li descrive come piace a lui». Ma qui Merlo parla anche di Merlo: di quando rivela sicuro che Montanelli in guerra «in più d’una occasione non poté evitare un brivido di paura», o di quando descrive certi sentimenti intimi di Rosmunda, suocera di Indro, 107 anni fa («... uno scontento, un sapore amaro che ancora adesso le saliva fin dentro il naso»); o quando freudianamente spiega con «piaghe inconfessabili» della famiglia (la «malinconia» per i «genitori che incanutiscono») il rifugiarsi del giovane Indro «in qualcosa che fosse altrettanto totalizzante», cioè il fascismo.
Merlo ricorda anche il Montanelli primo giornalista straniero testimone dell’attacco sovietico alla Finlandia. Spiega che lo scoop avvenne «un po’ per sfida, un po’ per fatalità», quando Indro «puntò a Nord, dove si pescano i merluzzi e non succede nulla». Chi scrive può aggiungere qui un granello, ricordo personale. Settembre 2010, Helsinki, intervista all’allora presidentessa finlandese, Tarja Halonen. Parole del suo portavoce, prima di cominciare: «Il “Corriere”? Certo, quello di Montanelli. Qui lo ricordiamo tutti, sui suoi articoli fanno le tesi all’università, per noi è stato un eroe. L’unico a raccontare subito la nostra tragedia negata o ignorata. Mollò Helsinki e corse sul fronte nord perché aveva un buon informatore, ma soprattutto il fiuto dei giornalisti più grandi. Ne avete di nuovo qualcuno come lui, oggi in Italia?».    

Il giovane Montanelli, un ribelle molto 2.0
Il terribile libro d’esordio, il fascino fascista di Ricci, le lezioni di M iller, M ike e le psicosi di Buzzati Nella biografia dei prim i anni, i segreti d’un Indro insicuro. Che può am m aliare i ragazzi d’oggi 
26 mar 2016  Libero FRANCESCO SPECCHIA
Non lo faccio per l’autore Salvatore Merlo, classe 1982, collega dotato d’indubbia armonia narrativa, il quale, probabilmente, Indro non l’ha mai conosciuto. 
Non lo faccio neanche per Ferruccio De Bortoli, prefatore accorato e ultimo direttore del gigante. No. Se qui mi bevo d’un sorso ariose tranche de vie -seppur sostenute da fonti documentarie- che già conosco a memoria; e se recensisco Fummo giovani soltanto allora-la vita spericolata del giovane Montanelli ( Mondadori, pp 23, euro 20) è perché, come ragiona sempre Marco Travaglio, il ricordo di Montanelli dev’essere un fuoco in grado di ardere in ogni occasione, un memento professionale, una botta etica che arriva quando l’abisso italiano di questo mestiere cerca d’ingoiarti. Diciamo che è un rito. Ogni volta che esce un libro sul vecchio cilindro occorre porgerlo alle generazioni future, anche se non si è Foscolo o E.L.Master. Anche se il libro, poi, magari è brutto. Questo di Merlo non lo è. Basta incocciare nel ritratto del giovane fucecchiese figlio del preside ai tempi dell’università di legge (poi si prese anche la laurea in scienze politiche) che Merlo traccia, per visualizzarne il carattere: «Giacca e capelli lunghi ripiegati all’indietro, distintivo del Guf sul risvolto, pantaloni a campana e nodo alla cravatta lunghissimo», Indro ha pure un papà mazzinano al quale oppone un irrequieto ribellismo: «vuole andare all’estero non vuole fare il diplomatico. La vita deve sembrargli una camera delle meraviglie, un teatro verso il quale basta allungare un braccio per cogliere un’occasione d’avventura. Sogna il giornalismo, e il solfeggio largo, pucciniano, della grande cronaca...».
E poi, via via, in questo prequel di Indro, spuntano quadretti vividi. I giornalisti italiani che si dissetano nei cafè francesi durante la guerra di Spagna, «tra aliti di brillantina costosa»; e il Montanelli che s’inceppa d’imbarazzo in un circolo culturale antifascista di Parigi, «incerto del suo francese» (cosa che non gli impedirà di frequentare la redazione di France Soir); e la sua ansia per il mattone che si trasforma in foga d’acquisto immobiliare; e l’attrazione per l’affabuSopra, Indro M ontanelli ultraottantenne. A sinistra, la copertina del libro di M erlo. Sotto, un’im m agine dell’esercito italiano durante la guerra d’Etiopia vissuta dallo stesso M ontanelli com e ufficiale lanza ducesca di Berto Ricci («con noi il fascismo può diventare una cosa seria»); e l’incontro a New York col mostro del giornalismo Webb Miller boss delle United Press, quello che gli insegnò a scrivere comprensibile «anche per la massaia dell’Ohio». Il ritratto che Merlo fa di Indro è molto simile a quello di Nicola Lagioia in un libro del 2008, ma completamente opposto a quello di Paolo Di Paolo in Tutte le speranze del 2014. Entrambi, ovviamente, letti e recensiti. Fummo giovani si sofferma su notizie ormai seppellite dalla storia: il primo libro del Maestro, il tremendo Commiato del tempo di pace , scritto nel 1935 sul piroscafo verso l’Africa Orientale «pronto a combattere la guerra d’Abissinia». O l’incontro con Mike Bongiorno a San Vittore. O l’aiuto prestato a due colleghi del Corriere considerati unanimamente degli psicopatici (Buzzati minacciato di morte da una prostituta con rivoltella che aveva sedotto e Piovene, sul lastrico causa scommesse). Ne esce un omaggio passionale non verso Montanelli ma verso ciò che per ognuno di noi rappresenta.
È come quando Montaigne vantava con Étienne de La Boétie (l’autore di Discorso sulla servitù volontaria) un’amicizia esemplare che mai ci fu ma che poteva esserci. Montanelli diceva sempre «una volta morto sarò ricordato forse dai miei lettori, non dai loro figli». Il mio, di figlio, lo ribadisco, si chiama Gregorio Indro, ha 4 anni. Gli ho messo in mano anche questo libro, accanto all’Ipad. Come al solito, da grande capirà...

«Con Piovene c’eravamo tanto amati» 26 mar 2016  Libero MAURIZIO STEFANINI
«Ci fu un periodo in cui, al Corriere della Sera, Piovene ed io dividemmo la stessa stanza di lavoro», iniziava un famoso Incontro di Indro Montanelli del 1951, poi finito nella raccolta Tali e Quali.
Un ritratto in apparenza affettuoso ma all'apparenza al vetriolo di uno scrittore dalla concentrazione in apparenza svagata, politicamente un po' voltagabbana, «giocatore forsennato, per libidine di emozione», amante dell'orrido e degli scherzi a fondo sadico. 23 anni dopo, Montanelli e Piovene saranno di nuovo assieme nella fondazione del Giornale: l'uno come primo direttore; l'altro come primo presidente della società editoriale, anche se sarebbe morto in capo a cinque mesi dall'uscita. Ma non fu un finale scontato. Biografo di Indro Montanelli, nel 2012 Sandro Gerbi fa un confronto diretto tra i due in un saggio che appare in appendice a Falsità delle confessioni. Quasi un'autobiografia: un'antologia di venti scritti pubblicata da Aragno ( 173 pp., 15 euro) e da Gerbi curata. Benché quasi coetanei, per un po' vicini di scrivania e entrambi protagonisti di laboriosi viaggi attraverso il fascismo terminati con ancor più laboriose adesioni alla Resistenza, secondo Gerbi i due «non erano fatti per capirsi né per amarsi, al di là del fatto mondano e del riconoscimento dei rispettivi talenti». Accusato implicitamente di «coda di paglia» da Montanelli in un momento in cui l'antigollismo lo ha riportato a sinistra ma infuriano le polemiche per certi suoi scritti antisemiti dell'epoca delle leggi razziali, Piovene intitola appunto La coda di paglia il denso saggio del dicembre 1962 in cui ammette di essere nel novero degli ex- che riversano «sopra i fascisti anche l'odio per una parte oggi aborrita di se stesso». Ma rimprovera a Montanelli la «stima ch'egli tributa a certi fascisti credenti» i quali, capito il loro errore, sono andati a morire «in un delirio insieme di espiazione e di fedeltà. Io li stimo meno degli altri. A una vita stupida hanno aggiunto una morte stupida». Riferimento evidente a quel Berto Ricci che Montanelli ha sempre venerato, da cui violenta risposta che il Corriere della Sera pubblica l'8 gennaio 1963, col titolo Il caso Piovene. Ne seguirà scambio di telegrammi, in bilico tra affetto e sarcasmo. E poi interruzione di rapporti. Tanto più clamorosa è dunque nel 1973 l'adesione di Piovene al progetto del Giornale. «Le sue qualità di artista bastavano a esentarlo da certe responsabilità», scrisse Montanelli nel commentarla. «Volle assumersele. E morire, lui che lo aveva sempre evaso, in servizio».      

2 commenti:

pasquino44 ha detto...

In un'Italia che riprofuma di fascismo, ci farebbe comodo un Montanelli del periodo della "disillusione", ma scovarlo è oggi impossibile.

pasquino44 ha detto...

In un'Italia che riprofuma di fascismo, ci farebbe comodo un Montanelli del periodo della "disillusione", ma scovarlo è oggi impossibile.