domenica 14 febbraio 2016

Un negro bianco. Il delirio occidentocentrico coopta testimoni dell'islamofobia

Boualem Sansal: 2084. La fine del mondo, Neri Pozza

Risvolto
Nell’Abistan – un impero cosí vasto da coprire buona parte del mondo – 2084 è una data presente ovunque, stampata nel cervello di ognuno, pronunciata in ogni discorso, impressa sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia dello Shar, la Grande Guerra santa contro i makuf, i propagandisti della «Grande Miscredenza».

Nessuno sa a che cosa corrisponda davvero quella data. Qualcuno dice che ha a che fare con l’inizio del conflitto, altri con un suo particolare episodio. Altri ancora che riguardi l’anno di nascita di Abi, il Delegato di Yölah, oppure il giorno in cui Abi fu illuminato dalla luce divina, al compimento del suo cinquantesimo anno di età. In ogni caso, è da allora che l’immenso paese, che era detto semplicemente il «paese dei credenti», fu chiamato Abistan, il mondo in cui ci si sottomette gioiosamente alla volontà di Yölah e del suo rappresentante in terra, il profeta Abi.

La Grande Guerra santa è stata lunga e terribile. Le sue tracce sono religiosamente conservate: edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, enormi crateri trasformati in immondezzai fumanti.

Tuttavia, l’armonia piú totale regna ora nelle terre dell’Abistan. Nessuno dubita delle autorità – gli Onorevoli e gli Adepti della Giusta Fraternità e i membri dell’Apparato – cosí come nessuno dubita che Yölah abbia offerto ad Abi di imprimere un nuovo inizio alla storia dell’umanità. L’abilang, una nuova lingua, ha soppiantato tutte le lingue precedenti, considerate stolti idiomi di non-credenti. Le date, il calendario, l’intera storia passata dell’umanità non hanno ormai piú alcuna importanza e senso nella Nuova Era, e tutto è nella mano di Yölah. Yölah sa le cose, decide del loro significato e istruisce chi vuole. Agli uomini non resta che «morire per vivere felici», come recita il motto dell’esercito abistano.

Perché, però, dubbi e sospetti si insinuano nella mente del trentacinquenne Ati al ritorno a Qodsabad, la capitale dell’impero, dopo anni trascorsi in un sanatorio arroccato su una montagna? Perché nel suo cuore si fa strada la tentazione di attraversare la Frontiera, al di là della quale, si dice, vivano i Rinnegati, i makuf, i propagandisti della Grande Miscredenza capaci di tutto?

Ispirato alla celebre opera di George Orwell 1984, 2084. La fine del mondo, narra di un mondo futuro dove tutti gli incubi del presente sembrano realizzati nella forma di una feroce teocrazia totalitaria.
"Dal 2084 islamico non c'è scampo: siamo già sottomessi" Un mondo desolato e senza libertà, l'Abistan, dominato dalla religione: l'autore algerino parla del suo romanzo, ispirato a Orwell (e al suo Paese)
Eleonora Barbieri Giornale - Dom, 06/03/2016

Il millenarismo teofobico di Sansal
DANIELE ZAPPALÀ Avvenire 13 febbraio 2016




BOUALEMSANSAL VIETATO AMARE E PENSARE
«2084»: la visione di Sansal sullamorte dell’Occidente  Ad Abistan si parla in abilang, non si pensa e si obbedisce ad Abi Nel romanzo dello scrittore algerino la resa dei Paesi «evoluti»
25 feb 2016  Libero
Ati aveva perso il sonno. L’angoscia lo assaliva sempre più presto, allo spegnersi delle lampade o anche prima, quando il crepuscolo dispiegava il suo livido velo e gli ammalati, stanchi della lunga giornata di vagabondaggi fra corsie e corridoi, fra corridoi e terrazze, cominciavano a tornare ai loro letticonpasso strascicato, scambiandosi grami auguri in vista della traversata notturna. L’indomani alcuni non sarebbero più stati lì. Yölah è grande e giusto, egli dà e toglie a suo piacimento.
(…) Irumori familiaridel sanatorio lo tranquillizzavano unpo’, anche se esprimevano la sofferenza degli uomini e i suoiassordanti terroriole vergognose manifestazioni della macchina umana, ma senza sovrastare il fantomatico borborigmo della montagna: un’eco remota che lui più che udire immaginava, scaturita dalle viscere della terra, pregna dimiasmi e diminacce. E quella montagna dell’Ouâ ai confini dell’impero, lugubre e opprimente lo era davvero, tanto per la sua immensità e il suo aspetto scabro quanto per le storie che circolavano nelle valli e salivano fino al sanatoriosulleormedeipellegrini che due volte l’anno attraversavano la regione del Sîn, facendosempreunadeviazione all’ospedale in cerca di calore e di viveri per il viaggio. (…) I pellegrini erano le uniche persone autorizzate a circolare, non a loro piacimento ma inbase aprecisicalendari, lungo itinerari ben segnalati dai quali non potevano deviare, scanditi da aree di sosta piazzate inmezzo alnulla, aridi altopiani, steppe infinite, fondi di canyon, località senz’anima, dove li si contava, li si suddivideva in gruppi come gli eserciti in assetto di guerra che bivaccano attorno amille fuochidacampo inattesa dell’ordine di riunirsi e partire. Talvolta lepauseduravano così a lungo che i penitenti si stanziavano in enormi bidonville e si comportavano come profughi abbandonati a se stessi, senza più sapere con esattezza che cosa avesse alimentato i loro sogni il giorno prima. Nella provvisorietà perenne c’è una lezione: ciò che importanonèpiùlametama la sosta, per quanto precaria sia; offre riposo e sicurezza, e in tal modo esprime l’intelligenza pratica dell’Apparato e l’affetto delDelegato per il suo popolo. Soldati apatici e commissari della fedeinquietieattivi come suricati si alternavanolungole strade, inpuntinevralgici, per sorvegliare il passaggiodei pellegrini. Che si sapesse, non si eramai verificataun’evasioneounacaccia all’uomo, la gente andava per la suastradacome levenivadetto, Per gentile concessione dell’editore Neri Pozza, pubblichiamo un estratto da «2084», il romanzo dello scrittore algerino Boualem Sansal da oggi in libreria. Di quest’opera si discute da mesi, è stata un vero caso editoriale. Racconta un Paese, l’Abistan, in cui si parla solo in abilang (le altre lingue sono vietate perché permettono di pensare), e dove la religione del dio Yolah domina ogni aspetto della vita dei cittadini. Da un certo punto di vista, l’algerino Sansal immagina come sarebbe uno stato governato da fanatici come quelli del Califfato di al-Baghdadi. Così, se «Sottomissione» diMichelHouellebecq era sconvolgente, questo libro lo è ancora di più, perché la distopia chemette in scena appare terribilmente reale.
trascinando i piedi solo quandolafatica si faceva sentireecominciavaadassottigliarei ranghi. Tutto eraben regolato e passato al pettine fitto, non poteva accadere nulla che esulasse dall’espressa volontà dell’Apparato. (...) Lamalattia e la morte stessa, le cui visite erano fin troppo frequenti, non incidevano sul morale delle persone. Yölah è grande e Abi è il suo fedeleDelegato.
Il pellegrinaggio era l’unico pretesto legittimo per circolare nel paese, a parte le esigenzeburocratiche e commerciali per le quali gli interessati disponevanodiunsalvacondotto che andava vidimato a ogni tappa della missione. Nemmenoquesti controlli che si ripetevano all’infinito emobilitavanonugolidiaddettie controllori avevano una ragion d’essere, erano un retaggio di qualche epoca dimenticata. Il paese viveva guerre ricorrenti, spontanee e misteriose, questo era certo; il nemico era ovunque, poteva irrompere da est o da ovest quanto da nord o da sud, si stava all’erta, non si sapeva che faccia avesse né cosa volesse. Lo si chiamava ilNemico, con la maiuscola espressa dal tono di voce, e tanto bastava. (...) Si parlava dellaGrandeMiscredenza, si parlava dei makuf, neologismo che designava rinnegati invisibili e onnipresenti. Al nemico esterno siera sostituito ilnemicointerno, o viceversa. Poi venne il tempo dei vampiri e degli incubi. In occasione delle cerimonie solenni si evocava un nome gravido di tutte le paure, lo Shaitan. Si diceva anche lo Shaitan e la sua congrega. Alcuni l’hanno interpretato come un altro modo per dire ilRinnegato e isuoi, espressione che la gente capiva piuttosto bene. Non è tutto: chi pronuncia il nome del Maligno devesputareper terra e ripetere tre volte la formula consacrata: «Che Yölah lo bandisca e lo maledica!» In seguito, superati ulteriori impedimenti, si diede finalmente al Diavolo, alMaligno, allo Shaitan, al Rinnegato, il suo vero nome: Balis, e isuoi adepti, i rinnegati, divennero i balisiani.
Così sembrava tutto più chiaro, ma per molto tempo, comunque, ci si continuò a chiedere come mai fossero stati usati per un’eternità tanti falsi nomi. La guerra fu lunga, epiùcheterribile. Quae là, anzi ovunque a dire il vero (…), se ne vedono le tracce religiosamente conservate, allestite come installazioni artistiche di enormi proporzioni esposte al pubblico: complessi di edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, carcasse eviscerate, enormi crateri trasformati inimmondezzai fumantioputridepaludi, mostruosi cumulidi ferraglie contorte, dilaniate, fuse, nelle quali si vanno a leggere segni e, in certi luoghi, grandi aree proibite, di varie centinaia di kilosicca o shabir quadrati, cinte da rozze palizzate nei luoghi di passaggio, a tratti divelte, territori spogli, spazzati da venti gelidi o torridi, che sembrano essere stati teatro di eventi al di là dell’umana comprensione, pezzi di sole caduti sul pianeta, magie nere che abbiano scatenato fuochi infernali, e chissà che altro. (…) Cartelli informativi posizionati in punti strategici spiegavano che dopo la Guerra, denominata Shar, la Grande Guerra santa, le distruzioni si estendevano all’infinito e i morti, novellimartiri, si contavano a centinaia di milioni. Per anni, per interi decenni, per tutta la durata della guerra e anche molto dopo, uomini grandi e grossi hanno lavorato a raccogliere i cadaveri, trasportarli alla meglio, accatastarli, Inquietante lo scenario che Boualem Sansal, scrittore algerino, descrive nel suo ultimo romanzo «2084», da oggi in libreria: immagina unmondo sottomesso ad un regime religioso simile a quello del Califfato da cui è impossibile sfilarsi [Lapresse] cremarli, trattarli con la calce viva, nasconderli in trincee senza fine, ammucchiarli nelle viscerediminiere abbandonate, in grotte profonde poi richiuse con la dinamite. Un decreto di Abi ha autorizzato per il tempo necessario queste pratiche, ben lontane dal rituale funerario del popolo dei credenti. (…)
QuantoalNemico, erasemplicemente scomparso. Non si trovòmai alcuna traccia del suo passaggio nel paese, della sua miserabile presenza sulla terra. Stando all’insegnamento ufficiale, la vittoria su di lui fu «completa, definitiva, irrevocabile». Yölah avevadeciso, aveva donato al suo popolo piùchemai credente la supremazia, promessa fin dalle origini. Una data si era imposta, chissà come o perché si era stampata nel cervello di tutti quanti e compariva sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia: 2084. Aveva a che fare con la guerra? Forse. Non si precisava se riguardasse l’inizio o la fine o un particolare episodio del conflitto. La gente aveva formulato un’ipotesi, poi un'altra, più ingegnosa, in relazione con la santità della propria vita. La numerologia divenne uno sport nazionale, si sommò, si sottrasse, si moltiplicò, si fece tutto ciòche erapossibile fareconinumeri 2, 0, 8 e4.
Per qualche tempo si affermò l’idea che il 2084 fosse semplicemente l’anno di nascita di Abi, o quello in cui fu illuminato dalla luce divina, al compimentodel suocinquantesimo anno di età. Sta di fatto che ormai nessuno dubitava che Dio gli offrisse un ruolo nuovo e unico nella storia dell’umanità. Proprio a quell’epoca il paese, detto semplicemente «paese dei credenti», fu chiamato Abistan, un bellissimo nome, usato dalle autorità, Onorevoli e Adepti dellaGiusta Fraternità emembri dell'Apparato. Il popolino aveva mantenuto la vecchia denominazione di “paese dei credenti” e nella conversazione quotidiana, dimenticando rischi e pericoli, andava per le spicce, diceva «il paese», «la casa», «da noi». Lo sguardo dei popoli è così, noncurante e davvero poco creativo, non vede più in là del proprio uscio. Sembrerebbe quasi una forma di cortesia: l’altrove ha i suoi proprietari, guardarlo equivale a violare un’intimità, infrangereunpatto. Definirsiabistanese, abistani alplurale, avevaunaconnotazione ufficiale ansiogena, cheevocava seccature erichiami all’ordine, quando non citazioni in giudizio, la gente parlava di sé dicendo «la gente», convinta che questo bastasse per riconoscersi.
A un certo punto la data è stata messa in relazione con la nascita dell’Apparato e, in seguito, con quella della Giusta Fraternità, la congregazione di quaranta dignitari scelti daAbi in persona fra i credenti più fidati, dopo che egli stesso era stato eletto da Dio per assisterlonel colossale compito di governare il popolo dei credenti e condurlo tutto quanto nell’altra vita, dove ognuno si vedrà interrogare sulle proprie opere dall’Angelo di giustizia. Veniva detto loro che in quella luce l’ombra nonnascondeva nulla, era come un rivelatore. Proprio durante i cataclismi che si susseguirono senza tregua venne attribuito a Dio un nuovo nome, Yölah. I tempieranocambiati, secondolaPromessaprimordiale era nato un altro mondo, in una terra purificata, consacrata alla verità, sotto losguardodiDioediAbi, bisognava rinominare tutto, riscrivere tutto, inmodo che lanuova vita non fosse in alcunmodo contaminata dalla Storia precedente ormaiobsoleta, rimossa come se non fossemai esistita.
Ad Abi la Giusta Fraternità attribuì il titolo umile ma così esplicito diDelegato e inventò per luiunsalutosobrioe commovente, si diceva «Abi il Delegato, che la benedizione sia su di lui» e ci si baciava il dorso dellamano sinistra.

Per gentile concessione dell’editore Neri Pozza, pubblichiamo un estratto da «2084», il romanzo dello scrittore algerino Boualem Sansal da oggi in libreria. Di quest’opera si discute da mesi, è stata un vero caso editoriale. Racconta un Paese, l’Abistan, in cui si parla solo in abilang (le altre lingue sono vietate perché permettono di pensare), e dove la religione del dio Yolah domina ogni aspetto della vita dei cittadini. Da un certo punto di vista, l’algerino Sansal immagina come sarebbe uno stato governato da fanatici come quelli del Califfato di al-Baghdadi. Così, se «Sottomissione» di Michel Houellebecq era sconvolgente, questo libro lo è ancora di più, perché la distopia che mette in scena appare terribilmente reale.
«2084»: la visione di Sansal sulla morte dell’Occidente Ad Abistan si parla in abilang, non si pensa e si obbedisce ad Abi Nel romanzo dello scrittore algerino la resa dei Paesi «evoluti» 4 mar 2016  Libero BOUALEM SANSAL © 2016, Neri Pozza Editore
Ati aveva perso il sonno. L’angoscia lo assaliva sempre più presto, allo spegnersi delle lampade o anche prima, quando il crepuscolo dispiegava il suo livido velo e gli ammalati, stanchi della lunga giornata di vagabondaggi fra corsie e corridoi, fra corridoi e terrazze, cominciavano a tornare ai loro letti con passo strascicato, scambiandosi grami auguri in vista della traversata notturna. L’indomani alcuni non sarebbero più stati lì. Yölah è grande e giusto, egli dà e toglie a suo piacimento.
(…) I rumori familiari del sanatorio lo tranquillizzavano un po’, anche se esprimevano la sofferenza degli uomini e i suoi assordanti terrori o le vergognose manifestazioni della macchina umana, ma senza sovrastare il fantomatico borborigmo della montagna: un’eco remota che lui più che udire immaginava, scaturita dalle viscere della terra, pregna di miasmi e di minacce. E quella montagna dell’Ouâ ai confini dell’impero, lugubre e opprimente lo era davvero, tanto per la sua immensità e il suo aspetto scabro quanto per le storie che circolavano nelle valli e salivano fino al sanatorio sulle orme dei pellegrini che due volte l’anno attraversavano la regione del Sîn, facendo sempre una deviazione all’ospedale in cerca di calore e di viveri per il viaggio. (…) I pellegrini erano le uniche persone autorizzate a circolare, non a loro piacimento ma in base a precisi calendari, lungo itinerari ben segnalati dai quali non potevano deviare, scanditi da aree di sosta piazzate in mezzo al nulla, aridi altopiani, steppe infinite, fondi di canyon, località senz’anima, dove li si contava, li si suddivideva in gruppi come gli eserciti in assetto di guerra che bivaccano attorno a mille fuochi da campo in attesa dell’ordine di riunirsi e partire. Talvolta le pause duravano così a lungo che i penitenti si stanziavano in enormi bidonville e si comportavano come profughi abbandonati a se stessi, senza più sapere con esattezza che cosa avesse alimentato i loro sogni il giorno prima. Nella provvisorietà perenne c’è una lezione: ciò che importa non è più la meta ma la sosta, per quanto precaria sia; offre riposo e sicurezza, e in tal modo esprime l’intelligenza pratica dell’Apparato e l’affetto del Delegato per il suo popolo. Soldati apatici e commissari della fede inquieti e attivi come suricati si alternavano lungo le strade, in punti nevralgici, per sorvegliare il passaggio dei pellegrini. Che si sapesse, non si era mai verificata un’evasione o una caccia all’uomo, la gente andava per la sua strada come le veniva detto, trascinando i piedi solo quando la fatica si faceva sentire e cominciava ad assottigliare i ranghi. Tutto era ben regolato e passato al pettine fitto, non poteva accadere nulla che esulasse dall’espressa volontà dell’Apparato. (...) La malattia e la morte stessa, le cui visite erano fin troppo frequenti, non incidevano sul morale delle persone. Yölah è grande e Abi è il suo fedele Delegato.
Il pellegrinaggio era l’unico pretesto legittimo per circolare nel paese, a parte le esigenze burocratiche e commerciali per le quali gli interessati disponevano di un salvacondotto che andava vidimato a ogni tappa della missione. Nemmeno questi controlli che si ripetevano all’infinito e mobilitavano nugoli di addetti e controllori avevano una ragion d’essere, erano un retaggio di qualche epoca dimenticata. Il paese viveva guerre ricorrenti, spontanee e misteriose, questo era certo; il nemico era ovunque, poteva irrompere da est o da ovest quanto da nord o da sud, si stava all’erta, non si sapeva che faccia avesse né cosa volesse. Lo si chiamava il Nemico, con la maiuscola espressa dal tono di voce, e tanto bastava. (...) Si parlava della Grande Miscredenza, si parlava dei makuf, neologismo che designava rinnegati invisibili e onnipresenti. Al nemico esterno si era sostituito il nemico interno, o viceversa. Poi venne il tempo dei vampiri e degli incubi. In occasione delle cerimonie solenni si evocava un nome gravido di tutte le paure, lo Shaitan. Si diceva anche lo Shaitan e la sua congrega. Alcuni l’hanno interpretato come un altro modo per dire il Rinnegato e i suoi, espressione che la gente capiva piuttosto bene. Non è tutto: chi pronuncia il nome del Maligno deve sputare per terra e ripetere tre volte la formula consacrata: «Che Yölah lo bandisca e lo maledica!» In seguito, superati ulteriori impedimenti, si diede finalmente al Diavolo, al Maligno, allo Shaitan, al Rinnegato, il suo vero nome: Balis, e i suoi adepti, i rinnegati, divennero i balisiani.
Così sembrava tutto più chiaro, ma per molto tempo, comunque, ci si continuò a chiedere come mai fossero stati usati per un’eternità tanti falsi nomi. La guerra fu lunga, e più che terribile. Qua e là, anzi ovunque a dire il vero (…), se ne vedono le tracce religiosamente conservate, allestite come installazioni artistiche di enormi proporzioni esposte al pubblico: complessi di edifici sventrati, muri crivellati, interi quartieri sepolti sotto le macerie, carcasse eviscerate, enormi crateri trasformati in immondezzai fumanti o putride paludi, mostruosi cumuli di ferraglie contorte, dilaniate, fuse, nelle quali si vanno a leggere segni e, in certi luoghi, grandi aree proibite, di varie centinaia di kilosicca o shabir quadrati, cinte da rozze palizzate nei luoghi di passaggio, a tratti divelte, territori spogli, spazzati da venti gelidi o torridi, che sembrano essere stati teatro di eventi al di là dell’umana comprensione, pezzi di sole caduti sul pianeta, magie nere che abbiano scatenato fuochi infernali, e chissà che altro. (…) Cartelli informativi posizionati in punti strategici spiegavano che dopo la Guerra, denominata Shar, la Grande Guerra santa, le distruzioni si estendevano all’infinito e i morti, novelli martiri, si contavano a centinaia di milioni. Per anni, per interi decenni, per tutta la durata della guerra e anche molto dopo, uomini grandi e grossi hanno lavorato a raccogliere i cadaveri, trasportarli alla meglio, accatastarli, cremarli, trattarli con la calce viva, nasconderli in trincee senza fine, ammucchiarli nelle viscere di miniere abbandonate, in grotte profonde poi richiuse con la dinamite. Un decreto di Abi ha autorizzato per il tempo necessario queste pratiche, ben lontane dal rituale funerario del popolo dei credenti. (…)
Quanto al Nemico, era semplicemente scomparso. Non si trovò mai alcuna traccia del suo passaggio nel paese, della sua miserabile presenza sulla terra. Stando all’insegnamento ufficiale, la vittoria su di lui fu «completa, definitiva, irrevocabile». Yölah aveva deciso, aveva donato al suo popolo più che mai credente la supremazia, promessa fin dalle origini. Una data si era imposta, chissà come o perché si era stampata nel cervello di tutti quanti e compariva sui cartelli commemorativi affissi accanto alle vestigia: 2084. Aveva a che fare con la guerra? Forse. Non si precisava se riguardasse l’inizio o la fine o un particolare episodio del conflitto. La gente aveva formulato un’ipotesi, poi un'altra, più ingegnosa, in relazione con la santità della propria vita. La numerologia divenne uno sport nazionale, si sommò, si sottrasse, si moltiplicò, si fece tutto ciò che era possibile fare con i numeri 2,0, 8 e 4.
Per qualche tempo si affermò l’idea che il 2084 fosse semplicemente l’anno di nascita di Abi, o quello in cui fu illuminato dalla luce divina, al compimento del suo cinquantesimo anno di età. Sta di fatto che ormai nessuno dubitava che Dio gli offrisse un ruolo nuovo e unico nella storia dell’umanità. Proprio a quell’epoca il paese, detto semplicemente «paese dei credenti», fu chiamato Abistan, un bellissimo nome, usato dalle autorità, Onorevoli e Adepti della Giusta Fraternità e membri dell'Apparato. Il popolino aveva mantenuto la vecchia denominazione di “paese dei credenti” e nella conversazione quotidiana, dimenticando rischi e pericoli, andava per le spicce, diceva «il paese», «la casa», «da noi». Lo sguardo dei popoli è così, noncurante e davvero poco creativo, non vede più in là del proprio uscio. Sembrerebbe quasi una forma di cortesia: l’altrove ha i suoi proprietari, guardarlo equivale a violare un’intimità, infrangere un patto. Definirsi abistanese, abistani al plurale, aveva una connotazione ufficiale ansiogena, che evocava seccature e richiami all’ordine, quando non citazioni in giudizio, la gente parlava di sé dicendo «la gente», convinta che questo bastasse per riconoscersi.
A un certo punto la data è stata messa in relazione con la nascita dell’Apparato e, in seguito, con quella della Giusta Fraternità, la congregazione di quaranta dignitari scelti da Abi in persona fra i credenti più fidati, dopo che egli stesso era stato eletto da Dio per assisterlo nel colossale compito di governare il popolo dei credenti e condurlo tutto quanto nell’altra vita, dove ognuno si vedrà interrogare sulle proprie opere dall’Angelo di giustizia. Veniva detto loro che in quella luce l’ombra non nascondeva nulla, era come un rivelatore. Proprio durante i cataclismi che si susseguirono senza tregua venne attribuito a Dio un nuovo nome, Yölah. I tempi erano cambiati, secondo la Promessa primordiale era nato un altro mondo, in una terra purificata, consacrata alla verità, sotto lo sguardo di Dio e di Abi, bisognava rinominare tutto, riscrivere tutto, in modo che la nuova vita non fosse in alcun modo contaminata dalla Storia precedente ormai obsoleta, rimossa come se non fosse mai esistita.
Ad Abi la Giusta Fraternità attribuì il titolo umile ma così esplicito di Delegato e inventò per lui un saluto sobrio e commovente, si diceva «Abi il Delegato, che la benedizione sia su di lui» e ci si baciava il dorso della mano sinistra.

Ma il Califfo fa più paura del fanta-islam di Sansal 
Nel romanzo2084lo scrittore algerino racconta un futuro oppresso da un fanatico impero musulmano: la realtà supera la fantasia Domenico Quirico Busiarda 9 3 2016
Il totalitarismo islamista, purtroppo, ha già vinto. La prova (non solo letteraria)? Leggete 2084 la fine del mondo, trasposizione orwelliana ai tempi del Califfato, dell’algerino Boualem Sansal, che Neri Pozza ha appena tradotto. L’autore sceglie di ricorrere alla fantasia e alla metafora romanzesca per raccontare una realtà che già esiste con mirabile nudità. E che divora la vita quotidiana di milioni di persone, spande l’acido urico di improvvisazioni teologiche su folle sottomesse con la forza e l’inganno e provoca nuove formidabili migrazioni. Il califfato di Siria e Iraq non è ahimè! un rosso preludio dell’Abistan, impero di fantasia che si estende a tutto il mondo dove regna il profeta Abi, delegato di Dio.
Ma, in grande maggioranza, queste persone sono anch’esse musulmane come i loro aguzzini e i falsi profeti che li tengono in pugno: per noi occidentali, lettori di 2084, dunque è come se non esistessero. La realtà che ha già ucciso, sta uccidendo e modella le anime di milioni di esseri umani nel pianeta islam per noi è un semplice pericolo, terribile ma remoto come la profezia di Sansal. La guerra tra i musulmani, il terrorismo, possono provocare qualche salutare brivido. Ma per ora cartaceo, letterario. Altro indizio che l’Occidente è una società che cede al fascino del crollo, lusingata dalla prospettiva della propria fine? 
L’Isis vince
Il Grande Apparato, la Giusta Fratellanza sono le istituzioni totalitarie che nella fantasia di Sansal regoleranno a puntino la vita di sudditi-automi di questo medioevo islamico prossimo venturo. Già. Ma a Mossul, a Raqqa, in Somalia o a Sirte o a Maiduguri non esistono e lavorano di gran lena, da due anni, a modellare e storcere le anime? Non sono stati imposti date, calendario, una Storia nuova e unica? Che sofferenza quel manipolo di otto milioni di uomini presi in trappola e che si dibattono, furiosamente e quelle donne dal volto dolente e quel dio crudele che vuol essere preferito a tutto! Il problema è che non è possibile vedere, visitare, capire e raccontare. Non ci resta allora che la fantasia dei romanzieri. Non è la prova che il Califfato sta vincendo? Altro che 2084!
Eppure Sansal è uno scrittore algerino: dunque ha già vissuto nel 2084, ne è un testimone. All’inizio degli Anni Novanta il suo Paese ha fatto le prove generali del mondo perfetto del dio Yolah e del suo ligio servo Abi. Trecentomila morti sono lì a provarlo, veri, straziati, sfracellati dal fanatismo che si fece politica e guerra: l’annientamento dei corpi per costruire la terra dei puri… Poteva scrivere un saggio storico, una autobiografia. Ma…
Leggendo il romanzo mi sorprendo a sorridere. Come accade guardando le figurazioni dell’inferno nella ingenua iconografia medioevale o nelle illustrazioni di Doré: forconi diavoli ghignanti fiamme. Ma l’inferno vero, si sa, è ben più terribile. Come 1984 è un pallido calco dei totalitarismi del novecento europeo (chi poteva immaginare la ferocia di Hitler e Stalin e dei loro zelanti caudatari?), a Mosul e a Raqqa uomini donne bimbi piangono lacrime di sangue come nessun scrittore riuscirà mai a immaginare. 
Omologazione
La omologazione totalitaria: i gemiti delle vittime si accompagnano ai gemiti dell’estasi mistica, forche crocefissioni e galere prosperano all’ombra di moschee strapiene, i predicatori di un islam spietato gridano la loro verità tra le raffiche dei mitra e i proclami dei boia che sgozzano gli ostaggi… Le epoche di fervore eccellono in opere sanguinarie. 
Il problema che il Califfato ci impone non è quello della costruzione di un ennesimo apparato totalitario, come racconta 2084: è quello di un totalitarismo che si basa purtroppo su dio. Gli assassini del califfato recitano preghiere sfrenate, distruttrici, polverizzanti, preghiere che irradiano la Fine. La leva su cui il califfato ha agito così efficacemente è quella della imposizione delle certezze, della messa fuori legge del dubbio, il più virtuoso dei vizi. Che cosa è il califfato se non la imposizione della certezza di aver trovato la Verità, la passione per il dogma, l’insediamento di un dogma? Il fanatismo, tara capitale, dà come sempre ai suoi adepti il gusto della efficacia assassina, della profezia omicida, del terrore con cui si stritolano gli animi: li si sottomette esaltandoli… Non ci si può difendere facilmente dalla grinfie di un profeta. 
I Purificatori
Abu Bakr, oggi e non nel remoto 2084, non perdona di vivere al di qua delle sue verità e dei suoi slanci pestiferi. La sua isteria, il suo Bene vuole farlo condividere, imporvelo e snaturarlo. Che ingenuità inventare che i Purificatori, i mori di Ariosto, vogliano muoversi all’attacco dei paesi della Grande Miscredenza, cioè noi! Pavlovismo di ex padroni della Storia che si suppongono ancora fondamentali. Loro lavorano semmai a creare sventurati eredi, quelli che, sì, un giorno ci attaccheranno: tutto questo verbo totalitario riversato in migliaia di madrasse su migliaia di scolari darà il suo frutto naturale perchè moltiplica, accumula sulle loro teste i rischi di un prossimo permanente oscurantismo, le minacce di tempeste, di discordia e di confusione. Stanno forgiando la generazione del jihad, progetto molto più pericoloso che la conquista di qualche città o di un attentato.
Corruzione e salvezza
Oggi, se il Terzo Reich non fosse stato sconfitto, la popolazione tedesca sarebbe formata dai nazisti perfetti, i bambini della gioventù hitleriana. Tra qualche anno il vicino oriente potrebbe essere guidato dai bambini che oggi vediamo nei video di propaganda impugnare fucili e gridare che vogliono battersi e morire per il califfo. Si sviluppa il dramma della debolezza umana di fronte a una situazione politica che si prolunga per una vita tanto che non è più possibile immaginarsi in una vita diversa. Ognuno si corrompe perché deve salvare se stesso. I fanatici invece sono incorruttibili: se per una idea sono capaci di uccidere allo stesso modo possono farsi uccidere per essa. Molti di loro hanno sofferto per le loro convinzioni estremiste. I tanti persecutori si reclutano appunto tra i martiri che sono sopravvissuti. La sofferenza non diminuisce il desiderio di potere, lo esaspera. Nasce la nuova Storia: fabbrica di assoluti, mitologia omicida, frenesia di orde e di assassini solitari, sete mortale di finzioni virtuose. Il califfato è riuscito a imporsi come centro, ragione e esito del Tempo. 
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Il nuovo mondo è un incubo senza più libertà FABIO GAMBARO Restampa 1 5 2016
Boualem Sansal è uno dei migliori autori algerini di lingua francese. Fin dal suo primo romanzo, Le serment des barbares, ha dimostrato la capacità di scavare nelle contraddizioni del mondo arabo. Strenuo difensore della laicità e della libertà di pensiero, nonché critico delle derive del fondamentalismo islamico, lo scrittore che vive ad Algeri si è sempre battuto contro ogni forma d’intolleranza. Vincitore del Grand Prix du Roman de l’Académie Française, nonché miglior libro del 2015 secondo la rivista Lire,
quest’ottimo romanzo d’anticipazione, che fin dal titolo rende omaggio a George Orwell, mette in scena un impero immaginario, l’Abistan, dominato da una teocrazia totalitaria che regna nel nome di Abi, «il delegato di Yölah in terra». Alla fine di una lunga guerra santa, il «paese dei credenti» si è trasformato in un mondo di sottomissione che vota cieca ubbidienza a dio e ai suoi ministri terreni. I quali per rendere irreversibile l’abbandono della ragione critica, hanno forgiato una nuova lingua, un nuovo calendario, una nuova storia.
In questo universo dominato dal pensiero unico, c’è però chi prova ancora a pensare con la propria testa. Come Ati, che si ostina a cercare la verità dietro il velo delle apparenze, tanto che, insieme all’amico Koa, si metterà in viaggio alla ricerca di un popolo di rinnegati che, al di là della frontiera, sarebbe capace di vivere senza religioni. Sansal trasforma la cupa profezia sulle minacce del fondamentalismo religioso in un grido di rivolta contro le menzogne del potere. Romanzo di denuncia, 2084. La fine del mondo è un’opera lucida e coraggiosa da leggere e meditare.

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