venerdì 11 marzo 2016

Il corpus ambrosiano: Franco Cardini

FRANCO CARDINI Avvenire 11 marzo 2016

LA TEOCRAZIA DI AMBROGIO
Un saggio di Franco Cardini, edito da Salerno, mette in discussione l’eredità del grande santo vissuto nel IV secolo. «Forse senza di lui non avremmo avuto l’Inquisizione né un conflitto così aspro tra il mondo cattolico e la modernità»
Corriere della Sera 26 Apr 2016 di Paolo Mieli
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio, solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale». Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.

Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore

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